Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Domenica, finalmente domenica!

Domenica, finalmente domenica!

di Francesco Lamendola - 18/06/2012

È una domenica mattina presto e tutto intorno regna una pace insolita, che permette di ascoltare agevolmente alcune voci della natura: le tortore che tubano, l’usignolo che cinguetta, il cane che abbaia in un cortile vicino.

Rare le automobili che passano; si vedono invece diversi pedoni e ciclisti, anche signore anziane in bicicletta che si recano alla messa, mentre risuona lo squillo delle campane dalla chiesa del paese, ed a quel suon diresti, leopardianamente, che il cor si riconforta.

Anche se non tutti hanno la fortuna di vivere in luogo ameno e a misura d’uomo, tutti, però, sono in grado di apprezzare la differenza che passa fra un giorno qualsiasi e la domenica: anche senza sapere che giorno è, anche da un letto di malattia, la domenica si fa riconoscere, sin dalle prime ore, per l’atmosfera più distesa e pacifica, per i ritmi più dolci e tranquilli.

Questo, in teoria, è il giorno del riposo; e, prima ancora, è, o meglio dovremmo dire era, il giorno dedicato a Dio, il giorno del Signore.

Ricordati di santificare le feste, recita il terzo comandamento; che proviene dalla legge mosaica (Esodo, 20, 8-10): «Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio; non farai alcun lavoro», slittato poi alla domenica quando il cristianesimo si separò definitivamente dall’ebraismo.

Il riposo settimanale era uno dei segni distintivi più evidenti dell’antico ebraismo e uno di quelli che suscitavano le maggiori perplessità, per non dire il maggiore disprezzo, da parte degli altri popoli, Romani in testa: ad essi pareva una forma di accidia e di fiacchezza intollerabile, qualcosa che andava al di là della loro capacità di comprensione.

Per la verità, il giudaismo ne aveva realmente fatto un vuoto feticcio, una manifestazione di formalismo ipocrita; al punto da suscitare la vibrante reazione di Gesù, con le audaci parole: (Marco, 2, 27-28) «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’Uomo è signore anche del sabato».

Il riposo settimanale dell’uomo è, dunque, un riflesso del riposo che Dio si è concesso al termine della creazione, avvenuta simbolicamente nei sei giorni precedenti: perché la creazione era bella e meritava di essere contemplata con animo sgombro da affanni. Dunque, nel cristianesimo, il riposo domenicale ha, nel medesimo tempo, il duplice significato di onorare Dio e di concedere all’uomo uno spazio di riflessione, di raccoglimento in se stesso, di dolcezza familiare.

Nei secoli in cui la fede era vissuta con profonda partecipazione, non santificare le feste era considerata una colpa grave. A pochissima distanza dal luogo in cui vivo c’è una antichissima chiesa con dei mirabili affreschi del XIII e XIV secolo; uno, sulla facciata, raffigura Cristo sottoposto a una seconda Passione dai lavori che gli uomini seguitano a praticare, imperterriti, nel giorno della domenica, invece di santificarla. Una immagine quasi identica l’ho vista, a suo tempo, in un dipinto di una chiesa di Biella, all’altro capo dell’Italia settentrionale: si tratta di una iconografia relativamente rara, ma assai significativa.

Ora che la fede si è intiepidita e la laicizzazione è avanzata ovunque, non sorprende che la domenica non venga più santificata, anche se suscita comunque una certa impressione, anche - crediamo - nei laici più convinti, il fatto che perfino il giorno di Pasqua parecchi supermercati e centri commerciali abbiano aperto regolarmente, come si fosse trattato di un giorno qualsiasi; a protestare sono ormai soltanto le commesse, costrette a star lontane dai figli e dai mariti, mentre i clienti si affollano numerosi come sempre nei templi del consumismo.

Si è trattato di un esito logico e, in fondo, prevedibile: in un mondo senza Dio, dove ci si mette a tavola senza farsi il segno della croce, senza un pensiero di gratitudine per Colui che ci dispensa il pane che mangiamo, che differenza fa se si va a far la spesa nel giorno di domenica?

Un po’ meno logico, ma fin troppo comprensibile, il silenzio di chi avrebbe dovuto parlare, far sentire il suo dissenso e che invece, al massimo, si è limitato a qualche timido borbottio; come sempre timorosa di essere accusata di oscurantismo e per giunta, in tempi di recessione, di scarsa sensibilità sociale, la Chiesa cattolica ha preferito far buon viso a cattivo gioco e incassare senza troppo scomporsi l’ennesima picconata al suo edificio spirituale.

È strano, semmai, che così pochi osservatori, sia laici che cattolici, si siano accorti che la desacralizzazione delle feste comandate non corrisponde solo ad un arretramento dello spirito religioso e ad un avanzamento della secolarizzazione, ma segna una accelerazione nel processo di impoverimento morale e di sfruttamento materiale dell’uomo in quanto tale, sia egli credente o non credente. Il capitalismo trionfante e senza regole ha trovato il modo di far lavorare la gente anche la domenica e nelle altre maggiori feste religiose: e questo senza che i sindacati, le forze politiche o le pubbliche amministrazioni, comprese quelle di sinistra (o che tali si dicono), trovassero nulla da eccepire, o quasi.

Dei due significati tradizionali della domenica, infatti, quello religioso e quello sociale - l’onore reso a Dio e il riposo dovuto a se stessi -, una volta eliminato il primo, automaticamente è caduto anche il secondo: perché non si è visto, né si è voluto vedere, che essi sono inseparabili e che in un sistema culturale perfettamente laico, una volta messa in naftalina l’idea di Dio, ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo diventa lecita e “naturale”.

Era l’idea di Dio che tratteneva gli uomini dall’infierire gli uni sugli altri, i più forti sui più deboli, i più ricchi sui più poveri (e non che i ricchi siano sempre cattivi e i poveri, sempre buoni: questo lo dice la sciocca demagogia marxista); era quella la diga che salvava ancora quel minimo di rispetto per le esigenze fondamentali dell’uomo, a cominciare da quella di avere un tempo settimanale da dedicare a se stesso, ai propri figli, alla propria famiglia.

Ma questa verità, la cultura laica, intrisa di spirito teofobico, non poteva e non potrà ammetterla mai: perché, se lo facesse, allora dovrebbe anche ripensare l’immagine che essa ha costruito, arbitrariamente, sia di se stessa, sia della religione: di se stessa come unica salvaguardia dei “diritti” dell’uomo, mediante la libertà del pensiero; della religione, come oppio dei popoli somministrato da una cinica marmaglia di preti astuti e avidi di potere.

Ora, la cultura laica è una cultura totalitaria per eccellenza: non potrebbe mai ammettere un errore così clamoroso, perché le sue stesse basi ne rimarrebbero incrinate; essa parte dall’assioma illuminista: più ragione e meno religione, ed ecco la ricetta della felicità per i popoli. Ma se questo assioma viene posto in dubbio, se ne viene mostrata l’assoluta inconsistenza, allora che succederebbe? Che fine farebbero i suoi zelanti sacerdoti, ossia quella pletora innumerevole di intellettuali, servi e in malafede, che da circa tre secoli ne decantano “le magnifiche sorti e progressive”?

Il laicismo è una forma di totalitarismo che si morde la coda: da un lato esige fedeltà incondizionata alle sue ricette, per poter realizzare il bene dell’umanità; dall’altra, impone all’umanità qualunque sacrificio, pretende la rinuncia a qualsiasi obiezione, impone assoluta obbedienza, per farle graziosamente dono d quel bene supremo, che quando è particolarmente in vena di ottimismo, non si perita di definire come la “felicità”, tanto degli individui che dei popoli.

Dunque: dobbiamo obbedire per essere resi felici, e dobbiamo essere felici di obbedire, per poter essere degni della felicità: questo vuole da noi la cultura laicista e secolarista, questo anzi ci ordina, bollando come retrogrado e, peggio, come reazionario, chiunque non sia interamente convinto della bontà, non diciamo dei suoi fini, ma anche soltanto dei suoi metodi.

La verità, però, è un’altra.

Da quando abbiamo eliminato l’idea di Dio, abbiamo rimosso anche l’unica istanza che ci domandasse conto di nostro fratello, di quel che ne è di nostro fratello Abele. Liberi dal dover rispondere a quella domanda imbarazzante, ci siamo impegnati a costruire, laicamente, il migliore dei mondi possibili, magari a suon di ghigliottina, di gulag e di plotoni d’esecuzione, senza dimenticare il manicomio per i più irriducibili e ingrati davanti alle meraviglie del nuovo Paradiso Terrestre (ahi serva psichiatria, di dolore ostello; non donna di province, ma bordello!). E il malinconico risultato è sotto i nostri occhi, se solo abbiamo l’onestà di guardare senza inforcare delle lenti truccate.

Quanti idoli crollerebbero miseramente, con grande vergogna dei loro sommi sacerdoti, se la cultura laica dovesse confessare pienamente, non diciamo il proprio fallimento, ma anche soltanto l’arbitrarietà e l’inconsistenza delle sue basi teoriche!

I primi a cadere sarebbero i due grandi mostri sacri, il marxismo e la psicanalisi freudiana, figli entrambi di un dogma che si è mostrato fallace: che l’idea di Dio sia una invenzione dell’uomo che lo allontana non solo dalla verità, ma anche dalla propria liberazione e, quindi, dalla felicità; figli dell’idea che l’uomo, “liberandosi” da Dio, diventi più libero e, perciò, più felice.

I sacerdoti del Sinedrio marxista sono già stati sbugiardati e svergognati dalla storia, anche se non hanno dismesso l’abituale arroganza e, senza degnarsi di fare alcuna autocritica, si sono arruolati, armi e bagagli, in altri eserciti, partendo gloriosamente verso nuove crociate e portandosi appresso la boria e lo zelo che da sempre li contraddistinguono.

Restano in cattedra, apparentemente inamovibili, i sinedriti del freudismo, sepolcri imbiancati di una folle religione che ha piuttosto le caratteristiche e gli accenti di una forma di bassa magia nera: gli interessi economici e professionali che sottendono alla loro confraternita sono talmente potenti che non basterà la caduta di un semplice Muro per farli capitolare e per disperderli, come è avvenuto agli altri.

Essi attingono la loro ragion d’essere dalla fonte più antica e, purtroppo, inesauribile della condizione umana: la sofferenza, di cui si presentano come gli esperi e solerti avversari; e sempre avranno successo, sempre troveranno una clientela, fino a quando la cultura materialista continuerà a prevalere e ad insegnare che ogni forma di sofferenza è il Diavolo e va esorcizzata dai sacerdoti a ciò legittimamente preposti. Come si vede, cambiano i nomi e le formule rituali, ma la sostanza del discorso è teologica quanto prima: con la sola differenza, ma non certo lieve, che di una cattiva teologia si tratta, appunto perché del tutto inconsapevole.

Evviva, dunque, la domenica al supermercato e al centro commerciale: simbolo di liberazione dalle catene dell’oscurantismo pretesco e gioiosa manifestazione della vitalità, del seno pratico e della fiducia in se stesso dell’uomo nuovo, dell’uomo finalmente liberato, anzi, del superuomo formato consumista e postmoderno!

E poi, chi ha detto che, per celebrare degnamente la domenica al centro commerciale, si finisce per trascurare la famiglia? Ma no: portiamoci anche le moglie i mariti, i compagni e gli amanti, e, soprattutto, i cari pargoletti: portiamo anche loro nel paese di Bengodi, fra carrelli sferraglianti come destrieri e scaffali strapieni di merci appetitose; altro che gita fuori porta, altro che visite ai nonni o al cimitero e altre tristezze del genere!

Lasciamo che i morti seppelliscano i loro morti e non lasciamoci angustiare da pensieri malinconici: chi vuol esser lieto, sia; di doman non v’è certezza: dunque, perché comparare domani, il lunedì, quel che possiamo comperare già oggi, che é domenica? La domenica si ha più tempo a disposizione, si possono fare le cose con più comodo. Non si ha nemmeno il rammarico di perdere un buon programma televisivo, perché è passato da un pezzo il tempo in cui Mamma Rai ci trattava con i guanti alla domenica, considerandolo il giorno più importante per il proprio pubblico. Adesso, di domenica, la Tv ci sciorina il peggio del peggio, tanto la guardano soli i vecchi e i malati: e chi se ne frega di loro, non fanno mica audience…

Bene così, dunque: saliamo in macchina e gettiamoci bravamente nel traffico domenicale, per andare tutti quanti al più vicino centro commerciale. Niente paura se faremo tardi, c’è pure il fast-food, c’è pure il Mc Donald’s, così potremo mangiare senza neanche uscire e perder tempo a cercare un ristorante o una trattoria (il tempo è denaro!), e poi costa anche meno; senza contare che i bambini sono felicissimi di bere Coca-Cola e di riempirsi lo stomaco di hamburger e patatine fritte e rifritte nell’olio.

Che gioia andare su e giù lungo le corsie del supermercato e riempirsi gli occhi di merci che ti fanno sognare, ammirando devotamente gli ultimissimi modelli di computer e di telefonino…

Ah, domenica, finalmente domenica!