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Il denaro come forma della politica*

di Massimo Fini - 14/07/2006

 

Il denaro si pone al centro della politica degli Stati a
partire dal XIX secolo. Non che in precedenza i governanti
fossero indifferenti alle questioni monetarie, che
nascono, si può dire, con la creazione della moneta coniata.
Aristotele ne aveva fatto oggetto della propria riflessione
già nel IV secolo a.C. E nel 64 dopo Cristo
Nerone è autore di quella che è forse la prima svalutazione
monetaria varata ufficialmente da un governo e, a
partire dallo stesso anno, di una moderata politica inflazionistica,
agganciata a una poderosa attività di edilizia
pubblica, per reagire, keynesianamente, ad un periodo
di stagnazione economica che aveva colpito l'Urbe1.
Dopo la lunga eclissi del denaro sopravvenuta al crollo
dell'Impero romano, principi e regnanti furono sempre
angustiati da problemi monetari, dalla produzione e
dalla disponibilità dell'oro e dell'argento, dalla mancanza
o dall'eccesso di liquidità, e basterebbe ricordare in
proposito la «rivoluzione dei prezzi» che colpì l'Europa
dopo la scoperta delle Americhe, a causa del grande
afflusso di metalli preziosi, con cui abbiamo aperto
questo volume.
Tuttavia fino alla Rivoluzione industriale e alla diffusione
della banconota le questioni monetarie, per quanto
importanti, non costituirono mai il fulcro dell'economia
e della politica, sia perché accanto a quella moneta-
239
ria coesisteva, in posizione di preminenza, l'economia
naturale basata sull'autosufficenza e sul baratto, sia perché
i fattori economici erano ancora incorporati nella
società, non erano facilmente enucleabili né distinguibili
dall'intreccio dei rapporti eie la costituivano, e comunque
rimanevano subordinati agli altri aspetti della politica
e della vita.
Agli inizi dell'Ottocento il quadro risulta completamente
cambiato. Tutta la prima metà di questo secolo fu
caratterizzata da una controversia monetaria che, soprattutto
in Inghilterra, impegnò, oltre agli statisti, i
principali economisti dell'epoca, da Ricardo a Malthus
a Thornton a Mili a Palmer a Overstone a Torrens a
Fullarton, e che, attraverso infinite variazioni e aggiustamenti
della teoria quantitativa, ci avrebbe inseguito fino
a oggi2. La stabilità della moneta, le valute, i cambi, i
prezzi, il potere d'acquisto, i conti con l'estero, la bilancia
dei pagamenti, l'esposizione finanziaria diventano i
principali problemi dello Stato. Al centro della politica
c'è l'economia. E al centro dell'economia c'è il denaro.
Già nell'ultimo quarto dell'Ottocento, nota Polanyi,
«i governi discutevano i piani per il futuro alla luce della
situazione dei principali mercati monetari mondiali»3.
Negli anni Venti del Novecento, in Inghilterra, in Austria,
in Belgio, la sinistra fu spazzata via dal governo
«per salvare la moneta»4. Nel 1925 il governo liberale
francese fu abbattuto da un'impressionante fuga di capitali,
fenomeno nuovo che faceva per la prima volta la
sua comparsa, almeno in quelle dimensioni, nelle vicende
economiche e politiche. Sempre negli anni Venti
piccoli Stati come la Bulgaria, la Romania, la Grecia, la
Finlandia, la Lettonia, l'Estonia, la Lituania, la Polonia,
si lasciavano letteralmente morire di fame pur di stabilizzare
la propria moneta e tenersi aggrappati al sistema
monetario internazionale all'epoca ancora agganciato
all'oro. La stessa ascesa di Hitler fu largamente favorita
240
dal crack finanziario del 1931 legato a sua volta al collasso
di una banca viennese di proprietà dei Rothschild,
la Creditanstalt, che controllava i due terzi dell'industria
austriaca e che mise in crisi l'economia dell'intera Europa
centrale5. Persino nel lontano Siam (odierna Thailandia)
i postumi valutari del crollo di Wall Street provocarono
nel 1932 il primo colpo di stato militare in quel
Paese.
Scrive Karl Polanyi: «Negli anni Venti... centinaia di
milioni di persone erano state colpite dal flagello dell'inflazione,
intere classi sociali, intere nazioni erano state
espropriate, la stabilizzazione delle monete era diventata
il punto focale del pensiero politico di popoli e
governi, la restaurazione della base aurea era diventato
il fine supremo di ogni sforzo organizzato nel campo
economico. Il pagamento dei prestiti esteri e il ritorno
alla stabilità delle valute erano considerati il simbolo
della razionalità politica e nessuna sofferenza dei singoli,
nessuna violazione di sovranità erano considerati un
sacrificio troppo grande per riacquistare l'integrità monetaria.
Le privazioni di coloro che per la deflazione
rimanevano disoccupati, la miseria di pubblici impiegati
licenziati senza un soldo di liquidazione e anche l'abbandono
di diritti nazionali e la perdita di libertà costituzionali,
erano considerati un buon prezzo da pagare
per soddisfare i requisiti di bilanci solidi e di valute
altrettanto solide»6.
È esattamente ciò che sta accadendo oggi con l'Unione
Europea. Questo grande progetto, partito come unione
politica, militare, sociale, culturale, giuridica, strada
facendo si è venuto trasformando, come per una fatalità
ineludibile, nell'«Europa delle monete». I famosi
parametri di Maastricht sono quasi esclusivamente monetari
e finanziari. E, come scriveva Polanyi per gli anni
Venti, nessun sacrificio sembra essere così grande da
non poter essere offerto alla divinità monetaria. Osserva
241 240 241
Michel Aglietta nel suo Il dollaro e dopo: «È un fatto che
la moneta, nella nostra epoca, gode di un prestigio un
tempo riservato alla religione: una dimensione misteriosa
e tremenda, accessibile solo agli iniziati»7.
Ma fin qui siamo ancora nel solco tradizionale, seppur
un po' sinistro, del denaro e anche della religione.
Come si ubbidisce, magari a malincuore, al Dio, o al suo
rappresentante, in vista di un Bene ultraterreno, così gli
Stati e i governi, e il popolo che li segue, decidono di
ubbidire al denaro e alle sue logiche fidando in vantaggi
futuri, di cui gli iniziati si dicono certi.
Ma c'è un denaro che impedisce anche di decidere di
ubbidirgli. Che decide da solo. Non si tratta particolarmente,
o comunque esclusivamente, del denaro finanziario.
La questione è diversa. Abbiamo detto più volte
che la qualità del denaro è la quantità. Ebbene è proprio
il volume raggiunto oggi dal denaro che fa la differenza.
Sono le enormi masse di capitale monetario e finanziario
che, spostandosi in modo incontrollabile da una parte
all'altra del globo, possono mettere in ginocchio l'economia
e la società di un Paese, di un intero continente
o addirittura far collassare il sistema.
È la quantità la novità. E, almeno negli effetti, piuttosto
recente se si pensa che fino ad una ventina di anni
fa si individuava nella potenza delle multinazionali il pericolo
per la sovranità, la democrazia, l'autonomia economica
e politica di un Paese. Oggi le bieche multinazionali
appaiono come degli inoffensivi topolini di fronte
ai mercati finanziari, ai debiti esteri, alla globalizzazione
delle Banche, dei capitali e dei mercati dei capitali,
insomma di fronte al volume mondiale del denaro che,
non più agganciato a nulla, neanche alla fragile gruccia
dell'oro, ha assunto dimensioni colossali e asservisce a sé
la politica di Stati e governi. Peggio: la annulla.
Un paio di anni fa il segretario del Pds, Massimo
D'Alema, visitando a New York gli uffici di una grande
finanziaria e vedendo due ragazzi di trent'anni, un bianco
e un nero, che dai terminali di un computer spostavano
migliaia di miliardi, rimase sbigottito ed esclamò:
«Se la Reuter batte una dichiarazione di Bertinotti che
non vota la Finanziaria, questi, in due secondi, vendono
mille miliardi di Bot e noi l'anno prossimo dobbiamo
pagare un punto in più di interesse, 15 mila miliardi che
se ne vengono via dalle nostre tasche. Quei due sono più
importanti del governo e del Parlamento italiani».
Ma non c'era bisogno di andare fino a New York per
sapere come stanno le cose. Già all'epoca dello stage
americano di D'Alema erano accaduti alcuni fatti estremamente
eloquenti.
Nel 1992 George Soros con una speculazione sulla
lira costrinse il nostro Paese a uscire dallo Sme dopo che
la Banca d'Italia aveva inutilmente bruciato 50 mila
miliardi per difendere la nostra moneta. Poco dopo, utilizzando
anche gli enormi profitti fatti sulla lira, Soros,
vendendo sterline per un intero pomeriggio, seguito da
altri speculatori, mise in ginocchio in sole sei ore la
Gran Bretagna nonostante il governo inglese avesse alzato
del due per cento il tasso di sconto nel disperato
tentativo di salvare la sterlina8.
Ma la vicenda più significativa avvenne alla fine di
dicembre del 1995, quando si sfiorò la catastrofe. Dopo
una serie di svalutazioni che avevano portato il peso a
perdere oltre il 30% del suo valore il Messico era sul
punto di dichiarare bancarotta e la propria insolvenza
rispetto agli ingenti debiti contratti con molti Paesi industrializzati,
Stati Uniti in testa. Non è detto che, in sé
e per sé, l'eventualità fosse davvero così tragica per il
Paese nordamericano: da che mondo è mondo la bancarotta
fa più male al creditore che al debitore. Ma Banche,
fondi di investimento e speculatori di tutto il pianeta,
in particolare statunitensi, avevano investito 50
miliardi di dollari in titoli di Stato, azioni e obbligazioni
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messicane ad alto rendimento, contando sul risanamento
economico di quel Paese. Si sarebbe potuto abbandonarli
al loro destino: in fondo se avevano sbagliato i
conti, puntando sul cavallo zoppo, erano fatti loro. E
non sta forse nella funzione regolatrics della speculazione,
come sempre si dice, di premiare le iniziative azzeccate
e di castigare quelle avventate? A quanto pare le
cose non stavano in termini così semplici. L'ultima, e
più drammatica, svalutazione del peso aveva provocato
il contemporaneo e drastico deprezzamento di dodici
valute (dallo zloty polacco al baht tahilandese) che nulla
avevano a che fare, almeno apparentemente, con l'economia
messicana. Si stava verificando una fuga di capitali
su scala mondiale verso le cosiddette «valute forti»:
marco, franco svizzero, yen e dollaro. Alcuni dei principali
banchieri e tycoon finanziari statunitensi avevano
perciò avvertito il direttore del Fondo Monetario Internazionale
(FMI), Michel Camdessus, che «se fosse crollato
il mercato messicano sarebbe scattato un processo
inarrestabile: la paura di simili crisi in altri Paesi in via
di sviluppo avrebbe provocato una reazione a catena
che sarebbe potuta sfociare in un crash mondiale»9. Il
1° gennaio il presidente Clinton comunicò che il FMI, la
Banca dei Regolamenti internazionali (vale a dire la federazione
mondiale delle Banche di emissione), il governo
degli Stati Uniti e quello canadese avevano concesso
al Messico un mutuo agevolato di 50 miliardi di
dollari, l'aiuto creditizio più cospicuo dai tempi del piano
Marshall. In sostanza i Paesi industrializzati prestavano
denaro al Messico perché il Messico potesse continuare
a saldare i debiti con questi stessi Paesi. A lume
di logica (che però non è quella del denaro) una cosa
priva di senso. Che senso ha infatti prestare 100 lire a
Tizio per farsi restituire le 100 lire che ti deve? Si è
trattato allora di un provvidenziale soccorso portato a
importanti speculatori che stavano, una volta tanto, per
bruciarsi le dita col famoso cerino, e quindi, come ha
affermato un illustre economista, Willem Buiter, di «un
regalo della gente che paga le tasse, ai ricchi»10 (perché,
alla fin della fiera, a saldare i conti sono stati i contribuenti
dei Paesi industrializzati)? Oppure fu un intervento
indispensabile per salvare l'economia mondiale
da un crack che avrebbe travolto tutti? Secondo Hans-
Peter Martin e Harald Schumann, autori de La trappola
della globalizzazione, è stato l'uno e l'altro in un intreccio
indissolubile. Nel senso che non si poteva salvare
l'economia mondiale senza salvare gli speculatori o che,
se si preferisce, salvando gli speculatori si salvava l'economia
mondiale11.
Qualcosa di analogo, ma con importanti varianti, è
avvenuto nella recente crisi delle «piccole tigri» del Sud
Est asiastico dell'autunno del '9712. Anche qui, sia pur
con maggior discrezione e senza fare troppo chiasso13,
le organizzazioni finanziarie internazionali (FMI e BRI) e
i principali Paesi industrializzati sono intervenuti in soccorso
di quei Paesi asiatici che, collassando, rischiavano
di far crollare l'intera impalcatura. Alla Thailandia sono
stati prestati 18 miliardi di dollari e 23 all'Indonesia. A
questi si sono aggiunti l'apertura di credito di cinque
miliardi di dollari all'Indonesia da parte di Giappone e
Singapore e i tre miliardi degli Stati Uniti nonostante il
ministro del Tesoro americano, Robert Rubin, avesse
giurato e spergiurato che questa volta, a differenza di
quanto avvenuto in Messico, gli Stati Uniti non sarebbero
intervenuti direttamente14. Un obolo di un miliardo
di dollari è arrivato anche dall'Australia. Più avanti,
su pressione degli Stati Uniti, il FMI e i Paesi del GJ (fra
cui l'Italia con un contributo di 2000 miliardi di lire)
hanno erogato altri 60 miliardi di dollari alla Corea del
Sud15. Eppoi ancora tre. Ma non era finita. Qualche
mese dopo, nella primavera del '98, in seguito all'ulteriore
collasso economico e politico dell'Indonesia, sono
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stati iniettati in quel Paese altri 43 miliardi di dollari
di prestiti.
Alla fine nella crisi delle «piccole tigri» il sostegno
internazionale è stato più del triplo (oltre 150 miliardi di
dollari) che al tempo del Messico, perché più vasta è
l'area colpita, più numerosi i Paesi coinvolti, più fragile,
in quanto ancora più ipertrofica e integrata, la finanza
mondiale (e infatti, nonostante tutti gli interventi nell'est
asiatico, non si è riusciti a salvare dal contagio il colosso
giapponese e, un anno dopo, il Brasile). La differenza
con la vicenda messicana sta però da un'altra parte. Nel
1996 si intervenne prima della bancarotta del Messico
salvando così, insieme al sistema e ai grandi speculatori,
anche i piccoli e medi risparmiatori. Nell'autunno del
'97 si è lasciato invece che i mercati subissero una dura
spazzolata e si è intervenuti dopo. Ciò ha salvato il sistema,
i grandi speculatori, che hanno anzi realizzato guadagni
enormi16, ma ha raso al suolo i piccoli e medi
risparmiatori che hanno perso ben più dei due milioni
di miliardi di lire di cui ha parlato la stampa17. Basti un
esempio. Per concedere il primo prestito di 23 miliardi
di dollari il Fondo Monetario ha imposto all'Indonesia
di chiudere sedici banche dalla solvibilità dubbia, e fra
queste c'erano primari istituti di credito come Bank
Giakarta e Bank Industri. Nel giro di valzer quindi i
risparmiatori indonesiani hanno perso due volte: prima,
in Borsa, come piccoli investitori, poi in Banca dove il
loro denaro è stato azzerato18.
Ma non è il caso di soffermarsi ulteriormente sulle
consuete disavventure dei risparmiatori, i fessi istituzionali
del gran gioco del denaro. Come scrivono Martin e
Schumann il dato più rilevante emerso dall'operazione
messicana (e da quella del Sud Est asiatico) è che «il
governo della superpotenza Usa, il Fmi e tutte le Banche
di emissione dell'Europa si sottomisero al diktat di una
forza maggiore il cui potenziale distruttivo non è più
calcolabile: obbedirono cioè al mercato finanziario internazionale
» 19. Vale a dire al volume del denaro.
Questo strapotere del denaro ha quindi ucciso i due
orgogli della società liberale uscita dalla Rivoluzione
industriale: il primato della politica e la democrazia. Sul
primo c'è ormai una quieta rassegnazione. Durante una
recente crisi del governo italiano l'amministratore delegato
della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, spazientito
per quelle lungaggini, ha dichiarato in Tv: «Ormai in
tutto il mondo l'economia prevale sulle diatribe politiche
». Solo qualche anno fa queste parole, soprattutto in
un Paese emotivo e ancora impregnato dalla cultura di
sinistra come il nostro, avrebbero suscitato un putiferio
di polemiche e di proteste. Sono passate invece inosservate
perché nessuno osa più negare che fotografino la
realtà. Ma l'amministratore della Pirelli avrebbe forse
dovuto dire, per maggior esattezza, che ormai più dell'economia
è il denaro, che ne è il padrone, ad aver
esautorato la politìa. Il New York Times ha rivelato che
nella celebre Situation Room della Casa Bianca non si
tengono più riuniti di strategia politica con gli esperti
militari, ma vertici sulla finanza mondiale introdotti
dagli specialisti delle Banche d'affari20. Ha detto Gianni
Agnelli: «Una volta avevamo le guerre, oggi le crisi finanziarie
»21.
In quanto alla democrazia il denaro, che ha una congenita
tendenza a svalorizzare e a considerare come impacci
al suo strepitoso dinamismo, le Istituzioni costruite
dagli uomini, l'ha svuotata di ogni contenuto. Diligenti
come bambiri noi andiamo ogni tanto a sacrificare
al rito elettorale (votiamo i nostri rappresentanti, i
nostri Parlamentairi, i nostri governi, i nostri Presidenti
o semi Presidenti, ms le scelte che decidono della nostra
vita avvengono in luoghi lontanissimi, totalmente fuori
dal nostro controlli e, spesso, sempre più spesso, non si
tratta nemmeno pi di scelte di uomini o di organizza-
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zioni identificabili, ma di automatismi, a volte devastanti
come terremoti, di un gigantesco e atono meccanismo di
cui siamo solo i pulviscolari e inconsapevoli ingranaggi.
Si obietta però che il mercato ha una sua democraticità:
«il mercato vota ogni giorno»22. È vero. Ma proprio
questo è il punto. Perché nessuno ha mai votato
coloro che agiscono sul mercato né, tanto meno, l'irresistibile
e deterministico movimento da cui costoro a
loro volta dipendono. «Non esiste» scrive Robert Kurz
«un dualismo non risolto di denaro e potere, perché il
potere non può essere altro che il "ministro" del denaro
»23. E aggiunge: «Tutto ciò che fa lo Stato tramite la
politica, lo deve fare con il mezzo del mercato, cioè nella
forma-denaro»24.
I governanti dipendono dal denaro. Sono i sacerdoti
di un nuovo dio. Ma mentre il vecchio Dio, almeno così
molti presumono, amava gli uomini, quello nuovo non
ci pensa neanche. Ama solo se stesso. E segue le sue
logiche, indifferenti alle esigenze dell'uomo, anzi sempre
più spesso da esse lontane, divaricate, addirittura opposte.
Il denaro sarà anche «la logica della materia» come
dice Hegel o «razionalità pura» come scrive Weber ma
bisogna cominciare a prendere atto che sono una logica
e una razionalità che ci sono diventate nemiche.
Come simbolo di questa scissione fra il denaro e i
bisogni dell'uomo può essere preso il «venerdì nero» di
Wall Street dell'8 marzo '96. Quel giorno la Borsa di
New York crollò, trascinandosi dietro le consorelle europee,
alla notizia che nel mese di febbraio si erano
creati 705 mila nuovi posti di lavoro. Pochi anni prima
l'indice Dow Jones era salito alle stelle per un annuncio
di segno opposto: la Xerox licenziava decine di migliaia
di lavoratori. Il primo gennaio 1977 crollò invece la
Borsa francese perché l'indice di produttività era salito
di due punti25.
Ma questi episodi recenti hanno infiniti precedenti
che dicono come le esigenze del denaro e dell'uomo non
siano mai state le stesse. Uno dei primi a rendersene
conto fu, come sempre, Sismondi che, a proposito di
certe carestie che colpirono l'Europa del xvin secolo,
scrive: «In periodi così dolorosi si è sentito ripetere
mille volte che ciò che mancava non era il grano né gli
alimenti, ma il denaro. Difatti vasti granai restavano
spesso pieni fino al raccolto successivo; le scorte, se ripartite
proporzionalmente fra tutti gli individui, sarebbero
quasi sempre bastate a nutrire la popolazione. Ma
i poveri, non avendo denaro da dare in cambio, non
erano in grado di acquistarlo. Essi non potevano ricevere
denaro in cambio del loro lavoro o non potevano
riceverne abbastanza per vivere. Mancava il denaro
mentre la ricchezza naturale sovrabbondava»26. In realtà
durante quelle carestie non mancava il cibo sufficiente a
sfamare l'intera popolazione ma, come nota ancora Sismondi,
non mancava nemmeno il denaro, dato che la
moneta «non era affatto diminuita in Europa, anzi era
perfino aumentata di quantità in molti luoghi dove il
bisogno era più urgente»27. Era infatti proprio il denaro
a impedire che i viveri arrivassero a chi soffriva di fame
perché, esattamente come oggi accade per il Sahel e per
altre zone disastrate del Terzo Mondo, il cibo non va
dove ce n'è bisogno ma dove c'è il denaro che può comprarlo
ai prezzi più remunerativi.
La carestia che colpì la Francia negli anni 1816 e 1817
portò alla morte per fame e per inedia quasi 100 mila
persone, provocò licenziamenti in massa, l'abbassamento
dei salari e mise in seria difficoltà l'industria. Ci fu un
solo beneficiario, la Banca di Francia, il Tempio del
denaro, che negli anni della catastrofe realizzò utili superiori
del 60% a quelli che aveva segnato nel 1814 e
nel 1815, cioè prima della carestia28. E il tracollo di
Weimar azzerò i risparmi di tre quarti della popolazione
tedesca ma non toccò la Reichsbank e le Banche
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ordinarie che anzi ne uscirono più rigogliose che mai.
Ma forse la conferma più clamorosa della divaricazione
che esiste fra il denaro e il benessere, anche economico,
dell'uomo viene dalla guerra. Anche a prescindere da
considerazioni esistenziali29, guardando la cosa solo sotto
il profilo economico, la guerra procura alla maggioranza
della popolazione profondi disagi: i beni necessari mancano,
si deve lavorare di più per guadagnare di meno,
l'insicurezza finanziaria è totale. Eppure per il denaro la
guerra è una festa, un trionfo, il Bengodi. Se analizziamo
la curva del Pil (cioè il valore della produzione di un
sistema economico espressa in denaro) degli Stati Uniti
dal 1910 al 1980 vediamo che i picchi più alti corrispondono
tutti a periodi in cui l'America era in guerra: un
20% in più per la guerra di Corea e per il primo conflitto
mondiale (in cui gli Stati Uniti intervennero tardi e furono
relativamente coinvolti) e addirittura un 40% per il
secondo dove gli americani lasciarono sul terreno un
milione di morti. Non solo: dopo la seconda guerra
mondiale agli Stati Uniti ci vollero cinque anni perché il
reddito nazionale raggiungesse i livelli del biennio 1944-
4530. «La guerra» scrive l'Enciclopedia Italiana a proposito
del primo conflitto mondiale «ben lungi dal recare
grave danno all'economia bancaria, ha impresso ad essa
una forza di espansione del tutto nuova»31. Durante la
guerra il denaro prospera ma la gente sta male. La cosa
però non è per nulla strana e strabiliante: la guerra è un
fatto estremamente dinamico e si accorda perfettamente
con lo straordinario dinamismo del denaro.
Ma fino a quando il denaro era tenuto, più o meno,
al guinzaglio della politica, i suoi fenomeni degenerativi
potevano essere, in qualche misura, contenuti. Ora che
al guinzaglio ci siamo noi le conseguenze della divaricazione
fra la sua astratta purezza e la carnale concretezza
dell'essere umano si sono fatte particolarmente drammatiche.
Attualmente uno dei segnali più evidenti della dissociazione
degli interessi del denaro da quelli dell'uomo è
dato dal dramma della disoccupazione. Il grande aumento
di disoccupati che si è avuto negli ultimi anni
soprattutto nei Paesi industrializzati (solo in Europa
sono 18 milioni, nel mondo 80032) è fatto risalire dagli
economisti e dagli analisti a cause diverse. Secondo alcuni
l'origine starebbe negli alti tassi di interesse33, secondo
altri, più numerosi, nella globalizzazione dei mercati34,
secondo altri ancora nella tecnologia, in particolare
quella informatica35, che espelle i lavoratori a favore
delle macchine o nella tecnologia e nella globalizzazione
sommate insieme36.
Tutti però sono d'accordo nell'affermare che mentre
la disoccupazione dilaga la ricchezza, il denaro e la produttività
crescono. Scrive Jeremy Rifkin: «Tra il 1960 e
il 1990 la produzione industriale ha continuato a salire,
ma il numero dei posti di lavoro offerti dal settore per
creare quel flusso di produzione si è dimezzato»37. E
ancora: «Non passa giorno senza che una multinazionale
dichiari al pubblico di essere diventata più competitiva
a livello globale e che i suoi profitti sono in aumento
costante annunciando, nello stesso tempo, licenziamenti
in massa»38. Jean-Paul Fitoussi rincara la dose: «Oggi le
nostre società continuano ad arricchirsi, in termini di
livello di vita ma soprattutto di patrimonio, ciò che non
era accaduto nei precedenti episodi di disoccupazione
di massa»39.
La ricchezza aumenta, la popolazione impoverisce.
C'è qualcosa che non quadra. O che quadra fin troppo.
All'origine di questo paradosso apparente c'è un paradosso
reale: il denaro. O, per essere più precisi, c'è la
scissione che il denaro ha operato fra se stesso e gli
interessi di colui che doveva servire, andandosene tranquillamente
per conto suo ma trascinandosi dietro l'uomo
come un pesce preso all'amo.
250 251
Lasciando per il momento da parte la questione della
tecnologia, su cui torneremo fra poco, se all'origine
della disoccupazione ci sono la globalizzazione mondiale
dei mercati o gli elevati tassi di interesse, o tutti e due
questi fattori il denaro e l'economia monetaria ne sono
direttamente implicati. Nel caso del tasso di interesse
perché esso altro non è che il costo del denaro, nel caso
della globalizzazione dei mercati perché è resa possibile
dai rapidissimi spostamenti dei capitali.
Ma nella questione della disoccupazione il denaro
gioca un ruolo ancora più profondo, che va ben al di là
degli alti tassi di interesse, che possono venire ridotti, o
della globalizzazione dei mercati, che potrebbe almeno
esser contenuta con misure protezionistiche come si fece
fra le due guerre. Questa ragione più intima e decisiva
la cogliamo bene se facciamo un raffronto con la società
preindustriale in cui l'economia era ancora largamente
naturale e il denaro vi aveva uno scarso peso. Come
abbiamo visto la disoccupazione di massa, ma si potrebbe
dire la disoccupazione tout court, nasce solamente
con l'avvento dell'industrialismo e la conseguente espansione
dell'economia monetaria e del potere del denaro.
Iniziò quando la globalizzazione economica non
esisteva, i tassi di interesse avevano un'incidenza relativa
sull'economia e la tecnologia era ancora agli inizi e comunque
se toglieva dei posti di lavoro altri ne procurava.
Il fenomeno della disoccupazione, nella sua essenza
più profonda, non può quindi essere attribuito alla globalizzazione,
ai tassi di interesse, alla tecnologia che
semmai lo amplificano.
E allora? C'è innanzi tutto una questione preliminare.
Se è vero che il denaro libera il lavoratore da quegli
obblighi personali che a noi moderni appaiono tanto
odiosi, è altrettanto vero che libera, e nello stesso senso,
il datore di lavoro. Costui non ha alcuna remora a licenziare,
se appena lo può fare. Il signore feudale invece
non può cacciare i servi casati40 e non può nemmeno
comprimere la loro remunerazione oltre certi limiti, sia
perché è suo interesse mantenerli in buono stato e in
condizioni tali che garantiscano le prestazioni che gli
sono dovute, sia perché, come dice Simmel, «il pane e
l'abitazione hanno per il lavoratore un valore che si
potrebbe definire assoluto, un valore che come tale è
uguale in tutti i tempi; le oscillazioni di valore ricadono
sul datore di lavoro e sono indifferenti al lavoratore»41.
Sulla terra però, anche in periodo feudale e premoderno,
vive una parte di popolazione libera (coloni, locatari,
eccetera) raccolta in genere in agglomerati di più
famiglie unite dal podere o dalla cascina. Nemmeno costoro
sanno cosa sia la disoccupazione. Perché a quella
economia è totalmente estraneo il concetto, tipicamente
moderno e legato alla logica del denaro, di produttività
marginale del lavoro, che è l'accrescimento del prodotto
conseguente all'aumento di una unità lavorativa42.
Nell'attuale economia se questo incremento è nullo o
insufficiente il lavoratore viene espulso e deve cercarsi
un altro posto, se lo trova, dove la sua produttività
marginale sia remunerativa. Che cosa sarebbe successo
nell'economia tradizionale se su un campo su cui vivevano
dieci persone ci si fosse accorti che il lavoro di due
era superfluo essendo sufficiente quello degli altri otto a
mantenere tutti? Avrebbero cacciato i due a pedate dicendogli
di andare a cercare impieghi più produttivi?
Proprio no. Si sarebbero divisi il lavoro in dieci, approfittando
del maggior tempo libero per andare all'osteria
o per corteggiare la futura sposa. A quegli uomini premeva
soddisfare il fabbisogno, una volta assicurato questo
tanto meglio se, spartendo il lavoro fra molti, ci si
poteva dedicare ad altro43. Era gente, in genere legata
da vincoli di parentela o comunque da relazioni strettissime,
che stava insieme sulla base di un progetto esistenziale
comune dove l'economico, purché fosse garantita la
252 253
sussistenza, aveva una valenza secondaria rispetto agli
altri elementi della vita44. E non considerava ancora il
proprio lavoro come una mercé da vendere al migliore
offerente. Tanto che quei due, ipotizzati in surplus, non
solo non sarebbero stati espulsi, ma non se ne sarebbero
andati di loro rolontà anche nel felice caso che avessero
trovato un altio impiego più produttivo e remunerativo45.
Nota Jean-Paul Fitoussi: «Non vi è alcun dubbio
che l'evoluzione è stata verso un maggior individualismo
e che ciò ha modificato gli atteggiamenti di fronte al
lavoro. Da progetto personale entro una cornice collettiva,
il lavoro è divenuto progetto individuale di riuscita,
misurata, in maniera sempre più esclusiva, dal punto di
vista del denaro»46. Ma c'è anche chi dubita che nelle
società tradizionali, ad economia non monetaria o scarsamente
monetaria, ci fossero lavori produttivi nel senso
in cui li intendiamo noi e addirittura che esistesse il
concetto stesso di lavoro. Scrive Robert Kurz: «Se si
guarda al passato, al mondo feudale e all'economia di
sussistenza, ogni lavoro è "improduttivo" dal punto di
vista capitalistico, poiché (ancora) non serve alla valorizzazione
del capitale; a rigore non si tratta affatto di "lavoro",
giacché questa astrazione dell'attività produttiva
è nata solo assieme al moderno sistema di produzione di
merci»47. Per dirla in altre parole si tratta di società
dove il lavoro è diviso su base pratica e non, se non
marginalmente, economica48.
Un atteggiamento del genere che se ne infischia della
produttività marginale del lavoro (e che Mathieu chiama
epicureo, perché punta sul «piacere della quiete» invece
che sul «piacere del movimento», definito cirenaico49), è
in totale opposizione al denaro, alla sua logica, al suo
spirito. Se infatti il denaro è, come lo definisce Mathieu,
lavoro accumulato capace di far lavorare altri ulteriormente
e possibilmente un po' di più rispetto al capitalelavoro
originario, in modo che questo nuovo denaro-
254
lavoro induca altri a lavorare ancora in una catena all'infinito50,
è evidente che l'atteggiamento tradizionale più
che interrompere la catena non le permette nemmeno di
nascere. In una società del genere, ammette Mathieu, un
po' sconsolato, il denaro non serve51. E infatti non c'era
o non aveva importanza. Quegli uomini non miravano al
surplus o, per dirla con Marx, al plusvalore, si accontentavano
del valore. E vivevano meglio.
È anche vero però, come aggiunge subito dopo Mathieu,
rinfrancandosi, che «in pratica, anche in un'economia
molto primitiva, c'è sempre qualcuno che... si
preoccupa che il lavoro potenziale immagazzinato sia
maggiore (cioè valga di più, pecuniariamente) del lavoro
svolto o del potenziale erogato»52. Questo è quanto
esattamente è avvenuto e quel qualcuno ha finito per
contaminare e coinvolgere tutti. Per questo, come Èva
che mangiò la mela della conoscenza, togliendoci l'innocenza,
quel lontano predecessore avrebbe dovuto essere
strangolato nella culla. Anche perché è lo stesso Mathieu
ad ammettere che quando il «benessere», inteso
nel senso epicureo, di piacere nella quiete, nella pace,
nella tranquillità, nella stabilità, nell'equilibrio, nell'armonia,
aumenta, allora «può darsi che l'economia entri
in crisi»53. Poiché Mathieu è un sostenitore convinto ed
estremo del denaro, un von Mises dei giorni nostri, un
interprete senza sbavature e senza dubbi del pensiero
economico classico, la sua è una conferma quanto mai
autorevole che denaro e benessere dell'uomo non hanno
nulla da spartire, si trovano anzi su sponde opposte.
Se poi dovesse essere vero che è la tecnologia, con la
creazione di macchine che lavorano al posto nostro, la
causa della disoccupazione galoppante e degli allarmi e
delle angosce che ne derivano, ci troveremmo di fronte
al più straordinario di tutti i paradossi del denaro. Che
la natura o la macchina o un qualche sortilegio o un dio
pietoso e benevolo lavorino per noi, consentendoci di
255
stare con la pancia all'aria, è un sogno antico quanto
l'uomo. Almeno fino a quando ha avuto la testa. Prima
dell'evo moderno lavorare non è mai stato considerato
un obbligo54 ma una dura necessità che chi poteva evitava
senza incorrere, per questo, nella disapprovazione
sociale. Al contrario. I nobili erano tali proprio perché
non avevano bisogno di lavorare. E in quelle rare comunità
primitive, per esempio del centro Africa, dove la
natura era così benigna da non costringere gli uomini a
dannarsi per procacciarsi i beni di sussistenza, facendo
graziosamente piovere loro in testa banane e noci di
cocco, nessuno si è mai sentito frustrato perché non
doveva faticare lavorando. C'erano altre cose da fare.
Vivere, per esempio.
Oggi la prospettiva che si vada, come sostengono alcuni
economisti, verso una società in cui, grazie alla
tecnica, «il 20% della popolazione abile al lavoro sarà
sufficiente per far funzionare l'economia mondiale»55
appare invece spaventosa. La domanda è: che cosa farà
il restante 80%? Se la spasserà, come avrebbero fatto i
nostri antenati una volta assicurata la sussistenza? No.
Per due ordini di motivi, psicologici e sostanziali, che
dipendono entrambi dal denaro.
La mentalità moderna, quale che sia il filone ideologico
cui si ispira, ha fatto del lavoro un valore assoluto.
Per Marx che ha sviluppato un'intuizione di Locke56, il
lavoro è «la sostanza del valore», per gli economisti classici
e nel pensiero liberale il lavoro è la sola mercé che,
combinandosi col capitale, «è in grado di produrre un
valore che supera il suo stesso valore»57, cioè il famoso
plusvalore. Tanto i marxisti che i liberali sono d'accordo
sul fatto che è il lavoro dell'uomo a creare la ricchezza,
divergono su come deve essere distribuita. E il denaro,
nel sistema capitalista e di mercato, ha un'importanza
decisiva proprio perché è quella cosa «capace di far
lavorare». Una simile concezione del lavoro era estranea
alla società preindustriale dove non si pensava che questo
spiacevole «sudore della fronte» fosse all'origine
della ricchezza. Ancora per Quesnay (1664-1774), il
capofila dei fisiocrati, che col suo Tableau économique
influenzò Smith, Ricardo e Marx, «il lavoro deve aiutare
la natura ma si tratta di un punto secondario»58.
Nella nostra società il lavoro ha invece assunto un altissimo
valore, economico e sociale59. Chi non lavora
non solo non mangia, ma è un parassita, un reietto della
comunità. Perché, come scrive Rifkin, «in tutta l'età
moderna il valore degli individui è stato misurato con il
valore di mercato del loro lavoro»60. Quindi, anche ammesso
che sia assicurata la sussistenza grazie ai cosiddetti
«ammortizzatori sociali», come si può accettare serenamente
la condizione di disoccupato in un mondo in cui
un uomo è valutato in base a ciò che guadagna? Come si
può far buon viso alla povertà in una società opulenta,
circondati da una marea di «oggetti di desiderio» che
son lì apposta, come le troie nei vecchi casini, per farsi
possedere e che in effetti il vicino possiede e noi no?
Nella società preindustriale questo genere di frustrazioni
era quasi inesistente. Per diversi motivi. Perché ciò
che noi oggi intendiamo per ricchezza era infinitamente
minore, non prillava per ogni dove e apparteneva a
pochi o pochissimi. Perché, a parte costoro, tutti erano,
secondo gli attuali standard, poveri. Vivevano quindi,
più o meno, sullo stesso piano, possedendo però alcuni
beni essenziali (la terra, il cibo, la casa, il tempo). Perché,
per quanto a noi possa sembrar strano, anche le
disuguaglianze fra ricchi e poveri erano molto meno
marcate di quelle di oggi61. È da quando ha preso piede
l'economia monetaria che le disuguaglianze non hanno
fatto che aumentare.
Nella società preindustriale le disuguaglianze che
contano non sono economiche ma di casta, stabilite per
nascita, per tradizione, per legge. E ciò poneva gli uomi-
256 257
ni al riparo da quel rovello, da quella sofferenza, da quel
guasto della vita che è l'invidia. È stato Tocqueville il
primo ad osservare che «una società completamente
permeata dall'idea di uguaglianza diventa tanto più invidiosa
quanto più istituzionalizza questo principio»62.
Io non soffro di non essere Re o nobile perché non
posso farci niente, non è colpa mia se non sono nato né
Re né nobile. Io non tollero invece la «disuguaglianza
dell'uguale», di colui che in una società che ha per principio
l'uguaglianza si è posto, grazie al denaro, in una
posizione di superiorità. La società liberale, basata sul
denaro, presuppone, almeno teoricamente, l'uguaglianza
dei punti di partenza ma, in coerenza con le sue premesse,
non quella di arrivo. Se quindi non ce l'ho fatta
l'incapacità è tutta mia, deriva dalle mie debolezze e
dalle mie mancanze. Chi oggi è nella condizione del povero,
del disoccupato, del semioccupato, la sente come
una propria colpa che diventa il merito di chi non lo è.
E quindi patisce non solo la condizione materiale, che se
vissuta con altro animo non sarebbe, forse, così deteriore63,
ma anche una sofferenza psicologica e morale dovuta
al senso di colpa, alla frustrazione, all'invidia. Del
resto è riconosciuto che l'invidia è una delle molle più
potenti, e necessarie, della società di tipo industriale e di
quell'accumulo di denaro che la sostiene.
Ma probabilmente il motivo più forte per cui oggi la
condizione di povertà, portata dalla disoccupazione,
dalla sottoccupazione o da altro, è sentita con un'intollerabilità
che era sconosciuta alle povertà tradizionali è
ancora diverso. Ed è che quelle società avevano al proprio
centro l'uomo, la nostra gli oggetti. Osserva Louis
Dumont: «Il primato dei rapporti con le cose rispetto ai
rapporti con gli uomini, ecco l'aspetto decisivo, il mutamento
di valori che distingue la società moderna da tutte
le altre e che corrisponde al primato della visione
economica nel nostro universo ideologico»64. In un
mondo di oggetti non possedere significa non esistere.
D'altro canto nella società dei nostri giorni si realizzano
un altro paio di paradossi. Oggi, tendenzialmente, a
diventar ricco non è chi lavora (perde troppo tempo a
lavorare), come avveniva nei primi secoli dell'industrialismo,
ma chi lavora col denaro, che è una scorciatoia
molto più veloce è perfettamente in linea col principio
del «massimo risultato col minimo sforzo» che è alla
base della modernità. Contemporaneamente la disoccupazione
strutturale, sempre più massiccia e «in progress
», ha tolto al profitto, e quindi al denaro, la sua
storica giustificazione sociale: quella di far lavorare, di
creare posti di lavoro. Oggi solo per una parte il denaro
conserva quella sua capacità di «far lavorare» che è strumento
di schiavismo mascherato ma anche di sicurezza
sociale; per una parte molto maggiore il denaro è capace
solo di procurare altro denaro senza incidere minimamente
sull'occupazione. Tuttavia anche se il lavoro
umano è sempre meno «la sostanza del valore», come
pretendeva Marx, e il denaro è sempre meno in grado di
«comandare lavoro», come diceva Smith e come ripetono
tutti gli economisti liberali, sia il lavoro che il denaro,
ormai quasi scissi l'uno dall'altro, conservano, anche se
ciò è del tutto incoerente, lo stesso, decisivo, valore sociale.
Chi resta fuori dal circuito è un paria.
L'uomo dei nostri giorni vive quindi un doloroso
contrappasso: dopo esser stato indotto a considerare la
propria forza-lavoro, la propria energia, una mercé e un
valore, scopre che non è più tale, che non interessa
più65. E c'è chi ha già pensato a come tener buona
questa enorme massa di persone che hanno perso, col
lavoro, 'il proprio centro di riferimento. E Zbigniew
Brezinski, ex consigliere per la sicurezza di Jimmy Carter,
ha coniato il termine tittytainment che è «la combinazione
fra un intrattenimento atto a intontire e un'alimentazione
sufficiente, che dovrebbe bastare per tenere
258 259
su di morale la popolazione frustrata del mondo»66. Si
prepara l'utopia negativa descritta da Aldous Huxley
nel Mondo nuovo: un manipolo di Alfa Plus a guadagnare
e a comandare (il 20% di superspecializzati che
avranno un lavoro), il resto a masticar betel.
Ma i motivi per cui i disoccupati tecnologici, diventino
l'80% della popolazione mondiale secondo le previsione
più nere o siano di meno, non possono e non
potranno godersi un dolce far niente non sono solo
psicologici. Sono sostanziali. È vero infatti che questo
sistema produce un'enorme quantità di beni. Ma di che
beni si tratta? Per la stragrande maggioranza sono beni
superflui, non beni primari ed essenziali. In un'economia
monetaria si produce per vendere e quindi i prodotti
si dirigono verso quei soggetti che sono in grado di
comprarli, verso chi ha denaro. E poiché costoro chiedono
il superfluo si produce il superfluo.
I beni essenziali, destinati alla sussistenza, restano una
quota se non minoritaria certamente insufficiente della
gigantesca produzione mondiale. Non esiste una cornucopia
di beni per la sussistenza cui tutti hanno facoltà di
attingere tranquillamente. Perciò i disoccupati non possono
e non potranno starsene in panciolle in attesa che
l'abbondanza di banane e di noci di cocco gli cada sulla
testa, ma devono e dovranno continuare ad attivarsi nel
concreto timore di perdere anche l'indispensabile. D'altro
canto se l'uomo è stato sostituito, almeno in parte,
dall'automazione non è certo per filantropia, per consentirgli
di starsene a mollo, ma semplicemente perché
così si abbassano i costi di produzione e si guadagna più
denaro.
Insomma da un lato il sistema, usando il denaro come
specchietto per le allodole, spinge una parte degli uomini
a lavorare freneticamente e sempre di più, dall'altro
impedisce di lavorare a chi ne ha bisogno. Per un verso
o per l'altro ci tiene per la gola.
1 M. Fini, Nerone, duemila anni di calunnie, Mondadori 1993, pp. 55-57.
2 C. Roteili, Le origini della controversia monetaria (1797-1844), È Mulino
1982.
' K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., pp. 23-24.
4 Ibid., p. 288.
5 G. Piluso, in Lo sviluppo economico moderno, cit., p. 184.
6 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 182.
7 M. Aglietta, Il dollaro e dopo, Sansoni 1986, p. 3.
8 Anzi, secondo Soros, proprio questo fu il segnale della fine. G. Soros,
Soros su Soros, cit., pp. 97-98.
9 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit., p. 48.
10 W. Buiter, International Herald Tribune, 3.4.95.
11 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit.,
pp. 49-50.
12 Vedi cap. 11, pp. 24 e ss. e n. 26 di p. 38.
13 Non è bene far sapere al contribuente europeo e nemmeno a quello
americano che sta pagando le speculazioni dei suoi connazionali e di altri
soggetti in Asia. Non a caso queste notizie sono state relegate nelle sezioni
economiche dei grandi quotidiani, mentre il crack aveva occupato per giorni
le prime pagine.
14 Corriere della Sera, 1.11.97. Rabin era ministro del Tesoro anche durante
la crisi messicana, così come Michel Camdessus era direttore del FMI,
mentre Alan Greenspan era capo della Federai Reserve già all'epoca del
Grande Crack del 19 ottobre del 1987. Rabin, Camdessus, Greenspan sono
tuttora ai loro posti e si sono occupati anche delle crisi della Russia e del
Brasile. La compagnia di giro è sempre la stessa.
15 Corriere della Sera, 13.12.97.
16 George Soros ha lasciato volentieri correre la voce di aver perso tremila
miliardi (in lire) dopo che a Kuala Lumpur, capitale della Malesia, lo avevano
bruciato in effige.
17 Vedi cap. n, n. 26 di p. 38.
18 Naturalmente il governo indonesiano ha giurato che, in futuro, restituirà,
in parte, i depositi. Promesse da marinaio, naturalmente, che nessuno
ha più osato ripetere quando pochi mesi dopo il Paese è collassato nuovamente.
19 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit., p. 50.
20 La Repubblica, 6.1.98.
21 Corriere della Sera, 29.10.97.
22 Von Mises parla di «un plebiscito ripetuto ogni giorno, in cui ogni soldo
da diritto al voto». L. von Mises, La mentalità anticapitalistica, cit., p. 24.
25 R. Kurz, La fine della politica e l'apoteosi del denaro, cit., p. 44.
24 Ibid., p. 42.
25 Che un aumento di produttività e di occupazione possa innescare una
crisi della Borsa non è in contraddizione con quanto abbiamo detto più
sopra: e cioè che il meccanismo del denaro ha bisogno di aumentare progressivamente
produzione e consumi (e quindi di avere tendenzialmente, se ciò
non contrasta con altre esigenze della razionalizzazione monetaria, lavoratori
occupati e con redditi spendibili). Il meccanismo infatti «ragiona» a medio e
lungo termine e questa sua esigenza di fondo all'accrescimento di tutti i
fattori dell'economia non sempre e non necessariamente si incontra con
quella degli speculatori che, operando sul breve, tengono d'occhio altre variabili,
soprattutto il tasso di interesse e l'inflazione.
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26 J.C.L.S. de Sisnondi, Nuovi principi di economia politica, cit., pp. 281-
282.
27 Ibid.
28 G. Felloni, Prozio di storia economica dell'Europa, cit., pp. 237-238.
29 Da questo punto di vista, per ragioni che nulla hanno a che vedere con
l'economia e tantomeio col denaro, la guerra può avere anche aspetti positivi.
Vedi M. Fini, Ehgio della guerra, Mondadori 1989.
30 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., pp. 199-200.
31 Encicbpedia Italiana, voce Banca, p. 36.
32 J. Rifkin, La fine del lavoro, Baldini & Castoldi 1995, p. 15.
33 J.P. Fitoussi, II dibattito proibito, cit.
34 A questo proposito la bibliografia recente è quasi sterminata. Vedi, per
tutti, H. Thompson, La globalizzazione dell'economia, Editori Riuniti 1997.
35 J. Rifkin, La ftns del lavoro, cit.
36 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit.
37 J. Rifkin, La fine del lavoro, cit., p. 13.
58 Ibid., p. 16.
39 P. Fitoussi, II dibattito proibito, cit., p. 179. In realtà è sempre stato così
da quando l'economia basata sul denaro ha prevalso su quella naturale. Cfr.
cap. vii, pp. 163-164.
40 Cap. vi, pp. 132-133.
41 G. Simmel, Filosofia del denaro, cit., p. 483. Ciò vale naturalmente se
non ci sono carestie e epidemie, ma allora ne viene travolta tutta la comunità,
signore compreso.
42 Enciclopedia dell'economia, cit., voce Produttività marginale, p. 873.
43 Le 35 ore proposte da Fausto Bertinotti vanno in questa direzione. È
un «lavorare meno, lavorare tutti» che tenta il recupero, almeno parziale, di
una concezione della vita e del tempo premoderna.
44 J.P. Fitoussi, // dibattito proibito, cit., pp. 101-104.
45 Ciò naturalmente vale fino a quando nelle campagne non si insinuò
r«individualismo agrario» che sconvolse gli equilibri precedenti. Vedi retro,
cap. vii, pp. 148-150.
46 J.P. Fitoussi, // dibattito proibito, cit., p. 101.
47 R. Kurz, La fine della politica e l'apoteosi del denaro, cit., p. 81.
48 E questo è esattamente il motivo per cui quella società si sarebbe rifiutata
di buttare in mare tonnellate di grano - ammesso che una situazione del
genere potesse mai presentarsi - come facciamo noi (e non solo col grano, ma
con le arance, col caffè e, di norma, con i prodotti della terra) quando si tratta
di un surplus che ha una produttività marginale negativa, che diminuisce cioè
il valore complessivo, in denaro, dell'intera produzione.
49 V. Mathieu, Filosofia del denaro, cit., p. 188.
50 Ibid., pp. 158-160, 188.
51 Ibid., p. 158.
52 Ibid.
53 Ibid., p. 188.
54 Con qualche eccezione, come nella Grecia di Solone, all'epoca del
«capitalismo antico». Vedi cap. v, pp. 78-79.
55 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit., p. 11.
Questa ipotesi è espressa dagli specialisti, in un numero, in una formuletta
matematica: «20:80».
56 Per Locke «è proprio il lavoro che pone la differenza di valore in ogni
cosa e il lavoro costituisce i 9/10 e forse i 99/100 del valore delle merci». J.
Locke, Two Treatises o/ Government, edizione critica a cura di P. Laslett,
Cambridge 1963, voi. H, p. 40.
57 Cfr. L. Dumont, Homo aequalis, Adelphi 1984, p. 141.
58 Ibid., p. 140.
59 II primo articolo della nostra Costituzione recita: «L'Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro».
60 J. Rifkin, La fine del lavoro, cit., p. 19.
61 Per i dati statistici vedi M. Fini, La Ragione aveva Torto?, cit., pp. 106-
110.6
2 Citato da H. Schoek, L'invidia e la società, Rusconi 1974, p. 202.
63 In fondo disoccupato vuoi dire privo di occupazioni e, probabilmente,
anche di preoccupazioni. Una condizione che il primitivo, ma anche il filosofo,
avrebbe considerato ideale.
64 L. Dumont, Homo aequalis, cit., p. 133.
65 J. Rifkin, La fine del lavoro, cit., p. 19.
66 H.P. Martin-Η. Schumann, La trappola della globalizzazione, cit.,
pp. 11-12.

 

*da Il denaro sterco del demonio, Marsilio