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L'errore del liberalismo

di Alain de Benoist - Massimiliano Capra - 16/05/2012

Fonte: storicamente

 
Alain de Benoist


 

 



Il pensiero politico

Costanzo Preve e il "passato"
Costanzo Preve, uno studioso del pensiero marxista con cui lei ha spesso collaborato, individua un difetto di struttura insuperabile nei fondamenti della cosiddetta cultura di destra, riguardo a cui sarebbe interessante conoscere la sua opinione. Secondo Preve, nonostante l’ammissione del fatto che «il politico non trova in sé stesso la propria autofondazione […] ma la trova solo in un presupposto metapolitico», l’emersione storica del pensiero greco classico, che ha dato origine ad «uno spazio politico vero e proprio», costituito come «“pluriverso” di visioni incomponibili», avrebbe avuto una portata evolutiva irreversibile. La comparsa propriamente politica della democrazia ateniese, avendo costretto il pensiero occidentale a prendere una forma razionale e dialogica, avrebbe, quindi, reso impossibile «ogni fantasia di “ritorno” al precedente stadio di comunitarismo organicistico di tipo religioso», il quale costituirebbe, ormai unicamente, una pratica di tipo regressivo. Preve sostiene, infatti, che questo sarebbe il reale «tallone d’Achille della cultura di destra, come il tallone d’Achille della cultura di sinistra è l’utopia tecnocratica della amministrazione sansimoniana delle cose nel futuro comunismo trasparente dei bisogni naturali umani soddisfatti dalla tecnologia onnipotente» [de Benoist, Giaccio, Preve 2005, p. 59]. Ogni tipo di riferimento ad una trasformazione della società nella direzione del recupero di una dimensione comunitaria ed organica sarebbe, quindi, del tutto inutile e fuorviante.

Costanzo Preve è uno spirito incisivo ed intelligente. Nel corso degli anni è diventato un amico per il quale provo molta ammirazione. Io sottoscrivo senz’altro il punto di vista che lui ha espresso nel testo che lei cita. In maniera più generale, si potrebbe pertanto affermare che una delle tare essenziali della cultura di destra, sia quello che ho chiamato “restaurazionismo”, vale a dire il richiamo a ritornare ad uno stadio anteriore delle cose, il richiamo a restituire il passato. Un tal modo di procedere è, in effetti, fondamentalmente regressivo, e dunque votato al fallimento. La parola d’ordine di molta gente di destra è che “era meglio prima”. E’ una parola d’ordine nostalgica, spesso impregnata di amarezza. Questo può essere anche una maniera distorta di idealizzare il tempo della nostra gioventù. Ad ogni modo è possibile che, in certi casi, le cose siano state effettivamente “meglio prima” (tutto dipende dai criteri di giudizio). Ma, sebbene le cose possano essere state “migliori”, supponendo anche che questo sia stato il caso, non resta che dire che era “prima” e che non si ritornerà a questo “prima”. E’ la ragione per cui il passato non è mai stato per me un modello. Bisogna conoscere il passato, perché costituisce una dimensione del nostro presente, poiché rimettere le cose al loro posto, nella lunga durata, permette, talvolta, di comprendere meglio e soprattutto, di meglio considerare il futuro. In altri termini, il passato è suscettibile di un ricorso e non di un ritorno. Come diceva Nietzsche, «non si riportano indietro i Greci», ma ci si può appoggiare su quello che noi sappiamo dell’inizio greco, per gettare le basi di un altro inizio. Mi sembra che Costanzo Preve, che è un eccellente conoscitore della filosofia greca, non consideri le cose diversamente. E’ d’altronde di rilievo che lui denunci, a giusto titolo, l’idea di un «ritorno» ad un anziano «stadio di comunitarismo organicista di tipo religioso», mentre in altri scritti abbia pronunciato con forza un elogio al comunitarismo. Questo significa che le comunità sono sempre possibili, ma che le comunità dell’avvenire non saranno la ripetizione di quelle del passato.

Violenza e religione
In un recente libro intervista di Corrado Augias, Remo Cacitti, docente di Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo antico presso l’Università degli Studi di Milano, pur riconoscendo che «i germi dell’intolleranza» si trovano in ogni religione monoteista, sostiene che la violenza storica esercitata in nome di Cristo abbia delle origini ereditate dal paganesimo, in particolare quello romano. A suo parere è, infatti, nel mito romano di Enea che «si verifica una sovrapposizione programmatica fra religione, civiltà e cultura» [Augias, Cacitti R 2008, p. 247], con la conseguenza che chiunque venisse percepito come fuori dalla religio, era indissolubilmente rigettato anche dall’humanitas, cioè ritenuto privo di ogni dignità umana [Augias, Cacitti R 2008, p. 82-83]. Come risponde a questa affermazione interpretativa un pensatore come lei che, nei suoi scritti e nelle sue posizioni, si è sempre dimostrato sostenitore della tolleranza e del rispetto delle differenze esercitato nell’antichità classica dalla dimensione religiosa pagana?

L’opinione di Remo Cacitti non mi pare molto seria. Essa rientra, piuttosto, nel campo all’apologetica. A partire da un’interpretazione dedotta dal mito romano di Enea, Cacitti enuncia una frase che non mi sembra avere alcun contenuto empirico. Beninteso, in ultima analisi, l’intolleranza e la violenza sono il frutto di uomini intolleranti e violenti, non delle dottrine. Non è neanche meno vero che certe dottrine religiose portino almeno più di altre ad una legittimazione di certe forme di violenza e di intolleranza. Ciò non vuol dire che le società non cristiane siano state immuni alla violenza. Tutte le società conoscono la violenza (che è talvolta distruttrice e fondatrice). Ma è un fatto certo che le società antiche non conoscessero l’intolleranza religiosa perché politeiste. A questo proposito, esse non avevano difficoltà ad accettare che gli altri popoli avessero il loro sistema di credenze, i loro dei, ecc. Sul piano dottrinale, esse ignoravano il dogma, l’ortodossia, l’eresia. Dire che a Roma, quelli che erano estranei alla religio (romana) erano considerati subito privi di humanitas, è semplicemente falso (quanto all’illusione alla “dignità umana”, essa è semplicemente anacronistica). I Romani, nel corso delle loro conquiste, non hanno mai cercato di sradicare le credenze religiose dei popoli che essi sottomettevano. (In Gallia, essi si sono opposti ai Druidi per delle ragioni politiche, all’occorrenza perché i Druidi erano gli istigatori della resistenza all’occupazione romana, allo stesso tempo hanno perseguitato i cristiani per il solo motivo che quest’ultimi rifiutavano di compiere i sacrifici per l’Imperatore). Invece, le religioni monoteiste, nel corso della loro storia, non hanno cessato di perseguitare e massacrare gli infedeli, i deviati, gli “eretici”, gli “infedeli”, le “streghe”, i pagani, ecc. E’ solamente nella Bibbia che si vede un Dio ordinare dei massacri e degli stermini come qualche cosa, non soltanto lecita, ma moralmente necessaria (rif. al libro di Giosué). Questa tendenza è inerente al monoteismo come all’universalismo, che va di pari passo con esso: se non esiste che un solo Dio, tutti gli uomini devono essere portati ad adorarlo. Gli altri culti sono “demoniaci”, “menzogneri” o “superstiziosi” e devono essere sradicati. E’ il processo della conversione. Gli uomini devono essere convertiti, le culture devono essere acculturate. Si tratta di riportare l’Altro a se stesso. Aderire alla “verità”, è prendere per modelli coloro che si presume dicano questa verità. Da ciò proviene l’incapacità di queste religioni intolleranti ad ammettere pienamente l’alterità. Nel Medioevo, le regole della “guerra giusta” non si applicavano ai popoli extraeuropei. Nell’epoca moderna, la guerra “umanitaria” è per definizione una guerra di esclusione radicale: essendo condotta in nome dell’umanità, conduce immancabilmente fuori dall’umanità, quelli che combatte. Il nemico cessa di essere l’avversario del momento per diventare un incarnazione del Male, un colpevole, un criminale, ecc. La nozione di justus hostis è persa di vista. Tutto ciò è stato ben descritto in data recente da Danilo Zolo, che si rifà particolarmente ai lavori di Carl Schmitt. Remo Cacitti dovrebbe leggere i lavori di Jean Soler e di Jan Assmann, sui rapporti tra violenza e monoteismo.

L'errore del liberalismo
Nell’articolo L’errore del liberalismo, lei sostiene che «liberalismo e marxismo sono nati come i due poli opposti di uno stesso sistema di valori economici», entrambi non riescono a prescindere dalla «alienazione economica» [de Benoist 1983, 88, 91-92]. E’ evidente che il difetto insolubile di tutte le teorie materialiste è quello di non tenere in alcuna considerazione la dimensione religiosa, sacrale e spirituale dell’esistenza umana, e che il fondamento antropologico sulla quale esse si basano è la considerazione dell’uomo come un essere totalmente razionale, spogliato di ogni caratteristica di diversità individuale, emozionale o intuitiva. Tuttavia, prendendo ad esempio in considerazione i suoi scritti sulla concezione di Impero, una dottrina politica che presupponga un certo intervento nella sfera spirituale, non rischierebbe di creare una sorta di religione civica, un po’ come avveniva nell’Impero Romano, che potrebbe limitare fortemente ogni tipo di libertà di coscienza individuale? E di contro, una dottrina politica che si volesse fondare unicamente su presupposti radicalmente secolarizzati, non rischierebbe di rimanere muta su qualsiasi questione morale e di precipitare di nuovo la società nel materialismo, nel relativismo e nel nichilismo più assoluti, dato che, nelle sue parole, una società diviene “atea” «appena la sua facoltà di credere cessa di organizzarla» [de Benoist, Molnar 1992, p. 167]? Come si può tentare, a suo parere, di uscire da questo paradosso?

Penso sempre che il liberalismo e il marxismo derivino da una matrice comune, che si può sommariamente identificare col pensiero degli Illuministi e con l’ideologia economica che accompagna l’avvento della classe borghese.
Oggi, tuttavia, non riduco più questa derivazione alla sola “diffusione dell’idea di uguaglianza”. Lei descrive, peraltro, una situazione paradossale alla quale non è facile dare una risposta. Da una parte, è incontestabile che l’uomo non possa trovare un senso alla sua esistenza, (una ragione d’essere alla sua presenza nel mondo), in riferimento a qualche cosa che lo superi. D’altra parte è molto delicato intervenire nel campo spirituale, supponendo che questo sia possibile, senza dover «limitare la libertà di coscienza individuale». A mio parere, per oltrepassare questo dilemma, bisogna mettere in discussione la pretesa del sistema liberale di instaurare un potere che resterebbe “neutro” nel campo dei valori. L’esperienza mostra che questa pretesa è illusoria: lo Stato liberale non è mai neutro. L’idea che, per rispettare la pluralità delle opinioni possibili, lo Stato debba astenersi dall’emettere qualunque parere, qualsiasi esso sia, su quello che Aristotele chiamava la “vita buona”, è anch’essa contestabile. L’esperienza mostra che in casi analoghi, non è la libertà e l’autonomia che predominano, ma la perdita dei riferimenti, il materialismo pratico e il nichilismo. Io penso che i poteri pubblici debbano prendere posizione nel campo dei valori e almeno indicare quelli che sono più conformi al bene comune e che, in tal modo, offrano agli individui più possibilità di pervenire all’eccellenza o di realizzare il loro telos. Questo deve essere fatto almeno a titolo d’incitamento, in una maniera non riduttrice, non dogmatica, e tenendosi allo stesso tempo lontano dall’idea che «tutto si equivale», e dall’idea che non c’è «che un modo che sia valido». Questo problema è stato affrontato in maniera interessante, nel mondo anglosassone, da autori “comunitari”, come Michel Sandel e Alasdair MacIntyre.

Storia e obiettività
Nell’introduzione al suo volume Nazismo e Comunismo lei opera una netta distinzione fra il concetto di memoria storica ed il lavoro scientifico dello storico. Tuttavia, proprio nella ricostruzione storica, la presa di distanza da ogni forma di soggettività, e l’emancipazione dal giudizio morale, possono avvenire solamente come tensione verso un obiettivo ritenuto impossibile. Che, ad esempio, la Germania nazista abbia invaso la Polonia il primo settembre 1939, è una verità che nessuno può mettere in discussione, ma il lavoro dello storico deve prendere in considerazione, e cercare di mettere in luce, anche le condizioni, le problematiche, le cause ed il contesto all’interno del quale si è prodotto quel dato evento. Inoltre, all’interno di queste analisi, in modo diretto o implicitamente, non può non penetrarvi una qualche forma di giudizio soggettivo di chi interpreta i documenti ed i dati presi in esame. Un giudizio ed una valutazione che saranno necessariamente influenzati dalla cultura, dall’epoca, dall’ideologia e dalla morale che appartengono al mondo, alla realtà ed alla dimensione spazio-temporale propria dello storico nel momento in cui scrive. In definitiva, la ricostruzione storica non può mai aspirare ad una verità che si fregi del titolo dell’oggettività assoluta. Ed il fatto che la storia sia una materia fondamentalmente inesauribile, risiede proprio nella possibilità che essa perennemente offre al dibattito, alle diverse interpretazioni e ai confronti. Date queste premesse, un’opera storica che cosa deve avere, secondo lei, per poter essere giudicata attendibile, scientifica e per portare un degno contributo alla ricostruzione ed all’interpretazione di un evento passato?

Credo di aver ben descritto la differenza tra la storia e la “memoria”. Non sono evidentemente contro la “memoria”. Essa è necessaria alla vita sociale, che si nutre molto naturalmente di souvenir e di commemorazioni. La memoria può divenire, nientemeno, invadente quando viene eccessivamente a pesare sulla vita pubblica, soprattutto quando di focalizza unicamente su avvenimenti negativi che divengono pretesto di autoflagellazione, alla “ripetizione” e alla negazione di sé. La memoria è ugualmente negativa quando si riduce, com’è spesso il caso oggi, a una sorta di vittimismo generalizzato (con il penoso fenomeno della “concorrenza vittimistica”). Ma la domanda che lei fa porta alla possibilità dell’“obiettività storica”. Lei ha ragione di dire che, anche in materia di ricerca storica, un’obiettività assoluta è impossibile (sia in ragione della diversità delle opinioni individuali, sia in ragione del contesto spazio-temporale). Io ne sono così convinto che non sono tra quelli che operano una distinzione radicale tra i fatti e i valori. Credo che i fatti siano indissociabili dalle interpretazioni che se ne danno – e anche che spiegare (erklären) non è sinonimo di comprendere (verstehen).
Tuttavia resta il fatto che sia importante impostare l’ideale dell’obiettività per tentare almeno di avvicinarsene il più possibile. Il metodo scientifico proprio alla ricerca storica permette di tendere verso questo ideale, cosa che non permette la memoria. Per prendere l’esempio che lei cita, si può senza dubbio interpretare differentemente l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista, ma ci si può almeno mettere d’accordo sul giorno in cui ha avuto luogo! La ricerca storica può almeno permettere di rimettere in causa certi miti, di nutrire delle discussioni e dei dibattiti che permettano al sapere di progredire. L’errore consisterebbe nel dire: poiché l’obiettività assoluta è impossibile, rinunciamo a tentare di essere obiettivi. La ricerca di obiettività, anche se costituisce un orizzonte che che si allontana sempre quando si crede di averlo raggiunto, è sempre raccomandabile – tant’è vero che, secondo Heidegger, «la metafisica della soggettività» è uno dei tratti dominanti della modernità. Si ritrova ciò in ben altri campi. Si veda, ad esempio, l’opposizione tra il concetto oggettivo del diritto (come equità in una relazione) e la teoria dei diritti soggettivi.

Considerazioni sul nuovo millennio

L'11 settembre
Costanzo Preve ritiene che con gli eventi dell’11 settembre 2001, e la conseguente esplosione della cosiddetta “guerra al terrorismo” non abbia assolutamente preso forma quello “scontro di civiltà” a cui numerosi opinionisti occidentali si riferiscono, ma che in realtà ci si trovi di fronte ad uno «scontro fra militarismo USA e fondamentalismo saudita, nato con la decisione di installare basi americane nel deserto arabico». Per Preve, inoltre, la dinamica della «creazione del Nemico» è funzionale all’espansione territoriale americana, per giustificare il progetto geopolitico di «occupazione militare delle poche aree del globo che non ha ancora occupato», una strategia che sarebbe completamente contraria ad ogni tipo di interesse tipicamente europeo [de Benoist A., Giaccio G., Preve C. 2005, p. 47-48]. Lei condivide queste opinioni? E quale credito si può dare, a suo parere, a due differenti interpretazioni della politica statunitense seguita all’11 settembre? Quella del complotto orchestrato dagli Stati Uniti stessi o da supposti potentati annidati nelle internazionali ebraiche oppure nei servizi segreti; e quella secondo la quale la politica statunitense non sarebbe altro che un malriuscito tentativo di reagire, nel solo modo conosciuto dalla cultura e dalla storia propriamente americana, cioè l’uso della forza, ad una situazione inaspettata che ha, indiscutibilmente, aperto degli scenari bellici e politici impensabili fino a qualche mese prima.

Qui ancora, mi sento molto d’accordo con i propositi di Costanzo Preve. Lei sa che ho scritto numerosi testi su (e contro) gli Stati Uniti. Questo Paese ha oscillato costantemente fra l’isolazionismo e l’interventismo, ma sempre a partire da una stessa convinzione, la consapevolezza che il modello americano è il migliore che si sia mai stati capaci d’inventare. Questa convinzione può legittimare la volontà di tenersi lontani dal “resto del mondo” (rest of the world), visto come intrinsecamente inferiore, cattivo o pericoloso (isolazionismo), o al contrario quella d’intervenirci per convertirlo al modello americano conforme al programma missionario del Manifest Destiny (interventismo). In entrambi i casi, si presume che il mondo non possa divenire comprensibile, che solo quando sarà stato totalmente americanizzato. L’imperialismo americano, peraltro, ha sempre bisogno di un “nemico” da respingere (l’“Impero del male”, gli “Stati-canaglia”, ecc.) e di un pretesto per giustificare i suoi interventi. Preve mostra bene come la «guerra contro il terrorismo islamico» giochi oggi questo ruolo. La tesi dello “choc delle civiltà”, per riferirsi ad essa, è sostenuta soprattutto da quelli che sognano di vedere questo choc prodursi e fanno di tutto per incoraggiarlo. Gli attentati dell’11 settembre hanno opportunamente fornito il pretesto per l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan. Gli americani sembrano essere persuasi che si possa fare la guerra al terrorismo con mezzi militari convenzionali, cosa che è una totale assurdità, soprattutto in un’epoca dove la nozione stessa di guerra è completamente cambiata.

Lei mi chiede quello che penso, in riferimento agli attentati dell’11 settembre, riguardo alla “tesi del complotto”? Sono agnostico su questo punto di vista. Da una parte, non ho molta simpatia per il “cospirazionismo” (cosa che non vuol dire che io neghi l’esistenza puntuale dei complotti). Dall’altra parte, mi sembra che le condizioni esatte nelle quali si sono prodotti gli attentati dell’11 settembre siano lontane dall’essere chiare. Il problema con la teoria del complotto, è che questa si appoggia alle incongruenze della versione ufficiale, ma che non offra come alternativa che delle ipotesi inverosimili.

Il futuro dell'Europa
Nel suo libro L’Impero interiore, lei ricorda che esaminando la storia politica dell’Europa, si nota l’emergere e la formazione di due grandi modelli di «unità politica: la nazione, preceduta dal regno, e l’impero». Mentre l’impero incarnando un principio, «considera l’unità solo al livello di tale principio» ed in tal modo favorisce l’autonomia delle strutture locali, la nazione, costruita del tutto «razionalisticamente», «genera la propria cultura, o si basa su di essa per formarsi» e tende irreversibilmente all’omogeneizzazione [de Benoist A. 1996, p. 117, 141, 156]. Le conclusioni, inerenti gli sviluppi della politica europea contemporanea, sono che: «L’Europa può realizzarsi esclusivamente sulla base di un modello federale, ma un modello federale portatore di un’idea, di un progetto, di un principio, cioè in ultima analisi secondo un modello imperiale» [de Benoist A. 1996, p. 148, 156, 173]. In prima battuta crede ancora praticabile e valido, nell’Europa di oggi, questo tipo di ragionamento e quali potrebbero essere i possibili spiragli per cominciare a costruire un’Europa veramente federale? Ed infine, considerando l'attuale tendenza "uniformatrice" del sistema parlamentare europeo, come potrebbero ricrearsi dinamiche tipicamente imperiali?

Lei ha riassunto molto bene il mio sentimento sull’opposizione fra la Nazione e l’Impero. E’ a partire da questa riflessione che mi è sembrato che il federalismo fosse, nell’ordine delle dottrine politiche contemporanee, il modello più conforme o più prossimo alla logica “imperiale” (anche se il federalismo non può essere esattamente assimilato agli imperi del passato). La questione del sapere se l’Europa oggi può realmente impegnarsi su questa strada, dipende dalle circostanze del momento. Queste sono in tutta evidenza molto sfavorevoli. L’Unione Europea si è costruita, dall’inizio, a dispetto del buon senso (così come ho spiegato in dettaglio in diversi articoli). Il suo déficit democratico, il suo allargamento frettoloso, il suo rifiuto persistente di definire le finalità esatte della costruzione europea, l’hanno condotta in un vicolo cieco.
Più o meno impotente o paralizzata, l’Unione Europea sembra essere oggi completamente bloccata. Nei miei scritti, ho esaminato qualche idea che permetterebbe di sbloccarla, (asse Parigi-Berlino-Mosca, iniziative intraprese per un “nocciolo duro”, secondo il modello evocato da Henri de Grossouvre, ecc). Ma è chiaro che queste sono delle proposte puramente teoriche. In riferimento all’Europa, lo scarto tra l’ideale teorico e la realtà non è mai stato così grande. Questo non deve condurre a dimissionare o ad astenersi dal definire la strada da seguire. Nell’immediatezza, la grande alternativa si riassume sempre nella formula: Europa-potenza o Europa-mercato. Le cose cambieranno quando un nuovo “nomos della Terra”, sarà apparso, o quando gli Europei dovranno confrontarsi con disfatte planetarie di un’ampiezza e di una natura radicalmente nuove. Io ho spesso citato questa parola di Nietzsche: «L’Europa si farà sul bordo di una tomba». Il più grande errore sarebbe quello di considerare il futuro come il semplice prolungamento (o la semplice amplificazione) delle tendenze attuali. Poiché l’uomo è imprevedibile, la storia rimane sempre aperta. Sfortunatamente, non si può andare oltre, per il momento.


La tolleranza religiosa
Leggendo i molti testi che lei ha dedicato alla questione religiosa, si ritrova la formulazione costante dell’idea che i germi che hanno determinato la formazione dei totalitarismi del Novecento fossero contenuti nel monoteismo di matrice giudaico-cristiana. Il concetto di tolleranza religiosa, che nel paganesimo era garantito da un principio politeista e da un’accettazione armoniosa della realtà e della natura, viene a mancare proprio con l’introduzione del monoteismo veicolato dalla dottrina biblica, e della sua implicita pretesa di detenere il monopolio di una verità assoluta. La questione mi sembra estremamente attuale nell’epoca contemporanea. Sia il fenomeno del terrorismo da una parte, sia i costanti appelli, farciti con toni da “crociata”, alla “guerra di civiltà” fra il mondo “civilizzato” occidentale e la “barbarie” islamica dall’altra, possono, a buon titolo, venire inquadrati in questo senso e richiamare all’attenzione la questione della tolleranza. A suo parere, in che modo il richiamo e l’ispirazione al paganesimo potrebbero influenzare l’emergere di una società e di un pensiero definitivamente votato alla tolleranza ed al rispetto del politeismo in materia religiosa? E quali sono i maggiori ostacoli dell’epoca contemporanea di fronte a questo, a mio parere, nobile obiettivo?

La sua domanda miscela delle tematiche leggermente differenti: da una parte il posto dell’uomo nella natura del punto di vista monoteista e dal punto di vista politeista (a seconda come si guardi, il “cosmo” come un Essere eterno che fornisce un certo numero di “modelli”, o come un mondo creato da un Essere increato in una prospettiva dualista); d’altra parte, la questione della tolleranza e dell’intolleranza, di cui noi abbiamo già parlato; per concludere, la concezione cristiana e pagana della storia. Quello che mi pare più evidente, è che si deve al monoteismo biblico l’apparizione di una concezione lineare, vettoriale, della storia (in opposizione a tutta la concezione ciclica o “sferica”), e che la secolarizzazione di questa concezione ha fatto nascere i grandi storicismi moderni (con il tema "dell’entrata nella storia”, assimilata a una caduta, e la progressione del genere umano verso uno stadio terminale “paradisiaco”). Lei fa, pertanto, un parallelo tra l’intolleranza cristiana nei riguardi dei pagani e l’affronto tra il mondo occidentale attuale e la “barbarie islamica”. Questo parallelo contiene una larga parte di verità, ma deve essere sfumato su un punto. Lo “choc” tra l’Occidente e l’Islam non è una sfida tra il monoteismo e il politeismo, ma piuttosto una sfida fra due monoteismi: da una parte il fondamentalismo islamico, dall’altra il fondamentalismo biblico-occidentale (“monoteismo del mercato”). Oggi, ricreare le condizioni di una vera e propria tolleranza, che non si confonda né con il relativismo né con l’indifferenza (la tolleranza non ha mai impedito il giudizio di valore), esigerebbe di riconoscere la fondatezza delle differenze umane, la fondatezza della diversità e dell’alterità, in breve quel «politeismo dei valori» di cui parlava Max Weber e a partire dal quale ha argomentato ai giorni nostri un autore come Michel Maffesoli. Quanto al principale ostacolo, mi pare risiedere in quello che ho chiamato l’ideologia dello Medesimo, vale a dire l’idea, religiosa o profana, che quello che vale per una cultura, valga anche per tutte le altre culture, che le differenze tra gli individui e i popoli siano secondarie e transitorie, ecc. E’ la ragione per la quale ho concentrato da lungo tempo la mia critica sull’universalismo politico sotto tutte le sue forme.

Il Sessantotto
Riguardo al Maggio 1968 la Nouvelle Droite ha sempre mantenuto una posizione particolare. In effetti sembra che la ribellione sessantottina, avendo avuto una portata generazionale che la coinvolse direttamente, abbia in qualche modo sfiorato la sua riflessione intellettuale, sia nella sua radicale opposizione al liberalismo occidentale, sia nella decisione di affrontare la dimensione metapolitica, e caratterizzato un periodo di rinnovamento che vide anche la contemporanea nascita della Nouvelle Droite stessa. Possono gli eventi iniziati nel maggio del 1968, che lei visse da «spettatore», avere influenzato alcuni aspetti della sua evoluzione intellettuale dell’epoca? E nonostante lei ritenga che quell’evoluzione dei costumi, che si originò anche grazie agli eventi del Sessantotto, probabilmente «si sarebbe prodotta comunque» [de Benoist A. 1989], non crede sia vero, e socialmente percepito, il fatto che la cultura di destra, al contrario di quella di sinistra, tradizionalmente non sia mai riuscita a gestire in maniera attiva questo aspetto che ha indiscutibilmente un impatto decisivo nella società, ed in particolare nelle giovani generazioni?

Gli avvenimenti ai quali si assiste, hanno sempre una certa influenza su di noi. Il Maggio del ’68 non è stato, senza dubbio, un’eccezione alla regola, ma allo stesso modo faccio fatica a parlare di “influenza”. (Non dimentichi neanche che, contrariamente a quello che è stato detto talvolta, la Nouvelle Droite non è apparsa in contrapposizione al Maggio ’68, poiché era già nata qualche mese prima). Col passare del tempo, gli eventi del Maggio ’68 mi sono parsi sempre rilevanti come quello che gli psicanalisti chiamano un “atto mancato”. Il Maggio ’68 segna indiscutibilmente una certa rottura di generazioni: globalmente, è la rimessa in causa di un ordine sociale che era divenuto, non senza ragione, insopportabile. Ma quello che mi tocca di più, è il carattere contraddittorio dell’evento. Oggi si vede molto chiaramente che il movimento ha associato due pratiche totalmente opposte: da una parte, un’aspirazione rivoluzionaria, talvolta espressa in modo ingenuo (riferimenti al passato della Comune del 1871 o riferimenti esotici alla Rivoluzione culturale cinese), ma simpatica, i cui bersagli erano la società dello spettacolo, il consumo, il feticismo della merce, i valori mercantili, ecc; e dall’altra parte, un’immensa aspirazione edonista, e finalmente individualista, molto riassunta da slogan come «Sotto i pavimenti, la spiaggia», «Quello che noi vogliamo: tutto», o «Gioire senza ostacoli». È evidente che quelli che tendevano a questa seconda ispirazione, hanno compreso velocemente che era la società capitalista, fondata sull’espansione illimitata del capitale e sulla logica del profitto, ad offrirgli le migliori possibilità di realizzarla. Il sistema capitalista, da parte sua, ha realizzato velocemente anch’esso che il recupero di certe tematiche del ’68 (gioia “conviviale”, ecc.), non poteva che stimolare il consumo e l’espansione dei mercati. Ma non bisogna dimenticare che Maggio ’68 ha visto anche il più grande sciopero generale della storia francese del XX secolo. Ci si è un po’ troppo focalizzati sul “movimento studentesco”. Per qualche settimana almeno, c’è stata anche una componente operaia degli avvenimenti.

Destra e sinistra
Sfogliando le pagine delle riviste della Nouvelle Droite ci si sorprende nel trovare, fin dai primi anni Settanta, una grande quantità di articoli e dossier dedicati allo studio o all’indagine di numerosi temi e questioni che oggi sono diventati di strettissima attualità o esplosi in tutta la loro problematicità. Come spiega questa precoce sensibilità nelle analisi del GRECE per problematiche che sono emerse in tutta la loro complessità solamente dopo una lunga maturazione? E che cosa ne pensa del fatto che varie prese di posizione e l’attenzione per diversi temi sia transitata, nel corso del tempo, da movimenti di sinistra a movimenti di destra o viceversa?

Ho, in effetti, l’animo di pensare che le analisi della Nouvelle Droite, nella loro grande maggioranza, non solo non sono state smentite dai fatti, ma hanno avuto un innegabile carattere precursore. L’ho ancora constatato, io stesso, di recente, quando ho riletto gli articoli che avevo pubblicato trent’anni fa, nel Le Figaro-Magazine per riprenderli in un libro (Au temps des idéologies“à la mode”). Pressoché quasi tutte le problematiche, allora nascenti, di cui mi ero impadronito in quel periodo, non hanno oggi perduto niente del loro carattere attuale. Non ci sono dubbi che molte di queste analisi, non avevano niente a che vedere con la distinzione sinistra-destra, ed erano molto più “di sinistra” che “di destra”, se si tiene a conservare questa terminologia. Io mi sono definito, talvolta, come un «uomo di sinistra della destra». Si potrebbe dire altrettanto, in una certa misura, della produzione della Nouvelle Droite nel suo insieme.
A chi bisogna attribuire questa capacità che noi abbiamo avuto di anticipare gli eventi? Mi sembra che risulti da un desiderio costante di non guardare il futuro in uno specchio retrovisore, da una volontà permanente di evitare le nostalgie “restaurazioniste”, da un’attenzione portata ai segni annunciatori di quello che verrà. Da parte mia, mi sono anche sforzato di fare previsioni su certi avvenimenti (ho annunciato la caduta del Muro di Berlino diversi anni prima che avvenisse, in un clima di scetticismo generale), e di rivelare i segni precursori di certe evoluzioni intellettuali (riguardo certi scrittori, teorici, ecc). Ho anche realizzato molto presto che non era il caso di parlare propriamente di tematiche “di destra” o “di sinistra”, ma piuttosto dei modi “di destra” o “di sinistra” di appropriarsene e di interpretarli. Forse questo modo di fare spiega il ruolo propriamente storico che ha potuto giocare la Nouvelle Droite, al di là dei suoi successi come dei suoi fallimenti.

Bibliografia
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de Benoist A., Molnar Th. 1992, L’eclisse del sacro, Vibo Valentia: Edizioni Settecolori.
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de Benoist A. 1989, Il sessantotto è davvero finito, «Diorama Letterario», n. 122.
de Benoist A. 2005, Nazismo e Comunismo. Una comparazione possibile?, Napoli: Controcorrente
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de Herte R. [pseud. di Alain de Benoist] 1979, Le règne de la quantité, in «Éléments», n. 28-29.
de Herte R. [pseud. di Alain de Benoist] 1986, Le vrai problème, in «Éléments», n. 61, inverno 1986)
de Herte R. [pseud. di Alain de Benoist] 1985, Le réveil de l’Islam, in «Éléments», n. 53.
Taguieff P. A. 2004, Sulla Nuova destra. Itinerario di un intellettuale atipico, Firenze: Vallecchi.