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I hate the white man

di Giuseppe Gorlani - 25/05/2012


 

   Parli di inciampi il mattino mentre il pennello del sole sparge oro sulle cime delle colline. Muovi disordinatamente le braccia nel vuoto e chiami ciò progettare, fare storia, girare la ruota del progresso, in accordo con presunti “disegni” prometeici. In realtà sei un trastullo tra le mani del Fato oscuro.

   No, non ti si può prendere sul serio. Nemmeno un sasso si degnerebbe di sostenerti sul sentiero, mentre cammini sforzandoti di martirizzare quel che ti circonda. Eppure scrivi libri, apri “nuove” vie di conoscenza, acceleri particelle, promuovi terrorismi, stipuli trattati di pace basati su inviolabili diritti umani che sei il primo a non rispettare, scateni guerre umanitarie, rendi invivibile ogni angolo del pianeta e getti nella fogna l’armonia.

  I hate the white man, cantava il giovane Roy Harper dopo essere stato “curato” con elettroshock, psicofarmaci, psicoterapie riabilitative ed altre nefandezze simili. Lo si voleva costringere nella camicia di forza del bravo killer dei talebani di turno o del perfetto cittadino emancipato da ogni superstizione.

   Sì, I hate the white man! Non centra però il colore della pelle. Che sia bianco, ebano, olivastro o giallo, non importa. Quel che lo contraddistingue è un’ansia acefala di fare, di convertire, di imporre, di dominare, di catalogare: una specie di cancro che da dentro gli si espande intorno, contagiando tutto quel che tocca. Eppure, se lo si guarda attentamente, non è più di un microbo teometrico incapacitato all’autoconoscenza: un microbo balbettante dimentico della sua natura divina, anteriore a qualsiasi mensura o cogitatio.

   For I hate the white man and his plastic excuse: aborrisco il bugiardo irriducibile, l’ipocrita, lo sfruttatore depravato, e così non mi allontano dalla terra, inalo l’inebriante trasparenza dell’aria, pianto alberi, sulle orme di Elzéard Bouffier, cucino pane sul fuoco, parlo con gazze e ghiandaie, ripristino meridiane, contrastando per quanto possibile il suo barbaro dilagare.

   Tutto ha un termine, tutto si capovolge, tutto si trasforma e passa. Perciò di te, uomo bianco, vedo già il rovinare tra bagliori atomici e stupide bestemmie. Altri torneranno con dita di betulle a riparare i tuoi danni; si chineranno sulle voragini, sulle acque screziate da colori tossici, raccoglieranno la disperazione per evaporarla alla luce.

   Non è necessario andare lontano a cercare gli ultimi indigeni da civilizzare. Lo sprezzante occhio cibernetico del Grande Fratello s’è appannato: non sa vedere l’indigeno che redige queste note, né quelli che, in accordo con un sapere mai svanito, pregiano la bellezza e la gioia nel grido del falco.