La tragedia del Titanic è divenuta simbolo della società dei consumi che si crede immortale...
di Stenio Solinas - 16/04/2012
La tragedia del Titanic di un secolo fa è divenuta simbolo della società dei consumi che si crede immortale e della "fine della storia"
L’orchestrina del Titanic che suonava mentre il transatlantico centrava l’iceberg racconta il suicidio inconsapevole di una civiltà, ma la sua musica non è molto diversa da quella di una società dei consumi occidentale immersa nella tempesta perfetta monetaria e speculativa che non ha saputo né prevedere né contenere e da cui si ostina e pensare di poter sfuggire riducendo le vele, mettendosi alla cappa e aspettando che passi. Allo stesso modo, il mito del progresso che sconfigge la forza bruta degli elementi e della natura, non è dissimile dal mito della «fine della storia» che all’indomani della scomparsa del comunismo si incaricava di raccontare una nuova alba, unica e pacificata, sulla mappa geopolitica del globo terrestre.
Storia, romanzo, metafora, termine di paragone. All’indomani della uscita cinematografica del Titanic di James Cameron, l’allora presidente cinese Jiang Zemin vi vide una parabola della lotta di classe. «I passeggeri di terza classe (il proletariato) si oppongono valorosamente all’equipaggio della nave (vili scagnozzi e leccapiedi dei capitalisti)». Dopodiché, invitò i compagni marxisti a studiare il modo in cui la pellicola dipingeva le classi e la distribuzione delle ricchezze: «arricchirsi» era divenuto «glorioso» e quindi tanto valeva andare a scuola da chi l’aveva già teorizzato...
Curiosamente, ma non troppo, il film metteva in cattiva luce quegli stessi elementi che al tempo del disastro erano stati esaltati: il controllo emotivo, la distinzione dei modi, in pratica il saper morire dei privilegiati di prima classe (123 passeggeri annegati su un totale di 175). Una sorta di conformismo all’incontrario che però la dice lunga su come, nel tempo, a uno stereotipo positivo si fosse sostituito soltanto il disprezzo e/o la caricatura, come se una classe dirigente, e dunque un’élite, non dovesse nemmeno più avere un codice comportamentale, un’etica e un’estetica a cui conformarsi.
«Tutta la nostra civiltà assomiglia al Titanic, nella sua potenza e nella sua impotenza, nella sua sicurezza e nella sua insicurezza. Non c’era alcun ragionevole rapporto fra il livello delle misure previste per il lusso e per il piacere e il livello delle misure previste per il bisogno e per la disperazione. Il progetto si era concentrato troppo sul benessere e poco sul disagio: proprio come lo Stato moderno». In questo giudizio di G.K. Chesterton, scritto a ridosso della tragedia, c’è materia interessante per un’ulteriore comparazione fra quella civiltà e la nostra. Lasciamo stare ciò che in ogni storia umana è un insieme di ambizioni e di arroganze, di privilegi e di ingiustizie, di sotterfugi e di nobiltà. Sta di fatto che, per restare al nostro Occidente, un secolo dopo, la società di massa ha vinto la sua partita sulla società di classe, così come il Welfare e lo Stato sociale hanno preso il posto del puro e semplice sfruttamento padronale.
Sulla nave da crociera Costa Concordia che si inchina per sempre davanti all’isola del Giglio non ci sono gli emigranti e le terze classi del Titanic, ma un popolo di vacanzieri per i quali il lusso è un all inclusive.C’è la crisi economica, ma non si vuole rinunciare al proprio quarto d’ora di benessere. L’imperizia, l’incuria, la ricerca del capro espiatorio e l’arroganza tecnologica lo accompagnano, anche se, di fronte alla fuga dalle responsabilità, il rifarsi a codici antichi di comportamento suona patetico proprio perché da quei codici un’intera società si è intanto affrancata considerandoli retorici, reazionari, persino fascisti. La Costa Concordia è il Titanic del XXI secolo: meno tragica, meno epica, più prosaica. Comunque sott’acqua.