Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / L’omaggio del poeta a una bella donna è una debolezza che fa male ad entrambi

L’omaggio del poeta a una bella donna è una debolezza che fa male ad entrambi

di Francesco Lamendola - 30/04/2012

 


 

Vi sono delle specie umane assolutamente incompatibili e tuttavia, per una perversa alchimia delle rispettive nature, perfettamente complementari: ma di una complementarità sterile, dolorosa, che non fa bene ad alcuna di esse.

Un caso emblematico è quello dei poeti e delle belle donne.

Il poeta, per definizione, è un innamorato della bellezza: la cerca ovunque, la sospira, la desidera; ne ha bisogno come dell’aria da respirare, né potrebbe vivere senza di essa o, almeno, senza la speranza di poterla, in qualche modo, raggiungere, anche solo per contemplarla da lontano.

La donna, da parte sua, specialmente se bella, ha bisogno dell’ammirazione altrui: non può farne a meno, è nella sua natura; anche il gesto che sembra più casuale, anche lo sguardo che pare più distratto, tutto in lei nasce dal segreto desiderio di fare colpo, di essere ammirata, di essere lodata, complimentata, desiderata.

Sembrano, pertanto, due specie destinate ad incontrarsi; e così, di fatto, avviene: ma non è detto che sia un incontro felice, anzi, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di un incontro sterile, doloroso, che non fa del bene né all’uno, né all’altra.

Non fa bene al poeta, perché dalla celebrazione della bellezza femminile egli è portato, quasi inevitabilmente, ad invaghirsi di quella donna in cui la vede incarnata: non si rende conto che la vera bellezza è nel suo stesso sguardo, nello sguardo della poesia; cade vittima di un abbaglio clamoroso, s’immagina che la bellezza sia proprio nella persona fisica della donna che lo ha ispirato; e, come se non bastasse, quasi sempre egli è portato a credere che alla bellezza fisica corrispondano eccelse qualità dell’anima.

Quale inganno, quale illusione! Il poeta riveste una donna qualsiasi di meravigliosi attributi e non si rende conto che essi non sono in lei, ma nella sua sensibilità, nella sua fantasia, nella sua immaginazione; non si rende conto di avere davanti una creatura assolutamente ordinaria, assolutamente banale, assolutamente priva di mistero; non la vede per come ella è, ma per come vorrebbe che fosse, per come ha bisogno che di credere che ella sia.

Un secondo e più grave errore è quello di spostarsi dal terreno dall’ideale a quello del reale, allorché cerca e si attende una risposta sul piano dei sentimenti: s’immagina che il suo amore sia così grande, da rendere impossibile che lei non lo corrisponda; errore che deve essere ben radicato nella natura umana, se vi è caduto anche un gigante come Dante, là dove dice, in omaggio alle bislacche teorie stilnoviste: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona».

Sul piano della realtà pratica, le cose vanno assai diversamente da come s’immaginano i poeti; ne fece amara esperienza Giacomo Leopardi, del quale la donna da lui disperatamente amata, la bella Fanny Targioni Tozzetti, non seppe fare altro commento se non che avrebbe dovuto almeno cambiarsi più spesso la camicia, visto che non profumava troppo.

Allo stesso tempo, l’omaggio poetico nei confronti delle belle donne non fa bene neppure a queste ultime; vediamo perché.

In un primo momento, la donna che riceve un simile omaggio, specialmente se da parte di un vero poeta, ne rimane folgorata, incredula, lusingatissima; poi, se l’omaggio persiste, finisce per accettarlo benignamente, come cosa assolutamente normale e quasi dovuta; infine, se il poeta insiste coi suoi madrigali, e se, magari, osa alludere a una richiesta di tipo sentimentale, gli volta le spalle seccata: ha ben altre cose da fare, lei, che perder tempo dietro ai poeti: per esempio, cercarsi un marito ricco e potente, capace di soddisfare ogni suo capriccio materiale.

Le poesie son buone da mettere in cornice, non danno pellicce né gioielli; ed è proprio questo che la bella donna si affretta a fare, a metterle in cornice nel proprio ricordo, come farebbe un cacciatore con il suo trofeo di caccia grossa; e concedendosi in esse, quando ne ha voglia, il piacere d’un bagno rigeneratore per la propria immensa vanità.

Di aver spezzato un cuoricino, non le passa nemmeno per la testa; di aver lusingato, con i suoi sorrisi compici, un poveretto che non sa nulla delle schermaglie amorose, manipolandolo per ottenere il massimo della gratificazione al proprio orgoglio, non le rimorde affatto la coscienza: è forse colpa sua, se quello sciocco si è montato la testa e ha creduto quel che non c’era? Che colpa ne ha lei, di essere così strepitosamente bella, così desiderabile e irresistibile?

Ecco perché l’omaggio poetico non fa bene neppure a lei: la lusinga e la rafforza nella propria superficialità, nel proprio atteggiamento manipolatorio verso l’altro, nel proprio infantile narcisismo, cristallizzandola a un livello di sviluppo pre-adolescenziale.

D’altra parte, è un fatto notevole, e alquanto ironico, che dall’incontro fatale tra un ingenuo poeta e una donna bella e vanitosa sono scaturiti alcuni dei versi più incantevoli della letteratura universale, da Petrarca a Yeats.

Già, Yeats: che, con la sua poesia «When you are old», «Quando sarai vecchia», dedicata alla donna da lui amata per tutta la vita, e dalla quale è stato sempre respinto, l’attrice Maud Gonne, ha aggiunto un ulteriore e più imperdonabile errore a quelli già elencati: averle dato la soddisfazione di lasciarle una testimonianza perenne del suo patetico e impotente desiderio di vendetta, che le avrà offerto, crediamo, molti altri anni di ego sfrenato e compiaciuto (traduzione di Eugenio Montale, in: E. Montale, «Tutte le poesie», Milano, Mondadori, 1984):

 

«Quando tu sarai vecchia, tentennante

tra fuoco e veglia prendi questo libro,

leggilo senza fretta e sogna la dolcezza

dei tuoi occhi d’un tempo e le loro ombre.

 

Quanti hanno amato la tua dolce grazia

di allora e la bellezza di un vero o falso amore.

Ma uno solo ha amato l’anima tua pellegrina

e la tortura del tuo trascolorante volto.

 

Cùrvati dunque su questa tua griglia di brace

e di’ a te stessa a bassa voce Amore

ecco come tu fuggi alto sulle montagne

e nascondi il tuo pianto in uno sciame di stelle.»

 

L’idea della vendetta postuma (come nel Petrarca di «Chiare, fresche e dolci acque») è in quella fantasia un po’ sadica della donna ormai vecchia e quasi al limite estremo della vita, senza più attrattiva, senza più corteggiatori, con l’anima solo piena di ricordi; ma, senza rendersene conto, Yeats non ha fatto altro che donare alla donna un estremo, imperituro omaggio, rendendosi anche un po’ ridicolo con quel suggerire che lui solo, fra tutti, aveva saputo leggere nel suo cuore e amare la sua anima, non solo il suo corpo.

Infatti: o una donna capisce da sola di quale stoffa sia l’uomo che le sta davanti e che le offre tutto il suo amore, più e più volte, oppure non lo capisce né lo capirà mai: in entrambi i casi, non ha alcun senso che sia l’uomo a vantare le proprie benemerenze d’innamorato.

Non crediamo che Maud Gonne, leggendo i versi di Yeats, da vecchia, accanto al fuoco del camino, avrà compreso l’errore fatto nel rifiutare l’amore di lui e nell’avergli preferito quello di altri, più superficiali corteggiatori; crediamo, invece, che ella si sarà scaldata alle fiamme del proprio narcisismo, perennemente alimentate da quella involontaria confessione di amore eterno, tanto più gratificante in quanto proveniente da un innamorato respinto e deluso.

Ma Yeats è in buona compagnia: oltre a Petrarca, anche Catullo e Properzio sono caduti in questa trappola della dichiarazione “postuma”.

L’ideale, dunque, per il bene di entrambi, poeti e belle donne, sarebbe che i primi non incontrassero, nella loro vita, le seconde, ma delle donne mature e generose, capaci di leggere oltre le apparenze e di far tesoro della loro sensibilità, donando, a propria volta, saggezza e affetto; per le seconde, la fortuna sarebbe quella di incontrare degli uomini virili, che non si lascino incantare dalla loro bellezza, che anzi mostrino di disprezzarla (come fece Socrate con Alcibiade in quella famosa occasione, narrata senza perifrasi nel «Simposio»), ma che sappiano far leva su quanto di autentico c’è, se c’è, in fondo alla loro anima.

Insomma, il poeta ha bisogno di una donna che sappia donare e che non si lasci inebriare dal facile profumo delle lodi, perché sa di aver qualcosa di prezioso che va oltre il proprio aspetto fisico - del resto destinato a sfiorire inevitabilmente; la donna bella, da parte sua, ha bisogno di un uomo che non accarezzi il suo narcisismo, ma che la riporti con i piedi per terra e le ricordi in che cosa consistono le cose importanti della vita, in se stessa e nell’altro.

Questo, in teoria.

In pratica, i poeti continuano e sempre continueranno a innamorarsi delle belle donne, e queste ultime continuano e sempre continueranno a gradire oltremodo l’omaggio dei poeti, di cui si fanno una corona da sfoggiare come supremo riconoscimento di regalità; con il risultato che gli uni continueranno a soffrire inutilmente e a piangere sulle ceneri del loro amore infranto, le altre continueranno a rafforzarsi nella propria vanità e a precludersi la strada della maturazione interiore: perché la bellezza, di per sé, è un dono avvelenato, che solo chi ha un’anima eccezionalmente forte sa indossare nella maniera giusta.

E, di fatto, si vede che molti poeti celebrano nei loro versi le belle donne, ma poi sposano quelle sagge, anche se non belle; mentre le belle donne si vantano di aver fatto girare la testa ai poeti, ma poi non s’innamorano di loro, ma di uomini poco intellettuali, di uomini muscolosi che non hanno mai letto un libro e che non saprebbero scrivere nemmeno un verso.

Tutto bene quel che finisce bene, allora?

Purtroppo no: perché i poeti, delusi nei loro sogni infranti, saranno dei cattivi mariti, che continuano a rimpiangere le belle donne conosciute in giovinezza; mentre le belle donne, per quanto sessualmente soddisfatte da uomini cavernicoli, prima o poi sentono l’avvilimento di non essere amate con tenerezza, con dolcezza, con sensibilità, ma usate come femmine da letto: potranno nasconderlo a tutti, ma non a se stesse.

Gli uni e le altre sono probabili candidati alla depressione: il destino che attende quanti, in se stessi, non riescono a mettere d’accordo il sogno e la realtà (e Don Chisciotte, di depressione, muore addirittura, perché la vita ha peso ogni interesse ai suoi occhi).

C’è modo di uscire da questo vicolo cieco, da questa spirale maligna?

Il modo c’è sempre, ed è l’eterno «conosci te stesso» dell’oracolo di Delfi.

Chi, lavorando su se stesso, con coraggio e con limpido sguardo, impara a conoscersi e a riconoscersi, può evitare le dinamiche distruttive di cui abbiamo detto.

Il poeta, pur continuando ad amare sopra tutto la bellezza, come è nella sua natura, imparerà a non mescolare indebitamente il piano del sogno con quello della realtà: imparerà ad essere, per così dire, un sognatore desto e consapevole, in luogo di un sognatore cieco e allucinato.

E scoprirà che la bellezza non è solo nelle belle forme, ma anche e soprattutto nelle pieghe dell’anima.

La bella donna, da parte sua, imparerà a non inorgoglirsi troppo della propria bellezza, a non farne troppo conto, anche perché verrà fatalmente il tempo in cui dovrà camminare da sola, sulle proprie gambe: allora si vedrà di che stoffa è fatta, quando la sua bellezza sarà solo un ricordo.

Se riuscirà a comprendere queste cose per tempo, allora la bella donna riceverà anche un altro dono dalla vita: quello di saper riconoscere, fra i tanti adoratori da strapazzo, quelli che valgono qualcosa.