Yoga e induismo
di Daniele Pastori - 13/07/2006
L’”Hinduismo” è l’insieme di tutte le religioni della regione dell’Hindustan – “paese dei fiumi” -, cioè del subcontinente indiano, ad eccezione dell’islamismo, del cristianesimo, del mazdeismo, del buddhismo e del jainismo. E’ nata propbabilmente dallo spostamento (avvenuto attorno al 1000 aC) dei popoli arii (arya in sanscrito significa persona rispettata, quindi nobile) dall’Asia centrale verso l’India del Nord Ovest, un popolo con società patriarcale, divisa in quattro caste: brahmana, la casta sacerdotale (come i druidi celti e i magi persiani), ksatriya, quella guerriera (nella quale si trovavano anche i re, raja), vaisya, gli agricoltori e gli allevatori e infine sudra, i servi.
Le religioni che compongono l’induismo hanno una stessa visione del mondo, anche se viene rappresentata attraverso diverse vie culturali, mistiche e metafisiche. Le diverse divinità di ogni tradizione, non sono infatti altro che rappresentazioni delle stesse potenze, che a loro volta sono differenziazioni del “Dio senza dualità” - il Brahman -, create per mezzo dell’avidya-ignoranza.
Brahman è il verbo creatore dell’Universo, è l’atman incarnato in ogni essere, è il motore immobile che spinge ogni cosa al movimento, senza far parte dello stesso moto; non può essere intravisto da occhi umani, può essere appena concepito da menti che si avviano verso la jnana (conoscenza, corrispondente alla gnosis) e con essa strappano il velo di maia. Scopo ultimo delle pratiche yoga è diventare questo Brahman superando ogni dualità e distruggendo il ciclo delle continue nascite e morti che ci costringono su questo mondo (il significato di jnana è proprio intuizione della propria identità con lo Spirito Universale, cioè dell’Atman con il Brahman).
Attraverso il sacrificio della meditazione, dell’abbandono dei piaceri terreni (non si tratta di mortificazioni del corpo, ma soltanto di cercare un distacco dagli oggetti che potrebbero legare alla vita umana) e dell’autocontrollo, lo yogi arriva a dominare il corpo, il respiro e la mente per potersi dedicare senza interferenze alla meditazione sull’Assoluto. Lo yogi è al tempo stesso sacrificante, sacrificio e destinatario delle offerte, in quanto mira a diventare l’uno assoluto, simboleggiato dal drago o dall’albero del mondo. L’unico modo per diventare l’unità è uccidere questo drago per poter creare ogni cosa. Infine, assimilando il serpente (molto simile all’eucaristia cristiana e alle varie bevande d’immortalità di ogni tradizione) si assumono i suoi poteri e si diventa di conseguenza il creatore stesso (mangiando il drago, inoltre, si elimina il suo male, assimilando soltanto la parte “positiva”). Questa non è altro che una rappresentazione dei cicli cosmici, per i quali l’Uno si distrugge e si divide in molti, per poi richiudersi in sé stesso e tornare l’indistinto.
Il sacrificio riflette il mito. Brahman (non il Sé, il dio con quel nome, praticamente la parte maschile) genera tutto, Visnu mantiene e Shiva distrugge, per ricreare nuovamente tutto. Proprio come Iside, Apophis e Osiride; Odino, Loki e Balder e chi più ne ha, più ne metta. (Per trimurti (Brahman-Visnu-Shiva) ed altre “trinità” cfr. Renè Guenon, La Grande Triade),
E’ detto che ogni atto è sacro, ma anche che fare male equivale a non fare (si intende un’azione negativa, non lo spostarsi al di sopra dell’azione e costituirne il centro immobile) ed è quindi vano e profano. Il sacrificio puramente esteriore non porta a nulla, il vero sacrificio è interno e silenzioso, è il sé sacrificato al Sé, l’abbandono dell’io per diventare Quello. Il Sé è ciò che amiamo in tutte le cose, è l’indistinto che sussiste come dualità nel mondo materiale perché spiegato dal nostro punto di vista, il vero padre di tutti e tutto, nonché il motore immobile (essere) che fa muovere qualsiasi cosa (divenire).
Per fermare il divenire e spostarsi sull’essere, lo yogi deve seguire la propria vocazione (a seconda della casta di cui fa parte) e pian piano staccarsi da tutto e tutti. Lo stadio finale è quello di abbandono di ogni legge morale e delle verità teologiche, arrivando addirittura (metaforicamente) a violentare la propria madre (potrebbe equivalere ad unirsi con il principio creatore).
Per gli indù la vita deve seguire quattro fasi (ashrama) : 1. Formazione e studio. 2. Uomo sposato e legato alle passioni. 3. Ritiro dal mondo e povertà. 4. Rinuncia totale (samnyasa). Quindi per potersi portare nella strada dell’ascesi bisogna aver prima conosciuto il vortice delle passioni e successivamente compiere il grande salto ed abbandonare tutto, così come fece il padre del Buddhismo, Gothama Siddartha. La coscienza (ragione) è soltanto un mezzo per controllare la volontà, ma poi va abbandonata (come la zattera per passare il fiume, secondo una nota allegoria buddhista) verso una super-coscienza – e non un in-coscienza. Per dirla con gli esempi di Guenon, la coscienza serve a diventare Uomo Vero (sé), mentre per diventare Uomo Trascendente (Sé) bisogna sbarazzarsene in modo da poter superare l’individualità. Per cui non bisogna abbandonarsi a se stessi, ma conoscere la padronanza e successivamente lasciarsi guidare dal sé verso il Sé. Il dharma (=legge, è la via da seguire per ogni casta) è la zattera, le virtù da portare al cospetto di Dio e da sacrificare, divenendo un Arhat, un dio che può fare ciò che vuole, perché al di sopra di ogni giudizio, anzi, al di sopra di tutto. Egli (l’Arhat) è inconoscibile (ananuvedya), nessuno può giudicare né capire il suo operato. E’ il Sé incarnato (al contrario degli Avatara, le incarnazioni degli dei portano all’individuo il dharma, mentre l’uomo divinizzato ha il compito opposto di riassorbirlo, di distruggerlo). In realtà questo Sé è già presente in noi, non è un’entità distinta. O meglio, non è un’entità.
Se ogni dio è una rappresentazione di una potenza, Brahman (per chi non l’avesse ancora capito, scrivere Brahman è equivalente a scrivere Sé) è l’unione di queste potenze, comprese tempo è spazio; è ciò che regge tutto, ma è anche il tutto. E’ difficile capire se sia più giusto dire che il Sé è in noi o che noi siamo nel Sé. Resta comunque importante la divinizzazione dell’uomo stesso, la volontà cosciente che comanda le forze che lo circondano, attraverso la conoscenza transrazionale (jnana).
Na-adevo devam arcayet, “chi non sia già un dio, non veneri un dio”. Come già detto, per diventare un dio bisogna sacrificare il sé e liberarsi dal flusso (samsara) di nascite e morti creato dall’avidya-ignoranza.
Samsara è l’esperienza di vita materiale condizionata da tre negatività: dnava-mala: l’errore di identificarsi in qualcuno, karma-mala: l’errore di ritenersi padrone delle proprie azioni e maia-mala: l’errore di prendere per reale il mondo. Bisogna quindi andare oltre il concetto di bene e male, superare cioè sia i deva (gli dei “buoni”) che gli asura (i loro opposti). Degno di nota è il fatto che ogni deva abbia un asura corrispondente e possano essere considerati come due aspetti di una sola entità (proprio come Odino-Wotan). L’Induismo non dice affatto di liberarsi del lato negativo o femmineo, bensì di conoscerlo e farlo diventare parte di sé, bisogna sposare Shiva con Shakti: conoscere le potenze e farle proprie, portandosi sul piano dell’azione pura, libera dalle conseguenze (cfr. il “cavalcare la tigre” evoliano).
In realtà anche il concetto di casta può essere ricollegato alla zattera, anch’esso sarà riassorbito quando la persona diventerà qualcosa di più che uomo, dopo che avrà strappato il velo creato da MaiaShakti (Shakti vuol dire semplicemente sposa -o potenza, è solo un modo di personificare il velo di Maia), superando cioè buddhi, ahamkara, indriya e manas (rispettivamente psiche, ego, facoltà di azione e percezione, mente).
Sta quindi a noi se scegliere la via dei padri (pitr-yana, la strada della reincarnazione, simboleggiata dalla luna) o la via degli dei (deva-yana, la strada da cui non si ritorna, simboleggiata dal sole), rispettare o superare i limiti umani.
Bibliografia
Ananda J. Coomaraswami, Induismo e Buddhismo.
Taisen Deshimaru, Il vero Zen.
Leonardo Vittorio Arena, Buddha.
Pio Filippani-Ronconi, L’Induismo.