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Bisogna saper vincere (specie in tempi di matriarcato)

di Francesco Lamendola - 16/05/2012


 

«Bisogna saper perdere», recitava il testo di una vecchia canzone di Sanremo che, ironia della sorte, andò in finale proprio nel 1967, mentre si consumava, all’ombra dei riflettori del festival della canzonetta per eccellenza, il dramma di Luigi Tenco.

Ma che bisogna saper perdere, è una banalità evidente, e solo un gruppo musicale scalcagnato come i «Rokes» poteva farne una bandiera da sventolare all’insegna della freschezza, della giovinezza e, magari, della originalità.

Si sa che la sconfitta è figlia di nessuno, mentre la vittoria ha innumerevoli padri e madri: ecco perché chi perde deve possedere molta dignità e molta signorilità, se vuol essere almeno all’altezza della propria caduta. Nessuno gli concederà il diritto il replica, perfino gli ex amici gli volteranno le spalle e si affretteranno a decretare («tutto ciò che è reale è razionale e viceversa», sentenziavano i due grandi ciarlatani, Hegel e Croce) che, se è andata così, doveva per forza andare così, pena mettere in dubbio la perfetta razionalità dell’esistente.

Ma c’è pure l’altro lato della medaglia, sul quale di solito si evita accuratamente di indugiare: e cioè che bisogna anche saper vincere - bisogna sapere vincere con un minimo di stile, altrimenti non solo si sciupano, per arroganza e stupidità, i frutti della propria vittoria, ma si finisce per diventare dei perdenti dal punto di vista morale.

Quale gloria è venuta al vincitore Maramaldo dall’aver pugnalato a morte il ferito e già sconfitto Francesco Ferrucci? Vincere non basta: bisogna saper vincere; bisogna, cioè, saper amministrare la vittoria con saggezza, con generosità, con lungimiranza.  Cosa difficilissima, perché, notoriamente, la vittoria è un vino ad alta gradazione alcolica, che dà alla testa in men che non si dica: ed ecco, da un momento all’altro, il vincitore che si trascina barcollando, ubriaco fradicio, del tutto incapace di fare buon uso della propria vittoria e avviato  a collezionare irrimediabilmente errori su errori, che poi dovrà scontare amaramente, in un modo o nell’altro.

Chi insegna che la vittoria è tutto, non ha capito nulla della dialettica dell’esistenza; vincere, al contrario, è solo il primo gradino di una scala, la cui salita si rivela quasi sempre lunga e faticosa: molto più lunga e molto più faticosa di quanto non si potesse immaginare. Diciamolo pure: la vittoria è la maledizione dei cretini.

Non è nella vittoria, ma nella sconfitta che si vede la stoffa di una persona, di un esercito, di un popolo.

Nella vittoria, i difetti nascosti diventano palesi, perché le inibizioni cadono, la tensione si allenta, la maschera viene tolta e tutte le miserie, tutte le tendenze negative che prima erano allo stato latente, o non si trovavano esposte alo sguardo di chiunque, ora vengono illuminate dalla luce cruda dei riflettori.

La vittoria bisogna meritarsela: vincere è solo il primo passo, il più e il meglio vengono dopo; non si vince in un momento, si vince sulla lunga distanza. Prima di giudicare se qualcuno ha vinto realmente, oppure se era solo apparso vincitore, bisogna che trascorra un certo tempo: il tempo è galantuomo e metterà le cose in chiaro, gradualmente ma spietatamente.

La cosa è particolarmente evidente nelle epoche di decadenza, come lo è la nostra, o come lo furono la tarda grecità e la tarda romanità: perché in tali epoche si vince più che mai con le armi dell’astuzia e non con quelle della forza (che è venuta meno); dunque, per prima cosa, in cui a vincere, anche se non sempre in modo palese, sono le donne e non gli uomini.

La cosa era già fin troppo chiara dalla lezione della storia antica; ma oggi è divenuta, se possibile, ancor più chiara.

Chi governava gli Stati Uniti d’America, il cowboy Ronald Reagan o sua moglie Nancy? E, oggi, il radical chic Barack Obama, o la statuaria moglie Michelle?

In Francia governa Nicholas Sarkozy, o l’elegante signora Carla Bruni?

Per venire alle cose (e agli squallori) di casa nostra: nella Lega che ce l’aveva duro, comandavano gli uomini o le donne? Visto il potere esercitato dalle donne che giravano intorno al Senatur nostrano - la moglie, la segretaria e diverse altre -, il dubbio appare più che legittimo; anzi, se volgiamo essere sinceri, non è nemmeno un dubbio, bensì una evidenza.

Questo, per quanto riguarda la politica; ma, se si passa agli altri ambiti della società odierna, il quadro cambia di poco. Sembra che a farla da padroni siano sempre e solo gli uomini: invece ci si accorge, se appena si gratta un po’ la vernice, che dietro ogni uomo di potere c’è una donna attenta, ambiziosa, volitiva, abbastanza intelligente da tenersi discretamente nell’ombra.

O meglio, così andavano le cose fino a qualche anno fa. Da un po’ di tempo a questa parte, il vino della vittoria ha dato alla testa a molte di queste intraprendenti signore, ha fatto scordar loro la regola numero uno delle eminenze grigie d’ogni tempo e d’ogni paese: tenere un basso profilo, farsi notare il meno possibile, accontentarsi della sostanza del potere, facendo spartanamente a meno dei suoi orpelli esteriori.

Ma come resistere alla tentazione, al tempo della civiltà dell’immagine, dove tutto quel che conta è apparire, farsi notare, farsi ammirare; e ogni cosa, compresa la lotta per il potere, è finalizzata a questo? Vincere di fatto e poi tenersi nascosti, è un controsenso: sarebbe come accendere la lampada e poi tenerla sotto il moggio, vanificandone la luce.

No, quella di tenere un basso profilo è una filosofia troppo sottile, troppo esigente, diciamo pure troppo intelligente, per chi vuol godersi al massimo i frutti della propria vittoria: la tentazione di strafare è irresistibile, contagia tutti e non risparmia alcuno.

Del resto, tale è la nemesi del potere nella società di massa: che quanti lo esercitano non sono, psicologicamente e moralmente parlando, di una stoffa diversa dai cittadini comuni, anonimi e perciò frustrati dalla mancanza di visibilità; così, il fatto di spiccare, di attirare gli sguardi, di far accendere le telecamere, diventa una necessità compulsiva, una droga di cui è assolutamente impossibile fare a meno.

Appaio, dunque sono: tale è l’imperativo categorico dell’individualista di massa, uomo o donna che sia; e le donne, in questo ambito, possiedono una antica e gloriosa tradizione: molto più antica e molto più gloriosa di quella degli uomini.

Come si potrebbe essere tanto crudeli da chiedere loro un po’ di moderazione, un passo indietro, una capacità di autolimitarsi?

Eh no, questo sarebbe l’ultimo e più pericoloso colpo di coda del morente maschilismo: chiedere a una donna che ha vinto, che ha vinto doppiamente - perché ha vinto su di un uomo vincente -, di tenersi indietro, sarebbe come chiederle di vanificare le sacrosante conquiste di un secolo e passa di battaglie femministe; sarebbe come chiederle di spegnere i lumini perpetui sotto l’altare di Emmeline Pankhurst, di profanare la memoria di Emily Davison, che si gettò sotto gli zoccoli del cavallo del sovrano inglese, nel bel mezzo di un derby.

Tante lotte e tanti sacrifici non meritano di essere gettati a vento in tal modo, solo per un ritegno d’altri tempi, del resto maschilista nella sua essenza e nelle sue implicazioni: se il potere logora chi non ce l’ha, a maggior ragione esso logorerebbe chi ce l’avesse, ma decidesse di non mostrarlo, di non esibirlo, di non sbatterlo in faccia a tutti quanti.

E allora, bando agli scrupoli: ecco le donne di potere farsi avanti, catturare l’obiettivo dei fotografi, pavoneggiarsi nei loro vestiti costosissimi e nei loro gioielli; eccole andarsene in vacanza, preferibilmente senza gl’ingombranti mariti, occupando una sessantina di stanze d’albergo (come fece Michelle Obama in Spagna), con un esercito di bodyguard, di sarti, di cuochi, di dietologi, di parrucchieri e via dicendo); eccole mobilitare le forze di sicurezza, sequestrare spiagge e hotel di lusso, bloccare il traffico, segregare gl’importuni aborigeni nelle loro riserve.

Perché limitarsi, perché non godere pienamente l’aura dolcissima della vittoria, perché non fregiarsene il petto e la fronte?

La cosa risulterebbe tanto più intollerabile, in quanto farebbe ripiombare nell’ombra colei (o colui) che, tolti gli orpelli esteriori del successo e del potere, non differirebbe in nulla dal cittadino comune, così come non differiva in nulla prima che la svolta si verificasse.

In una società caratterizzata dall’individualismo di massa, tutti sono mediocri e tuttavia non ce n’è nessuno che non si senta eccezionale e non si ritenga meritevole di gloria, successo e potere: da qui la segreta invidia, il rancore represso a fatica, la nevrosi da frustrazione sempre incombente, che caratterizzano la psicologia di ciascuno.

Orbene, se una di queste nullità riesce a salire al volo sul treno giusto, ad afferrare la fortuna per i capelli, a proiettarsi, con tanta faccia tosta e pochissimo merito reale, verso gli orizzonti di gloria del successo e del potere, quale mostro di insensibilità potrebbe chiederle di rientrare in quell’anonimato da cui proviene?

La rivolta del narcisismo esacerbato non nasce quasi mai dalla coscienza del proprio valore, ma dalla segreta consapevolezza del proprio disvalore, che si alimenta di ogni sorta d fantasmi per filtrare la realtà e fabbricarsi un’immagine ideale di sé; un’immagine che sia, almeno in parte, all’altezza dei propri sogni di gloria.

Ma è proprio in questa mancanza di misura, di buon gusto, di discrezione, che si può misurare tutta l’abissale inadeguatezza di certe persone banali, che uno scherzo del destino ha proiettato sulla ribalta e che vizia e coccola, come fa la regina Titania con Bottom, l’attore dalla testa d’asino, nel «Sogno di una note di mezza estate» di Shakespeare.

Bottom riceve le carezze, i sospiri e le parole di lode sperticata che gli rivolge Titania, come se fossero cose perfettamente naturali e quasi dovute; nel mondo moderno, infatti, non c’è imbecille che non si senta un Archimede e che non ritenga di aver diritto all’ammirazione degli altri, oltre che ad una proporzionata dose di visibilità.

Che cosa sarebbe Barack Obama, senza Michelle? E che cosa sarebbe Michelle, se non fosse la moglie del capo di stato più potente del mondo? Chi si sarebbe accorto di lei, se non i vicini di casa e le poche persone della sua cerchia ristretta di donna comune?

Michelle è alta più d’un metro e ottanta: troppo, come first lady, per mettersi le scarpe con i tacchi alti: ma come resistere alla tentazione di apparire ancora più alta?

Michelle ha le spalle larghe, da atleta: troppo, come first lady: ma come resistere alla tentazione di indossare abiti sgargianti e coloratissimi, che la fanno apparire ancora più imponente?

Michelle ha una dentatura poderosa e bianchissima: troppo poderosa e troppo candida, per una donna che non fa l’attrice e nemmeno la campionessa di wrestling, ma l’inquilina della Casa Bianca; ma come resistere alla tentazione di ridere, di ridere spesso, rumorosamente, mostrando quella formidabile dentatura in tutta la sua scintillante, scandalosa possanza?

Michelle è magra, d’una magrezza da sportiva o da modella: troppo, per non far sentire inadeguate le donne comuni, le massaie, le impiegate, le cameriere, che hanno votato per suo marito, e - a maggior ragione - quelle che non l’hanno votato; ma come resistere alla tentazione di farne continuamente mostra, lanciando una campagna contro l’obesità che assomiglia sempre più a una crociata e che richiama gli sguardi di tutti sul suo corpo, così strepitosamente tonico e asciutto da sembrare scolpito?

Ecco, questa è la differenza fra l’età delle masse e l’età delle gerarchie: quel che un tempo sarebbe stato evidente - non ostentare il successo, non strafare, non eccedere nell’esibirlo - ora non lo è più, anzi è divenuto evidente il contrario.

Una persona, però, la si giudica dal modo in cui sa vincere: chi perde la testa nella vittoria, vuol dire che non la meritava; e finirà per rovinarsi con le sue stese mani.

Il popolo-massa ha bisogno di miti, di feticci da adorare; ma ha anche bisogno di odiarli segretamente, perché li invidia e, nel suo intimo, non li riconosce come superiori a sé; per cui ne desidera inconsciamente l’insuccesso, la caduta, l’umiliazione.

Ed è difficile che non gli si presenti, prima o dopo, l’occasione buona per vendicarsi….