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La città a misura d’uomo

di Francesco Lamendola - 19/06/2012


La città è l’ambiente artificiale per eccellenza e, come tale, tende ad allontanare l’uomo dal proprio centro vitale, nella misura in cui lo allontana dalla natura, dal silenzio, dalle voci e dai profumi delle piante e degli animali; anche se, indubbiamente, lo avvantaggia in tutta una serie di opportunità economiche, sociali e culturali.

C’è stato un tempo in cui la città non godeva del prestigio incondizionato, rispetto alla campagna, di cui gode ora; un tempo in cui gli abitanti della campagna o dei piccoli centri non nutrivano quel penoso complesso di inferiorità, che oggi li affligge, ma in cui, anzi, essi guardavano con un misto di compatimento e di disprezzo i cittadini, costretti a vivere in ambienti sovraffollati e rumorosi, sottoposti a ritmi e dinamiche alienanti, regrediti al livello di formiche impazzite all’interno di un malsano formicaio.

Il movimento di attrazione della città verso la campagna si è verificato in tempi e luoghi diversi, ha conosciuto battute d’arresto e addirittura fasi di regressione; ha preso definitivamente il sopravvento con l’avvento della moderna economia capitalista - il che, nell’Italia centro-settentrionale, si è verificato sin dal XII secolo - ed è divenuto un fenomeno globale con la formazione delle megalopoli del XX secolo.

Mano a mano che la città concentrava in sé tutti i centri della vita economica e specialmente finanziaria, si sviluppava la mitologia urbana, che ne magnificava le qualità, vere o presunte, di pari passo con la denigrazione sistematica della campagna e dei suoi abitanti, presentati come retrogradi, ignoranti, creduloni: basti pensare alla satira impietosa del villano contenuta nelle opere letterarie di Boccaccio e di Lorenzo il Magnifico e proseguita poi inarrestabilmente.

Ancora nella prima metà del Novecento, la narrativa di Cesare Pavese non riesce a descrivere la dialettica città-campagna se non in termini mitologici, irrealistici, amaramente nostalgici o acutamente nevrotici: la campagna, in particolare, è il luogo delle radici, ma delle radici ormai disseccate; di un primitivismo intessuto di Eros e Thanatos (vedi la vicenda incestuosa e la tragica morte di Gisella in «Paesi tuoi»); nonché di un impossibile ritorno alla innocenza dell’infanzia, (come in «La luna e i falò»).

Tanto andava premesso per non scordare mai che l’intero fenomeno dell’urbanesimo, che oggi ci sembra perfettamente “naturale” e inarrestabile, così come naturale e inarrestabile ci sembra l’esodo dalle campagne e soprattutto dalla montagna, è stato ed è tuttora, oltre che un fenomeno di matrice economica e sociale, e forse prima ancora di essere tale, un fenomeno anche e soprattutto di matrice culturale e psicologica: e, come tale, forse non proprio così naturale e così inevitabile come oggi ci piace pensarlo e rappresentarlo.

Sia come sia, tale è lo stato delle cose; e il fatto che, da alcuni anni, anzi, da alcuni decenni, la vita cittadina abbia mostrato anche i suoi risvolti negativi e le cronache quotidiane ce li raccontino con triste monotonia, non ha portato ad una vera inversione della tendenza: semplicemente, i ceti sociali medio-alti si sono trasferiti dai centri urbani, sempre più inquinati e degradati, verso le periferie residenziali, possibilmente in collina o comunque nelle zone ancora ricche di verde; ma il flusso dalle campagne verso i centri urbani non è, nel suo complesso, diminuito, perché non si è determinata una sufficiente reazione di tipo culturale e psicologico.

Pertanto, la domanda che realisticamente dovremmo porci, e che dovrebbero porsi gli urbanisti, gli architetti e soprattutto gli amministratori pubblici, non è cosa si potrebbe fare per disincentivare il fenomeno dell’urbanizzazione, ma, molto più modestamente, cosa si potrebbe fare per rendere le città, destinate e rimanere protagoniste del quadro sociale e culturale ancora a lungo, per renderle più umane, più rasserenanti, più vivibili; o, se si preferisce, un po’ meno disumane, un po’ meno angoscianti, un po’ meno invivibili.

La prima cosa da fare, a nostro avviso, sarebbe quella di ridurne drasticamente le dimensioni: e questa, ovviamente, non è materia da architetti, urbanisti o amministratori pubblici, ma da politici, economisti e uomini di cultura: sì, anche uomini di cultura, proprio per ridimensionare il mito della città nell’immaginario collettivo, cosa che si dovrebbe fare simultaneamente attraverso il cinema, la televisione, la letteratura e la stessa riflessione filosofica.

I filosofi, sino ad ora, hanno brillato per la loro assenza riguardo al tema del rapporto, sempre più schizofrenico, determinatosi fra città e campagna: pare che non vivano sulla Terra, ma su Marte o su Plutone. Non hanno detto una parola quando la civiltà contadina periva assassinata dal consumismo più becero e aggressivo, quando le valli alpine e le campagne venivano abbandonate dai giovani e poi anche dai meno giovani (e, contestualmente, disboscate e cementificate); possibile che non abbiano niente da dire nemmeno adesso, quando i mali dell’urbanesimo selvaggio sono divenuti evidenti anche all’uomo della strada, e quando i danni dell’abbandono dell’agricoltura sono palesi anche per l’economista più sprovveduto?

Al di sopra di una certa soglia quantitativa, salvo rare eccezioni, una città è invivibile per definizione; l’eccezione potrebbe essere Londra, che, pur coi suoi otto milioni di abitanti, grazie al suo prevalente sviluppo orizzontale e alla conservazione di numerose aree verdi, si presenta, in buona misura, più come una ininterrotta aggregazione di quartieri e di centri minori, che come una moderna megalopoli, nel senso più tecnico del termine.

L’Italia, che ha una storia urbana molto specifica e molto precoce (essendo stata, insieme alle Fiandre, la prima nazione d’Europa a vivere la rinascita urbana medievale), parte relativamente avvantaggiata: non vi è, in essa, una tradizione che vada nella direzione dell’inutile gigantismo, ma, semmai, una tradizione di piccoli e medi centri con caratteristiche urbane, e a tale tradizione occorre rifarsi per favorire un ritorno a condizioni di minore sovraffollamento.

Anche il decremento della natalità avrebbe potuto favorire una politica di ridistribuzione della popolazione in direzione della campagna, se non vi fosse stata l’ondata immigratoria che, nel corso degli ultimi dieci anni (dati Istat) ha visto il numero degli stranieri triplicare (e triplicare anche il numero dei baraccati). Strano modo di raccontare la cosa, da parte del servizio pubblico: si dice, per bocca degli speaker dei telegiornali di regime, che tale incremento della popolazione immigrata ci ha “salvati” dal calo demografico; invece non ci ha salvati affatto: il calo demografico c’è e rimane; l’aumento degli immigrati e la loro ulteriore, futura crescita (stante il loro tasso di natalità molto maggiore del nostro) non solo non lo compensa, ma ne accentua gli effetti.

Insomma, proprio quando il decremento demografico avrebbe avuto, fra le tante conseguenze negative, almeno una positiva, ossia quella di far diminuire la pressione nei centri urbani, decongestionandoli e consentendo migliori condizioni di vivibilità per i residenti, specialmente anziani (sono questi ultimi, infatti, che non possono, neanche volendo, lasciare i vecchi centri urbani, perché legati al loro unico bene, la casa di proprietà, oltre a un bagaglio di ricordi che non può essere oggetto di transazione economica), ecco che le città, e specialmente i quartieri più poveri e, quindi, più degradati, hanno subito un rinnovato affollamento e un ulteriore degrado per l’arrivo di una massiccia quota di popolazione straniera, che si è accaparrata le case popolari messe a disposizione dai comuni, ha fatto una concorrenza spietata al piccolo commercio locale (si pensi solo alle merci dei minimarket cinesi coi loro prezzi fuori mercato) e ha aggravato i problemi di micro-criminalità, prostituzione e droga nelle periferie povere.

Anche in questo caso, la risposta dovrebbe essere una politica che incoraggi, mediante incentivi di vario genere, il ritorno ai rispettivi Paesi di provenienza del maggior numero possibile di immigrati, smettendola di valutare il fenomeno in maniera unilaterale, come se l’aumento della popolazione totale fosse, di per sé, un bene o come se l’apporto di manodopera a basso costo non costituisse un vantaggio, sì, per le imprese, ma un fattore obiettivo di penalizzazione per la manodopera italiana, costretta ad adeguarsi a un costo del lavoro sempre inferiore al costo della vita.

Quanto agli immigrati, che cosa ci si può aspettare da loro? Quali sentimenti dovrebbero nutrire, secondo i paladini nostrani dell’immigrazione illimitata, verso la nazione ospitante: consapevoli, come sono, che dovranno sempre accontentarsi, qualunque cosa accada all’economia italiana ed europea, di sedere sul gradino più basso della scala sociale? Ed è inutile aggiungere che il razzismo, in questo discorso, non c’entra assolutamente nulla. Ma si tratta, appunto, di problemi politici, che né gli urbanisti, né gli amministratori locali possono affrontare.

La seconda cosa che si dovrebbe fare, per rendere più umane le nostre città, sarebbe disincentivare seriamente l’uso del mezzo privato e offrire, nel contempo, una rete efficiente di trasporti pubblici, oltre a diffondere in misura maggiore la cultura della bicicletta, come da moltissimo tempo si fa nelle città del Nord Europa. Anche qui, il fattore culturale svolge un ruolo importantissimo: fino a quando, da noi, l’automobile di grossa cilindrata sarà vista cime uno status-symbol da sfoggiare quotidianamente, anche solo per andare a fare la spesa o per accompagnare  figli a scuola, non verremo mai fuori dal problema dell’intasamento del traffico urbano, né da quello dell’inquinamento atmosferico e acustico.

Certo, ci vogliono le piste ciclabili: e questa è materia per architetti, urbanisti e amministratori. Ma anche la politica ha la sua parte di responsabilità: finché si continua ad incentivare il mercato delle automobili a benzina (mentre quelle elettriche sono già in vendita, ma nessuno ci crede né investe su di esse, anche se si sa che il petrolio sarà esaurito entro meno di due generazioni), non si vedranno apprezzabili cambiamenti positivi.

Né si vedranno fino a quando il biglietto dell’autobus, della metropolitana o della corriera sarà più caro del costo del trasporto mediante il mezzo privato, per giunta accompagnato da un servizio scadente e da orari problematici. Un cittadino che deve recarsi al lavoro all’altro capo della città deve avere la certezza assoluta di arrivare in tempo utile, senza viaggiare in piedi e spintonato da ogni parte, magari anche borseggiato; e senza dover spendere, alla fine, più di quanto spenderebbe tirando fuori la macchina dal proprio garage.

La terza cosa da fare sarebbe di riqualificare i centri urbani, favorendo la ripresa e la diffusione del commercio piccolo e medio, specialmente i piccoli supermercati di quartiere, i negozi di generi di prima necessità, le farmacie, le edicole, le filiali delle banche, gli asili, le scuole, i circoli ricreativi per gli anziani, le palestre e le piscine, le biblioteche: insomma tutto quello che serve perché un quartiere viva di vita propria e perché i suoi abitanti non siano costretti a recarsi in centro ogni santo giorno, per provvedersi delle cose indispensabili all’esistenza.

Riqualificare i quartieri significa anche, ovviamente, condurre una lotta senza quartiere alla microcriminalità e adottare il pugno di ferro contro gli spacciatori e gli sfruttatori della prostituzione, con tanto di rimpatrio immediato per gli immigrati che delinquono e con divieto assoluto di farsi mai più rivedere, pena l’arresto automatico e la condanna a  lunghe pene detentive. Ma anche qui, è chiaro, il problema è prevalentemente politico; è il Parlamento che deve legiferare; quanto alla magistratura, dovrebbe smetterla di applicare le leggi quasi sempre nel senso più favorevole a chi le infrange  e nel senso meno favorevole a chi le rispetta. Per esempio, è forse giusto che un inquilino possa rifiutarsi di pagare l’affitto a un proprietario che, forse, non è molto più benestante di lui, e ciò per mesi e anni, senza che un provvedimento del giudice risolva la questione in via definitiva?

Riqualificare i quartieri, poi, significa, è chiaro, dare maggiore spazio al verde pubblico (e privato) e rendere più a misura d’uomo i complessi architettonici: meno demagogia, meno spettacolarismo, meno ponti di Calatrava e altri obbrobri pseudo-artistici, meno eco-mostri e più parchi, più giardini, più viali alberati. Dopo di che, ancora una volta: vigilare affinché il verde pubblico sia a disposizione dei bambini, delle famiglie, degli anziani, e non degli spacciatori, dei delinquenti, degli incivili. Bisognerebbe fare come negli stadi: divieto assoluto di entrarvi per quelle persone che si rendono colpevoli di atti contro le persone o contro il patrimonio. Uno spacciatore, arrestato e schedato come tale, non dovrebbe mai più potersi avvicinare a un giardino pubblico o a una scuola, così come una persona condannata per molestie non può avvicinarsi alla persona o alla casa della sua vittima, pena l’arresto immediato.

È quasi superfluo aggiungere che, fino a quando non si troverà il modo di smaltire i rifiuti in maniera differenziata, ordinata, responsabile; fino a quando non si appronteranno, nell’hinterland cittadino, le necessarie strutture di smaltimento e riciclaggio dei rifiuti; fino a quando, a monte di tutto questo, non si riuscirà a farne diminuire sensibilmente la quantità, mediante un modo più intelligente e meno consumista di fare la spesa da parte di tutti e di ciascuno, ogni idea di riqualificazione resterà solo un bel sogno.

Ci sarebbero tantissime altre cose da fare, ma quella più importante sarebbe che la popolazione, alla faccia degli intellettuali servi e venduti, che su queste cose non dicono una parola, facesse da sé stessa una rivoluzione copernicana del proprio modo di porsi rispetto alla città in cui vive: a partire dall’amore per le persone e per i luoghi, senza di cui nessun intervento dall’alto, per quanto utile e intelligente (cosa che, peraltro, non si verifica spesso), risulta perfettamente inutile. È inutile, infatti, che l’amministrazione faccia installare un cestino per i rifiuti ogni cento metri, se le persone continuano a gettare a terra la lattina di birra o la bottiglietta di plastica.

Una città è vivibile nella misura in cui i suoi abitanti la amano, le sono affezionati, la rispettano; ma per poterla amare e rispettare, essa deve offrirsi a loro come un luogo ospitale e non come una bolgia dantesca in cui vige la legge del Far West.

Si ama la propri casa, quando si ama la propria famiglia; e si ama la propria città, quando la si sente come una specie di famiglia allargata, come un luogo dell’anima oltre che il luogo del lavoro e dello stipendio. Non la si può amare se, nel proprio quartiere, scompaiono la rivendita del pane, il fruttivendolo, l’edicola dei giornali, la farmacia dove comprare le medicine, il bar dove fare una partita a carte con gi amici, il giardinetto in cui portare a giocare i bambini; per ritrovare, al posto di tutto ciò, solo una serie di banche, di uffici di assicurazioni, di agenzie d’affari.

Dovremmo sforzarci di vedere la città come la vedono i bambini, come la vedono i genitori che portano a spasso le carrozzine coi neonati, e come la vedono gli anziani: perché se una città risulta abbastanza vivibile per loro, vuol dire che i suoi architetti, i suoi urbanisti e i suoi pubblici amministratori sono sulla strada giusta; se, invece, la vivono male, con disagio e sofferenza, allora vuol dire che si è sbagliato qualcosa d’importante e che bisogna sforzarsi di individuarlo, per ricominciare daccapo.

Infine, la città deve non deve essere solamente un luogo in cui produrre e scambiare merci e servizi, ma anche un luogo in cui poter sognare: come fanno i bambini, quando corrono felici, durante un gioco, nel giardino pubblico; e come fanno, a modo loro, gli anziani, quando, guardando quei bambini da una panchina o dalla veranda di un tranquillo bar di periferia, ricordano come’erano i loro stessi sogni, tanti anni prima…