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Dobbiamo ribellarci alla dittatura della pancia

di Francesco Lamendola - 16/05/2012

 

 

Il sistema di pensiero oggi dominante, da cui discendono le istituzioni, i rapporti economici e sociali e tutta la nostra filosofia di vita, dovrebbe chiamarsi, più che “demagogico”, “epacratico”: dal latino “hepar” (“hipar” nel latino tardo) e dal greco “hêpar”, che significa fegato: dunque governo, o meglio, tirannia del ventre, della pancia.

Gli uomini politici hanno lanciato la moda, imitando a loro volta gli esperti di messaggi pubblicitari,  e tutto il sistema della comunicazione si è prontamente adeguato: non ci si rivolge più alla testa delle persone, per persuaderle di qualcosa; non si fa più leva sull’intelligenza, sul buon senso, sulla coerenza: tutta roba ormai vecchia e superata.

Ci si rivolge al ventre delle persone, anzi, delle masse (dove le persone scompaiono e diventano non-persone, anonime e intercambiabili), alla loro pancia: cioè ai loro istinti primordiali, primo fra tutti quello di farsi ingannare, e alle loro passioni viscerali, prima fra tutte quella di adorare incondizionatamente qualche salvatore, quale messia, qualche capo carismatico, e delegargli la fastidiosa responsabilità di pensare con il proprio cervello e di decidere secondo la propria coscienza.

Una volta stabilita la dittatura della pancia, non ha più alcuna importanza quel che si dice e, meno ancora, quel che si fa: tutto quello che importa è il modo in cui lo si dice, che deve essere martellante, imperioso, ipnotico, e voilà, il gioco è fatto: qualunque sciocchezza diventa una cosa seria, qualunque cialtrone diventa un grande leader, qualunque pasticcio diventa la quintessenza della chiarezza e della linearità.

Si può andare al governo e fare tutto il contrario di ciò che si era promesso durante la campagna elettorale: la cosa non solo verrà tollerata, ma anzi, la contraddizione non apparirà neppure come tale; basterà continuare a ripetere gli slogan di prima, insistentemente, ossessivamente, senza stancarsi mai: ed ecco, la magia entrerà nelle pance, nessuno griderà alla truffa, al tradimento, ma tutti applaudiranno e andranno letteralmente in estasi per quei campioni di coerenza e di fedeltà nei confronti degli elettori.

Del resto, per ricordarsi delle promesse fatte a suo tempo, bisogna possedere un minimo di memoria: e chi ha più memoria, nella dittatura delle masse, drogate e anestetizzate dai riti demenziali del consumismo, dove un vestito è fuori moda da un anno all’altro, e una canzone diventa fuori moda da un mese all’altro, da una settimana all’altra?

Dalla pubblicità e dalla politica, la dittatura della pancia è passata ed è dilagata in ogni altro ambito della vita associata, ivi compresa la cosiddetta cultura: è sorta addirittura una nuova classe di sofisti, i sedicenti intellettuali, il cui compito è appunto quello di costruire l’altrui consenso e la propria carriera - le due cose coincidono, e già questo dovrebbe metterci in guardia contro di loro - sugli istinti primari e sulle passioni viscerali del pubblico.

Su cos’altro si basa, del resto, la moda, con tutti gli immensi interessi economici che la sorreggono e ne dipendono, se non sulla dittatura della pancia? Sul fatto che tutti, annullando il proprio raziocinio e la propria personalità, indossano un abito che altri hanno detto essere bellissimo e senza il quale non si è nessuno, si è fuori moda, appunto, cioè respinti nel regno delle ombre, dei non vivi, dei morti in vita? Ma chi è che lo dice? La pancia, i visceri, non certo l’intelligenza e meno ancora il buon senso (nonché, non di rado, il semplice buon gusto).

La moda di esporre il ventre scoperto è la perfetta immagine di questa dittatura dei bassi istinti, degli impulsi viscerali, che nasce da un meccanismo psicologico insito nella natura umana: la tendenza a fuggire dalle responsabilità, e dunque anche dalla propria intelligenza, dalla propria coscienza, dalla propria volontà, in nome della pigrizia, del quieto vivere, del conformismo eretto a sistema.

I moderni dittatori della pancia non hanno fatto altro che trarre le conseguenze pratiche da questa tendenza, esasperandola ad arte con le tecniche persuasive più varie: ora raffinate, ora rozze; ma sempre, nella sostanza, profondamente intrise di disprezzo per la persona umana.

Pensare è faticoso, assumersi delle responsabilità è tremendamente scomodo: tutti, istintivamente, cercano una scorciatoia, un espediente qualsiasi per sottrarvisi.

Una persona che abbia ricevuto una retta educazione morale, non solo dai genitori, ma dalla società nel complesso, resiste, nondimeno, a una simile tentazione, perché sente che essa è indegna di un essere umano che meriti il rispetto di se stesso e degli altri; lotta contro la propria pigrizia, contro il proprio desiderio di quieto vivere, per conquistare il diritto di essere una persona, affrontando i sacrifici che ciò richiede.

Ma questo, oggi, è un discorso che non piace.

Chi ancora ha voglia di fare dei sacrifici che non siano assolutamente indispensabili? Chi è disposto ad affrontare una strada erta e difficile, quando è possibile incamminarsi per quella più facile e piana, apparentemente con gli stessi risultati, se non, addirittura, conseguendo dei risultati ancora più gratificanti?

La tecnica e il consumismo ci hanno impigriti, ci hanno abbrutiti; il conformismo del pensiero unico ci ha omologati e lobotomizzati: se qualcuno è ancora disposto a sobbarcarsi la fatica di pensare, la fatica di diventare una persona - perché persone non si nasce, ma si diventa -, ecco che la massa lo prende in odio, lo isola, lo respinge, lo emargina o lo perseguita; ed è perfettamente logico: costui viene a rovinare la bella festa dei manichini che si credono persone, viene a scuoterli dal loro sonno, a denunciare la loro abdicazione alla propria coscienza.

I dormienti, questo è il punto, non vogliono essere svegliati; se ciò avviene, tentano di mordere la mano che li ha riscossi dai loro sogni voluttuosi; i dormienti desiderano solo che qualcuno accarezzi loro la pancia, che li rassicuri nella loro viltà e nel loro conformismo, che li assecondi nella loro fuga dalla responsabilità di essere se stessi, di divenire delle persone reali; è sgradevole, ai loro orecchi, la voce di chi parla un linguaggio sincero, ma rude.

Perciò, chi ancora si sforza di pensare con la propria testa, di ascoltare la voce della propria coscienza, va controcorrente e viene trattato come un pericoloso sovversivo, o semplicemente come un pazzo: come potrebbero, dei ciechi, credere al racconto di colui che è uscito dalla caverna e ha potuto, unico fra tutti gli altri, contemplare la luce viva del sole? Tutti diranno che è un millantatore, un imbroglione, o semplicemente un folle.

Esiste una via  d’uscita da questo vicolo cieco, per cui chi non vuol essere svegliato, proclama ad alta voce di essere perfettamente sveglio, e colui che, con fatica e sacrificio personale, si è destato per davvero, non viene creduto, ma al posto suo vengono creduti i peggiori ciarlatani, gli ambiziosi senza scrupoli, i demagoghi interessati?

Apparentemente no; e questa è la ragione per cui una buona parte di coloro che osservano le cose in modo lucido e spassionato tendono ad essere decisamente pessimisti circa il futuro della nostra società, sulla sua capacità di rigenerarsi spontaneamente. Molti pensano che sarà necessaria una catastrofe collettiva, che solo una durissima batosta al nostro stile di vita potrebbe scuoterci dalla pigrizia e dall’intontimento collettivo in cui siamo caduti.

Forse, però, non è necessario essere così catastrofisti; anche perché, se proprio si vuole inforcare le lenti del pessimismo, allora non si capisce perché una catastrofe dovrebbe renderci migliori, attivando quella spinta al cambiamento salutare, al ripensamento dei nostri atteggiamenti sbagliati, che non abbiamo saputo fare quando ciò sarebbe stato molto più facile.

Forse esiste un altro modo di intravedere un filo di speranza nel buio del presente, sotto la cappa pesantissima dell’istupidimento collettivo oggi imperante, che viene sapientemente alimentato da quelle forze sociali che hanno tutto l’interesse a sfruttarlo per i loro scopi particolari, economici o politici che siano. Si tratta di questo: di imparare a vedere gli uomini non soltanto per quello che sono attualmente, ma anche per quello che essi sono potenzialmente, per quello che potrebbero diventare e che, forse, realmente diventeranno un giorno, se riceveranno degli esempi positivi e delle parole di saggezza.

È quello che già facciamo, del resto - o, almeno, che dovremmo fare - con i bambini: vedere in loro non soltanto ciò che essi sono attualmente, ma anche ciò che diventeranno domani. L’idea stessa dell’educazione si basa su questo; ed essa, a sua volta, poggia sull’idea della perfettibilità dell’uomo. È ben per questo che ci sforziamo di insegnare al bambino ad agire in base a principi morali e non solo in base ai propri istinti; anzi, ad esercitare su questi ultimi una sorveglianza, un controllo, un dominio.

Ebbene, nella società di massa gli uomini e le donne adulti sono ridotti al livello di bambini un po’ cresciuti: chi si limitasse a vedere in essi soltanto ciò che effettivamente sono, rinuncerebbe a qualsiasi idea di riformarli o di emanciparli dalla dittatura della pancia e li abbandonerebbe al loro destino, come non meritevoli di miglior sorte di quella che è loro data al presente.

Ma non voler vedere la perla che si nasconde al fondo dell’anima, voler vedere solo la montagna di fango e di detriti che, sovente, ricopre quella perla, spegnendone lo splendore, non è realismo: è cinismo, e della peggiore specie. Chi pensa così non è migliore dell’uomo-massa addormentato e instupidito, perché, pur vedendo la possibile via d’uscita, si rifiuta di percorrerla, sottraendosi alle proprie responsabilità.

Le responsabilità, infatti, sono sempre proporzionate al grado di consapevolezza che si possiede. Se ci si trova molto in basso nel livello della consapevolezza, il senso della propria responsabilità è minimo o addirittura inesistente; solo mano a mano che si sale lungo il percorso della consapevolezza, ci si rende conto che la responsabilità di ciascuno esiste, ed è direttamente proporzionale a quel che si è compreso.

Peraltro, se qualcosa si è compreso, si è compreso anche che la conquista non è stata unicamente merito proprio, ma che una forza poderosa, benevola e a noi superiore, è venuta in aiuto, per vie misteriose, e ha reso possibile procedere lungo un sentiero che, altrimenti, avrebbe finito per rivelarsi assolutamente impraticabile.

Pertanto, chi ha raggiunto un certo grado di consapevolezza spirituale, non ha tutto il merito di essa, ma, semmai, principalmente quello di avere risposto affermativamente alla chiamata, quello di essersi lasciato guidare, sostenere e illuminare; dunque, ciò che ha compreso non è merito suo e sarebbe sbagliato ed egoistico volerlo tenere gelosamente per sé soli. Ciò che si è ricevuto gratis, gratis lo si deve restituire: questa è la legge fondamentale della vita dell’anima. Ecco perché è così facile riconoscere i falsi maestri e le false guide: perché essi richiedono denaro in cambio dei loro consigli e delle loro indicazioni. Ciò vuol dire che non hanno capito la legge fondamentale: dunque, che non sono delle guide credibili.

Del resto, c’è anche un altro sistema per riconoscere a colpo sicuro un falso maestro o una falsa guida: essi dicono agli altri che la perla è già lì, in piena luce, e che basta posizionarla nella maniera giusta per raggiungere, grazie ad essa, felicità e benessere. Invece la perla è, quasi sempre, sepolta sotto un denso strato di sporcizia, e riportarla alla luce richiede un duro lavoro su se stessi; dopo di che, quel che si raggiunge è la serenità dell’anima, non la felicità e tanto meno il benessere, così come generalmente li si intende nel linguaggio comune.

Dobbiamo imparare a vedere nelle persone non solo ciò che attualmente sono, ma anche ciò che potrebbero diventare: non solo delle creature avide, egoiste, invidiose e pigre, ma anche i tesori di bellezza e di bontà che giacciono nascosti in esse, allo stato latente.

Non sempre il buon esempio agisce subito, anzi, in genere agisce molto lentamente; per cui non è detto che si vedano i risultati in un arco di tempo ragionevole: possono passare mesi, anni e decenni, prima che qualcosa succeda e che il processo di consapevolezza si metta in moto.

Certo, è necessaria la collaborazione volonterosa del soggetto: nessuna consapevolezza può giungere, nemmeno se si dispone dei migliori maestri e delle occasioni più favorevoli, qualora non vi siano le condizioni minime per quanto riguarda la volontà del soggetto.

La consapevolezza, come qualunque altro dono spirituale, non può giungere a colui che non la desidera e non la ricerca seriamente.

Perciò, occorre che ciascuno faccia la sua parte: che chi si è destato, non sia geloso della luce che ha intravisto; e che chi ancora dorme, non sia talmente pigro da rifiutare l’aiuto a svegliarsi egli pure.