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Pallante: dismisura, il nemico che si traveste da amico

di Giorgio Cattaneo - 18/06/2012

Là dove c’era un mare “del colore dei pavoni”, cullato da “onde cangianti”, ora c’è l’inferno petrolchimico: raffinerie, stoccaggi e cemento, attracchi per le petroliere. E’ la costa di Priolo, venti chilometri tra Catania e Siracusa, devastata dalle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno inaugurate dal profetico patron dell’Eni, Enrico Mattei, l’uomo che aveva osato sfidare le superpotenze energetiche mondiali. Quando precipitò “misteriosamente” col suo aereo il 27 ottobre 1962 a Bascapè, sulle colline dell’Oltrepò Pavese, Mattei tornava da un viaggio-lampo in Sicilia: nel tripudio popolare, dal balcone del municipio di Gagliano Castelferrato aveva appena annunciato la nuova era del metano e del lavoro per tutti. Risultato: quel mare, ora, non è più balneabile. La colpa non è del progresso, dice Maurizio Pallante, ma della “dismisura” del cosiddetto sviluppo, il demone contro ci si batté Pasolini, che pure si appassionò (pericolosamente) al mistero della tragica fine di Mattei.

“Desmesura”, in occitano – lingua madre delle attuali lingue neolatine d’Italia, di Francia e di Spagna – significa “volontà di potenza”, vocazione Jokerall’annichilimento totalitario: la “Chanson de la Croisade”, poema cavalleresco sulla Crociata contro gli Albigesi del 1200, la attribuisce al potere vaticano che, in quell’occasione, oppresse oltre ogni ragionevole limite l’autorità feudale di Tolosa, capitale “ribelle” di uno Stato nazionale virtuale, mai nato, esteso dal Mediterraneo all’Atlantico in quella che, da allora in poi, si chiamò semplicemente Francia. Era un granducato anomalo, le cui finanze erano gestite da contabili ebrei, altrove perseguitati. Uno strano paese, laico e cosmopolita, aperto a molte possibilità di futuro, verso una forma di società straordinariamente avanzata: dalla rivoluzione culturale e sessuale dei Trovatori, cui si ispirò Dante per scrivere la Commedia, fino alla libertà religiosa: i cristiani dualisti di confessione balcanica, che poi l’Inquisizione ribattezzò col termine “Càtari”, avevano la medesima cittadinanza dei cattolici. Il modello sociale occitano, secondo la scrittrice Simone Weil, fu l’ultima apparizione europea dell’Atene di Pericle. E fu sconfitta, sanguinosamente e definitivamente, dall’ultima reincarnazione capitolina, quella del potere che antepone la forza delle legioni alla bellezza suprema della libertà, che si riflette nell’inviolabilità del gesto artistico e del pensiero filosofico.

Tra i versi di una straordinaria poesia dedicata al sacrificio del Battaglione Sacro di Cheronea, Guido Ceronetti celebra in quei caduti l’ultimo bagliore di una civiltà superiore, la prima nella storia dell’Occidente che seppe cantare, con l’Iliade, la dignità e la grandezza dei vinti, preservandone la memoria per l’eternità. “Dismisura” era l’incredibile divario tra la consistenza militare delle Polis democratiche e l’immensa armata imperiale persiana, fermata alle Termopili dai Trecento di Leonida. Se il nemico del mondo è proprio la “dismisura”, per arrestarne l’avanzata occorre innanzitutto una straordinaria dose di coraggio. Ma anche di cultura, aggiunge Pallante, profeta italiano della decrescita: la crisi del mondo, ridotto sull’orlo della guerra infinita” proprio dalla spaventosa “dismisura” del modello occidentale fondato sul dogma della crescita illimitata, può essere fermata con azioni democratiche di resistenza civile che utilizzino Simone Weill’arma popolare della politica, a patto però che non manchi la necessaria consapevolezza culturale dell’importanza strategica della missione, per il futuro stesso dell’umanità.

Là dove i greci nel VII secolo prima di Cristo avevano fondato le loro colonie più importanti, osserva Pallante in un recente intervento riproposto dal sito del Movimento per la Decrescita Felice, ora sorgono gli inabitabili inferni del Petrolchimico di Gela, emblema di un deserto di macerie che ha tradito ogni aspettativa, divorando il futuro e lasciando dietro di sé uno spettrale paesaggio di rovine. Per Tomasi di Lampedusa, la “dismisura” è stato l’errore della Sicilia, che – per sconfiggere la fame – ha tradito la sua vocazione, che secondo l’autore del “Gattopardo” era quella di “servir da pascolo per gli armenti del sole”. Paesaggio annientato «da un’arroganza tecnologica finalizzata alla produzione di quantità sempre crescenti di merci», scrive Pallante. Risultato: «L’aria è diventata irrespirabile, l’acqua imbevibile, molti terreni agricoli sono stati abbandonati, le percentuali dei tumori e delle deformazioni infantili hanno valori superiori alla media».

L’Italia del dopoguerra, ricorda Renato Barilli, voleva semplicemente crescere e lasciarsi alle spalle le miserie della civiltà contadina, muoversi verso la cultura industriale, l’urbanesimo, liberandosi dai vincoli di un mondo percepito come «riduttivo, chiuso al progresso». Questi, aggiunge Pallante, sono stati i “moventi” del processo che, con l’apporto di una potenza tecnologica sempre maggiore, in poco più di cinquant’anni ha distrutto i paesaggi a cui gli esseri umani, col lavoro di secoli,  avevano aggiunto bellezza alla bellezza originaria. Valori: l’immaginario collettivo della crescita, per la persuasione di massa. Un inganno: «La crescita non è, come si fa credere e si fa finta di credere, l’aumento della produzione di beni che migliorano la qualità della vita». Già, perché il parametro che la misura, il Pil, può calcolare soltanto il valore monetario degli oggetti e dei servizi che vengono scambiati con denaro, cioè le merci, ma non può dare nessuna indicazione sulla loro qualità. L’economia sana, quella orientata al continuo miglioramento della qualità, si fonda sulla misura, perché «produrre più di quello che serve non avrebbe senso». L’altra economia, la nostra, si fonda invece sulla “dismisura”, e trasforma la parola “più” in sinonimo di “meglio”. Il Petrolchimico di GelaErrore: «La bilancia mi dice solo quanto pesa una cosa, ma non se è buona o cattiva».

Oggi, aggiunge Pallante, non è possibile fermare la devastazione dei paesaggi senza una rivoluzione culturale che smonti, nell’immaginario collettivo, il falso valore della crescita. «Tutti i piani regolatori hanno sempre previsto, “per definizione”, consistenti aumenti delle superfici edificabili, indipendentemente dal colore politico delle giunte». Più in generale, «l’edilizia ha svolto una funzione di traino per la crescita economica in tutti i paesi industrializzati». Se il mattone “tira”, produce una crescita che viene spacciata per vero benessere. E se – per citare Barilli – si è convinti che l’urbanesimo costituisca ancora un progresso rispetto alle “miserie della civiltà contadina”, non è possibile ridurre le devastazioni. E’ stata proprio la sapienza contadina, che va assolutamente rivalutata, a costruire paesaggi bellissimi e anche sicuri, sotto l’aspetto idrogeologico. L’edilizia di qualità può aggiungere ulteriore bellezza, ma solo se sposa il paradigma culturale del terzo millennio, ripudiando quello della mera quantità. La decrescita non è privazione, insiste Pallante: c’è differenza, tra chi muore di fame e chi invece sceglie di dimagrire un po’, per guadagnarci in salute. La fame è crisi, recessione, malattia; la decrescita è il contrario: è guarigione.

Il discrimine è semplice: bisogna scegliere, tra beni e merci. L’energia che si disperde in una casa mal costruita non è un bene, ma solo una merce, buona al massimo per incrementare il Pil a nostro danno. Sono un bene, invece, alcune merci utili, accessibili solo mediante il mercato monetario: dal computer fino al macchinario ospedaliero della Tac. Ma, al tempo stesso, se volessimo, potremmo accedere a beni non mercantili, che potremmo auto-produrre, dalle verdure dell’orto fino alle piccole riparazioni domestiche. Beni che, oltretutto, potremmo facilmente e vantaggiosamente scambiare, senza ricorrere al denaro. In questo modo, pian piano, può cambiare anche Val Susa: No-Tav e repressionel’immaginario collettivo: va bene solo quello che è veramente utile. Nuove case? Prima, avverte il Forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio, sarà meglio censire l’enorme quantità di edifici vuoti.

Dal dopoguerra ad oggi, continua Pallante, non si è costruito solo troppo, ma anche male: dal punto di vista estetico, ingegneristico, ambientale ed energetico. Per il riscaldamento invernale, i nostri edifici consumano in media 200 chilowattora al metro quadrato all’anno, mentre in Germania la legislazione non consente che si superi un consumo di 70 chilowattora e gli edifici più efficienti ne consumano 15. Serve una nuova politica: come quella che sta attuando Detroit, per decostruzione l’area urbana e ri-naturalizzarla. Una politica urbanistica fondata sulla riqualificazione, a partire da quella energetica, consentirebbe oltretutto di superare la crisi che attanaglia il settore dell’edilizia, dove – più che le politiche fiscali – hanno inciso la saturazione del mercato e il progressivo aumento degli edifici invenduti. «Le possibilità che questa svolta possa avvenire sono maggiori di quanto si creda – conclude Pallante – perché da alcuni decenni non sono più soltanto alcuni architetti e urbanisti illuminati a formulare proposte di questo genere, ma anche settori sempre più vasti dell’opinione pubblica e della società civile, a partire dalla tanto vituperata sindrome Nimby che, seppure non immune da connotazioni egoistiche, ha segnato la rottura dell’egemonia culturale della Pallantecrescita, rimettendo in discussione la sua identificazione col concetto di progresso».

Fine dell’era della “dismisura”? «Oggi un’accoglienza festante come quella ricevuta da Mattei nella piazza di Gagliano Castelferrato non è più immaginabile». Nello scenario attuale, le grandi opere e i grandi impianti industriali che distruggono i paesaggi e la vita degli esseri umani che li abitano – come nel caso emblematico della valle di Susa che resiste al progetto-mostro della Torino-Lione – devono essere «imposti con la forza, l’occupazione militare del territorio, la demonizzazione mediatica di chi li rifiuta». Secondo Pallante, oggi più che mai può essere decisiva una saldatura tra questi movimenti e gli intellettuali impegnati a costruire un paradigma culturale diverso, dove il “fare” torni ad essere un “fare bene”, e l’obiettivo del “fare bene” sia la possibilità di contemplare ciò che si è fatto, proprio come facevano gli antichi e, dopo di loro, i contadini. Cultura onesta, per un’economia diversa concepita per noi, non contro di noi. Essenziale, «per imprimere una direzione positiva alla svolta della storia che stiamo vivendo».