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Si può credere ancora nell’Italia?

di Francesco Lamendola - 12/06/2012

 

L’Italia è in crisi; l’Italia è in recessione; l’Italia è in declino: un declino demografico, economico, politico, culturale, morale.

Gli intellettuali da quattro soldi, gli opinionisti a un tanto il chilo sono tutti raccolti a consulto presso il capezzale della grande ammalata: si riprenderà, non si riprenderà? Ce la farà, non ce la farà?

Monti, il taumaturgo miracoloso, ha fallito: la sua terapia sta ammazzando il paziente, puramente e semplicemente, come del resto era da copione: un banchiere non è l’uomo giusto per tirarci fuori da una crisi provocata dalle banche stesse, le quali, adesso, sono ben decise a far pagare i costi ai comuni cittadini, ai piccoli risparmiatori, ai lavoratori e ai pensionati.

E poi, la crisi non è solo economica (e finanziaria); nel caso dell’Italia essa è, prima di tutto, una crisi morale. È una crisi di valori, una crisi di senso, una crisi globale, non solo nel senso “esteriore” del termine, ma anche e soprattutto in quello “interiore”: una crisi che investe tutto l’uomo, in tutti gli aspetti della sua esistenza: pensiero, sentimenti, volontà.

La corruzione ovunque dilagante, dalla pubblica amministrazione al calcio, passando attraverso ogni settore e ogni comparto della vita pubblica e privata; il fideismo cieco e insensato verso dei leader di cartapesta - come Bossi e Berlusconi, che non occorreva essere dei Nostradamus per capire come sarebbero finiti -, cui subentrano una torpida rassegnazione ed un cinismo ancor più grande di prima; un disinteresse pressoché totale per il bene comune e una rincorsa sempre più scomposta, sempre più affannosa e convulsa dei fantasmi di un benessere privato, di un successo privato, di un trionfo privato, simboleggiato dal miraggio della schedina vincente del Lotto; la nera disperazione che piomba su tante persone, spingendole fino al suicidio, davanti alla prospettiva dei debiti, dell’indigenza, del dover ricominciare da zero: sono tutti sintomi di una crisi che parte da lontano e che affonda le sue radici nelle false sicurezze, nei facili successi e nella beata incoscienza di qualche decennio fa.

Il terremoto in Emilia-Romagna sembra aver assestato l’ultimo colpo di martello sulla cassa mortuaria della nostra povera Italia, declassata dalle agenzie di rating, commissariata dalla Banca centrale europea, compatita e un po’ derisa all’estero, mortificata nel crollo delle esportazioni e surclassata perfino dalla Corea del Sud; un terremoto che, si dice, ha messo fuori combattimento, per un tempo che non si sa quanto potrà durare, l’un per cento del nostro Prodotto interno lordo, stante la vocazione industriale delle aree coinvolte.

L’un per cento! Che cosa dovrebbero dire, allora, i Giapponesi, colpiti dalla triplice sciagura di un terremoto di ben più vaste proporzioni del nostro (e pur non avendo, a differenza di noi Italiani, alcun rimprovero da farsi quanto alla prevenzione e all’edilizia antisismica), del maremoto e della massiccia fuoriuscita di materiale radioattivo dalla centrale atomica di Fukushyma, che ha contaminato l’aria, il mare e i prodotti dell’agricoltura e della pesca?

Non si vuole, con questo, sminuire il dramma che le popolazioni emiliane colpite dal sisma del maggio-giugno 2012 stanno vivendo, ma solo riportare il fatto, a livello nazionale, nelle sue giuste proporzioni. Alcuni giornalisti hanno parlato di “apocalisse”: ma questo non è fare del buon giornalismo, è indulgere al vittimismo e all’autocommiserazione. Una grande nazione sa affrontare emergenze ben più gravi di questa, se ha ancora il rispetto di se stessa. Il mondo ci guarda: non bisogna fare come all’indomani di Caporetto, quando il Comando italiano chiese 15 divisioni anglo-francesi per tenere la linea del Piave; glie ne mandarono 5 e le tennero, saggiamente, in retrovia: l’esercito italiano fermò da solo il primo urto nemico.

Il punto non è, pertanto, se l’Italia ce la farà a uscire dalla crisi; il punto è se gli Italiani sono disposti a credere in se stessi; perché, se lo vogliono, è certo che sapranno farcela.

Non si discute della capacità degli Italiani di affrontare difficoltà e sacrifici, di stringere i denti, di mostrare tenacia, pazienza, spirito di sopportazione; bisogna vedere se queste qualità individuali, che sono proprie del carattere nazionale, possono diventare qualità collettive; se gli Italiani saranno capaci, finalmente, di unirsi e fare gioco di squadra, oppure se preferiranno continuare ad avanzare in ordine sparso, magari coraggiosamente, ma senza ordine né disciplina.

Là dove si tratta di lavorare singolarmente o a piccoli gruppi, gli Italiani raggiungono livelli di assoluta eccellenza: dallo sport all’impresa, dalla cultura all’artigianato, dalla cantieristica alla ricerca scientifica, sono ammirati,  apprezzati e un po’ invidiati in tutto il mondo; ma dove si tratta di fare quadrato come nazione, vengono a galla i loro peggiori difetti, primo fra tutti un anarchismo egoista e antisociale, che si sostanzia in un totale disprezzo delle regole.

Certo, è difficile che si sviluppi un sano sentimento nazionale là dove la classe dirigente brilla essa stessa per la presenza di quel difetto capitale, e lo si è visto anche negli ultimi mesi: si chiedono sacrifici sempre più duri ai cittadini, ma i signori della casta non si sono diminuiti emolumenti e privilegi nemmeno di una virgola. Tutti parlano, esortano e fanno prediche a buon mercato, ma nessuno dà il buon esempio: a cominciare dai massimi livelli, da quella presidenza della Repubblica che ci costa come l’Eliseo e Buckingham Palace messi insieme.

La classe dirigente italiana ha avuto centocinquanta anni di tempo, dopo aver fatto l’Italia, per cercare di fare anche gli Italiani, e sotto tre diversi sistemi politici: monarchico liberale, fascista e repubblicano democratico: e non c’è riuscita; o forse sarebbe meglio dire che non ci ha nemmeno provato. Sta di fatto che i nodi irrisolti del 1861 sono ancora tutti lì, sul tappeto; il divario fra Nord e Sud si è addirittura accentuato; e alla questione meridionale si è aggiunta la questione settentrionale: irrisolte l’una e l’altra.

Nel 1861 era il Sud a sentirsi sfruttato dal Nord, e fu il brigantaggio; oggi è il Nord a sentirsi sfruttato dal Sud, ed è sorta stata la Lega; il brigantaggio è stato represso nel sangue, ma la questione sociale del Sud non è stata mai affrontata alla radice, anzi si è incancrenita, con una malavita organizzata che ha dilagato in quasi tutte le regimi del Meridione e anche in molte del Settentrione e con interi consigli comunali inquinati dalla mafia; la Lega si sta disintegrando sotto il peso di scandali politici della peggiore specie e la protesta, di cui si era fatta interprete, rischia di rimanere priva di referenti, trasformandosi in una bomba a orologeria.

Questo è un grande male, perché la questione settentrionale esiste, al di là delle esagerazioni e delle farneticazioni demagogiche di Bossi; molta brava gente del Nord ci aveva creduto, gente che adesso non crede più in nulla, che è piena di amarezza e di frustrazione; forse si è sprecata una occasione unica perché l’Italia, sotto la guida di un forte movimento settentrionale, riguadagnasse il tempo perduto dalle vecchie classi dirigenti e costruisse quello Stato-nazione, federalista ed efficiente, che avrebbe ridato slancio e competitività all’intero sistema Paese.

Sbagliano, perciò, i politici romani a fregarsi le mani per il misero crollo del sogno padano: se bene indirizzato, se agevolato nei suoi aspetti propositivi, esso avrebbe potuto fornire la base per una rigenerazione dell’Italia intera, per una moralizzazione della politica, per una rinnovata spinta dell’economia, per una ritrovata fiducia nel domani. I politici romani hanno già mostrato “ad abundantiam” l’unica arte in cui sono maestri: occupare le poltrone, spartirsi le mazzette, venire a patti con le storture incancrenite della nostra vita nazionale, prima fra tutte la malavita organizzata, talmente forte e aggressiva da risultare incompatibile con la sovranità dello Stato.

Una vicenda esemplare della mancanza di senso nazionale è stata quella dei due fucilieri italiani di marina proditoriamente arrestati e arbitrariamente detenuti e processati in India come due volgari malfattori: e tutto questo da parte di uno Stato “amico”. In un Paese normale, dotato di fierezza e senso di coesione, i media non avrebbero parlato d’altro: quei due militari rappresentano l’Italia e il loro trattamento umiliante è stato uno schiaffo a tutta la nazione. Come un solo uomo l’Italia avrebbe dovuto reagire; l’opinione pubblica avrebbe dovuto mobilitarsi e il governo non avrebbe dovuto darsi pace fino a quando essi non fossero stati restituiti alla giustizia italiana, perché essa e soltanto essa ha il diritto-dovere di accertare le loro eventuali responsabilità, dato che i fatti avvennero a bordo di una nave italiana e in acque internazionali.

Un qualsiasi altro governo, che abbia stima e rispetto di sé, non avrebbe smesso di battere i pugni sul tavolo per far rinsavire gli Indiani: certo non è più il tempo delle cannoniere, ma esistevano ed esistono altre vie per far valere i giusti diritti della nazione: dal ricorso all’Alta corte di giustizia dell’Aja, alle ritorsioni economiche (l’India è un nostro importante partner commerciale). La debolezza mostrata dal governo e, peggio, l’indifferenza della stampa e della televisione hanno mostrato a tutto il mondo che siamo ancora e sempre quelli dell’8 settembre: senza orgoglio, senza decisione; e che chiunque può offenderci senza timore alcuno.

Certo, per avere fierezza bisogna avere una politica estera; e per avere una politica estera bisogna avere una sovranità effettiva. L’Italia, con decine e decine di basi militari straniere sul suo territorio, l’indipendenza ce l’ha sola a metà. Resta da vedere perché non abbia saputo o voluto giocare almeno quelle carte che aveva in mano: possibile che ad una così massiccia presenza straniera non debba corrispondere qualche vantaggio, quando necessario, come lo era in questo caso? Possibile che l’Italia sia solo una gigantesca portaerei al servizio della N.A.T.O., per attaccare questo e quello, ieri la Serbia, oggi la Libia; ma che, quando si trova in difficoltà come, nel caso dell’arresto dei due marinai in India, debba trovarsi sola come un cane a livello internazionale? Qui c’è non solo un difetto di coraggio, ma anche un difetto di abilità politica.

Si dirà che il nostro Paese, di questi tempi, aveva ed ha ben altro a cui pensare, che non ai due marò detenuti ignominiosamente in un carcere indiano, contro il diritto e a disdoro della nostra dignità nazionale. Si dirà che i sacrifici che stiamo affrontando sul piano fiscale e pensionistico, con la riforma del lavoro che è tutta a danno dei lavoratori, e con 28 milioni di Italiani i quali - dati ufficiali dei nostri istituti di statistica - arrancano sotto il peso della scure di Monti, il problema dei due marò passa in secondo o in terzo piano.

Nossignore, questo è un errore. I due marò erano e sono un simbolo: vestono la nostra uniforme, servono la nostra bandiera. Come si può credere in un Paese che abbandona così i suoi fedeli servitori? Che abbandono i suoi giudici, i suoi poliziotti, i suoi funzionari, sotto il ricatto e, talvolta, sotto il piombo della mafia o della camorra? O che, meno drammaticamente ma più diffusamente, abbandona ogni mese, ogni giorno a loro stessi centinaia di migliaia di giovani diplomati e laureati, che hanno studiato nelle nostre scuole e nelle nostre università, e che non chiederebbero di meglio che poter spendere in patria i talenti che hanno coltivato, la passione che li anima, la voglia di lavorare, di fare, di progettare?

Cent’anni fa, i nostri uomini politici assistevano distratti o indifferenti all’emigrazione di milioni di nostri connazionali, impossibilitati a procurarsi il pane nella propria terra (e non per uno scherzo del destino, ma per tutelare gli egoistici interessi delle classi possidenti); oggi, con lo stesso cinismo, essi assistono all’espatrio inarrestabile delle nostre menti migliori, dei ricercatori più bravi, dei tecnici più competenti. Tanto, che importa a loro? Importante è che i Lusi, che i De Gregorio evitino gli arresti, pur essendo coinvolti in truffe miliardarie di pubblico denaro: tutti i parlamentari uniti nella difesa, destra e sinistra insieme appassionatamente.

Ecco perché è importante la vicenda dei due marò.

Molti Italiani credono nell’Italia , affrontano i più duri sacrifici, rischiano perfino la vita per servirla nelle situazioni pericolose: ma l’Italia è degna di questi suoi figli? L’Italia crede in essi, è capace di apprezzarli, è pronta a difenderli a sua volta? O è una matrigna ingrata ed egoista, che pensa solo a se stessa e che si occupa unicamente di favorire i soliti raccomandati, quelli che si comprano la laurea in Albania, quelli che strappano a papà la paghetta da cinquemila euro settimanali, con il sangue sudato della gente che lavora e dei piccoli pensionati?

Bisogna dare un segnale ai giovani; bisogna convincerli che vale la pena di arrischiare il loro futuro in Italia. Prima di far entrare centinaia di migliaia di immigrati all’anno, bisognerebbe dare un lavoro ai nostri figli. Non ci si venga a dire che questi sono discorsi razzisti o intrisi di xenofobia; non è niente di tutto questo: e chi parla così, che ne sia cosciente o meno, fa soltanto il gioco di una borghesia avida e senza scrupoli, che mira unicamente a tenere basso il costo del lavoro mediante la manodopera straniera, preferibilmente clandestina.

Saremo capaci di questo salto di qualità, di questo soprassalto di orgoglio? Dipende solo da noi…