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«E già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto»

di Francesco Lamendola - 20/05/2012

 

 

A torto alcuni leggono Leopardi, e specialmente le sue poesie d’amore, come «La sera del dì di festa» o quelle del ciclo di Aspasia, pensando soprattutto al dramma personale dell’autore, che una natura ingrata aveva reso sensibilissimo alle dolcezze dell’amore, ma anche dolorosamente consapevole della impossibilità di appagarlo.

Si dice e si ripete, come una formula che dovrebbe spiegar tutto, che il suo infelice aspetto fisico lo escludeva in partenza dalle gioie dell’amore corrisposto; e si cita, fra l’altro, la sua autobiografia ideale nei «Detti memorabili di Filippo Ottonieri», in cui, parlando di Socrate come di un uomo portato naturalmente agli affetti, ma frustrato dalla sua bruttezza, egli avrebbe descritto la propria situazione fisica e psicologica.

Si dimentica, però, che non tutte le donne sono sensibili soltanto al fascino fisico dell’uomo; che ve ne sono anche di quelle che sanno vedere oltre, che sanno scorgere la luce dell’anima e ne restano affascinate; che un uomo fisicamente ancor più disgraziato di Leopardi, Antonio Gramsci (ma si potrebbero fare parecchi altri esempi), amò e fu riamato da donne notevolmente belle; e che insomma l’elemento decisivo della desolazione sentimentale del recanatese non fu di natura oggettiva, ma soggettiva, ossia una sorta di amara, sconsolata autoesclusione.

Sia come sia, non è questo il punto sul quale, in questa sede, vorremmo sviluppare una breve riflessione, ma un altro, ossia  la sproporzione negli effetti dell’amore, talvolta drammatica, che viene a crearsi fra l’amante e l’amato, quando non vi sia da parte di entrambi, ma soprattutto da parte del secondo, piena consapevolezza di sé, delle proprie motivazioni, del proprio modo di porsi nei confronti degli altri.

È una osservazione quasi ovvia che la persona amata possiede in se stessa un qualcosa che induce l’altro ad amarla; ed è altrettanto chiaro che questo qualcosa, sia esso fisico, spirituale o entrambe le cose insieme, non risiede tanto in lei, quanto nell’occhio di colui che l’ammira, che la desidera, che se ne innamora.

Proprio da questo fatto, però, può originarsi una catena di situazioni ambigue, di comportamenti equivoci, di malintesi, di inutili sofferenze ed amarezze; perciò ci sembra importante chiarire bene la portata del precedente enunciato.

Dire che l’attrazione amorosa è una conseguenza non di una virtù propria della persona che lo suscita, ma di una attitudine e di una visione propria della persona che ne viene investita, equivale a dire che essa non nasce al di fuori di noi, ma all’interno di noi stessi; e che l’altro non ne è mai la vera causa, ma semmai lo stimolo e l’occasione, vorremmo dire quasi il pretesto.

Perciò chi fa innamorare di sé non fa altro che far leva su di una attitudine che era già presente nell’amante; l’amato non è il creatore dell’amore, ma lo strumento; egli non dovrebbe inorgoglirsi troppo del potere che è in grado di esercitare su un altro essere umano, perché quel potere non risiede in lui, ma nell’altro, ed egli funge solo da catalizzatore.

Questa è una prima considerazione: chi si inorgoglisce del potere di seduzione che sa esercitare sul prossimo non ha capito la vera natura dell’amore, non si rende conto di farsi bello con delle piume non sue; inebriandosi di un potere che non gli appartiene, getta le premesse per la conseguenza inevitabile di ogni sopravvalutazione di sé: dolore e disillusione da parte dell’altro, ma anche da parte propria. I bambini non dovrebbero mai giocare con giocattoli potenzialmente pericolosi, e chi gioca con l’amore altrui finirà per fare del male anche a se medesimo.

Una seconda considerazione è che chiunque, anche il soggetto meno desideroso di ciò, può far innamorare di sé, proprio perché l’innamoramento non dipende tanto dalle virtù di chi funge da esca per tale manifestazione, ma da una serie di desideri e aspettative che risiedono in colui che è pronto ad innamorarsi.

Si suol dire che l’amore colpisce a tradimento e che, talvolta, cade innamorato chi meno lo avrebbe creduto o lo avrebbe voluto: ebbene, non è vero; lo si dice soltanto per sottrarsi alla parte che si svolge in una faccenda che, tanto spesso, evidenzia il grado di dipendenza delle persone da qualcosa che sta fuori di esse, la loro difficoltà a essere padrone di se medesime.

Chi s’innamora, vuol dire che era pronto a innamorarsi, anche se non lo sapeva o fingeva di non saperlo; meno che meno è vero che ci si può innamorare di qualcuno contro la propria volontà, di qualcuno che si disprezza o che si vorrebbe odiare. Se ciò accade, non si tratta di amore, ma di brutale desiderio fisico, il che è una cosa ben diversa: l’amore, infatti, è un sentimento totale, che tende a ingentilire tutta la realtà dell’altro e perfino ad attenuare o minimizzare i suoi difetti più evidenti, sia fisici che spirituali.

D’altra parte, proprio perché l’innamoramento scatta per ragioni interne, ben diverse da quelle che l’innamorato generalmente s’immagina, è quasi inevitabile che l’amato non afferri la portata del sentimento che, per tramite suo, si è acceso nell’amante.

Due casi sono possibili: che l‘amato si sia adoperato con varie strategie per sedurre l’amante, oppure che l’amato sia stato cercato e desiderato dall’amante senza aver fatto nulla per suscitare un tale sentimento.

Una possibilità intermedia, oggi peraltro piuttosto frequente, è che l’amato abbia assunto un contegno seducente per puro gioco, o meglio per sperimentare il proprio potere, e ciò non verso un soggetto ben preciso, ma verso tutti e nessuno: tipico esempio di quell’agire deresponsabilizzato, inconsapevole, cieco, che è ormai caratteristico delle relazioni umane nella società di massa. Si agisce per l’agire, non per uno scopo ben preciso;  si provoca per provocare; si gioca per giocare; si butta l’amo a cascaccio, così, per il gusto di vedere se qualcuno abboccherà.

Qualche anno fa era diventato tragicamente di moda il passatempo di gettare delle grosse pietre sulle autostrade, dall’alto di un ponte o di un cavalcavia: senza prendere la mira, così, per scherzare con la vita altrui; per vedere se sarebbero cadute sul tettuccio di un’automobile, sfondandolo e ferendo o uccidendo i viaggiatori, oppure se sarebbero finite sulla sede stradale, senza fare danni - o, almeno, senza farli in maniera immediata e diretta.

Coloro che godono a essere il più possibile seducenti si comportano esattamente nella stessa maniera: giocano, e non si preoccupano minimamente delle conseguenze del loro gioco; non si fermano e riflettere che ne sarà di quanti dovessero cadere nella loro rete, magari con sentimenti profondi e con leali intenzioni.

Eppure, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, nessuno cade nell’amore per accidente, così come nessuno cade nell’odio; vi sono delle ragioni profonde, dei bisogni insoddisfatti, delle precise necessità affettive che spingono una persona ad innamorarsi o, viceversa, a prendere in odio qualcuno (e le due cose non sempre sono così distanti l’una dall’altra, come di solito si crede). Perciò, a ciascuno la sua propria responsabilità: all’amante quella di essersi innamorato; all’amato, quella di aver suscitato l’amore altrui.

Si tratta, in entrambi i casi, di una doppia responsabilità: verso se stessi e verso il prossimo. L’amante ha la responsabilità di aver rispetto di sé e di aver rispetto dell’altro, ossia di vedere nell’altro, nell’amato, non un mero strumento per il raggiungimento del proprio piacere, ma una persona, nella sua totalità di anima e corpo. L’amato ha la stessa, duplice responsabilità: di aver cura di sé e di avere rispetto dell’amante.

Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, perché l’amante, che se ne renda conto o no (ma è quasi impossibile che non lo veda e che non lo capisca), esercita un potere sull’altro, e questo potere aumenta la sua responsabilità: la tentazione di abusarne è forte, e anche le persone migliori rischiano, talvolta, di cederle; figuriamoci le persone superficiali, egoiste e inconsapevoli, abituate a pensare solo a se stesse e ai propri comodi.

Il potere che una persona è in condizione di esercitare pone sempre una questione morale, anche quando si tratti di un potere assolutamente legittimo o perfino doveroso e necessario, come lo è quello del genitore nei confronti del figlio piccolo.

Ebbene, si dovrebbe ricordare che il valore di una persona emerge sempre, infallibilmente, nell’esercizio del potere: è lì che possiamo giudicarla, nel momento in cui dispone di un potere su qualcun altro; è lì che possiamo vedere che sa agire con moderazione, con delicatezza, con rispetto, oppure se si inebria, si inorgoglisce e diventa tirannica.

In fondo a ogni essere umano giace, sonnecchiante, un piccolo tiranno: il tiranno che era in lui da bambino, che piangeva per imporre la sua volontà, che bagnava il letto per esigere attenzione, che teneva svegli i genitori quando non aveva più sonno. Crescendo, il piccolo tiranno si è ritratto nelle pieghe del’anima; ma rimane sempre in agguato, pronto a riemergere.

Vi sono persone, solo in apparenza adulte, le quali non vedono l’ora di far uscire allo scoperto il piccolo tiranno che è in loro, viziato e imprevedibile, occupato unicamente di se stesso; e l’essere amate rappresenta, per esse, l’occasione ideale per sguinzagliarlo in libertà, per lasciargli calpestare tutto ciò che incontra, per consentirgli di giocare crudelmente con l’amante che da loro dipende, come un vassallo, come un servo, come uno schiavo.

Abusare del potere di cui si dispone in simili circostanze, ossia quando l’altro si sottomette volontariamente e si offre, fiducioso e senza difese, in tutta la sua vulnerabilità, è cosa abietta; e non meno abietto è il gioco incosciente con i sentimenti altrui, l’accenderli per puro divertimento o l’alimentare le altrui illusioni solo per godere più a lungo del proprio potere.

Nella poesia «La sera del dì di festa», Leopardi descrive con esemplare chiarezza la sproporzione, cui abbiamo accennato, che si verifica talora fra il sentimento dell’amante e l’inconsapevolezza dell’amata, la quale ultima, forse, si era limitata ad una qualche forma di civetteria, così, tanto per divertirsi un poco, senza minimamente sospettare l’intensità del sentimento che, in tal modo, suscitava nell’animo altrui:

 

«Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna. O donna mia,

già tace ogni sentiero e pei balconi

rara traluce la notturna lampa:

tu dormi, che t’accolse agevol sonno

nelle tue chete stanze; e non ti morde

cura nessuna; e già non sai né pensi

quanta piaga m’apristi in mezzo al petto…»

 

Tale sproporzione rappresenta un grande mistero nella vita dell’anima; da essa possono generarsi sofferenze enormi, e vi è chi ne rimane ferito per tutta la vita, senza che l’altro (o l’altra) abbia mai saputo, abbia mai intuito, l’entità della ferita da lui inferta.

Il mistero diviene ancora più fitto se si riflette che l’amato (o l’amata) fornisce solo l’occasione per il manifestarsi di una passione, le cui ragioni sono interne all’amante. Può accadere che l’amante veda nella persona amata una bellezza, fisica o spirituale, che in realtà non esiste, perché è nell’occhio che guarda e non nell’oggetto dell’amore.

Una ironia, dunque; una beffa del destino, di cui noi siamo solo le misere marionette, destinate a gettare al vento dei tesori di sentimento, a soffrire inutilmente per qualcosa che nemmeno esiste? Non precisamente. Se è vero che si dovrebbe essere sempre all’altezza dei propri sentimenti, ciò vale sia per chi è amato, sia per chi ama, sia per chi ama ed è amato nel medesimo tempo; e non vi è altro modo di esserlo, che quello di abituarsi alla lealtà e alla sincerità con se stessi, a saper leggere nella propria anima, a saper riconoscere onestamente quel che si prova: senza barare al gioco e senza abusare del potere che si è in grado di esercitare sull’altro.