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Un ricordo di Teofilo Stevenson

di Marco Bagozzi - 25/06/2012


E’ morto a L’Avana, all’età di 60 anni, il pugile Teófilo Stevenson, eroe dello sport e della Rivoluzione cubana.
Nato il 29 marzo 1952 a Puerto Padre, da padre antillano e madre cubana, Stevenson rimase sempre fedele ai principi socialisti del dilettantismo sportivo e rifiutò in più occasioni il passaggio al professionismo.
Già a nove anni parteciperà ad alcune gare come sparring partner di atleti più adulti. A soli 19 anni conquista il primo posto ai Giochi Panamericani del 1971 e l’anno successivo rappresenta Cuba alle Olimpiadi di Monaco del 1972, dove conquista la prima medaglia d’oro nei pesi massimi, superando il rumeno Ion Alexe in finale.
Nel 1972 è inoltre nominato Maestro Onorario dello Sport dell’Unione Sovietica, uno dei pochi atleti stranieri a conquistare questo riconoscimento. Nel 1974 conquista il primo mondiale dilettanti, in casa a L’Avana, nel 1975 il secondo titolo Panamericano e nel 1976 il secondo oro Olimpico a Montreal, contro un altro rumeno Mircea Simon. Ormai è una leggenda dello sport pugilistico e gli viene offerto di combattere contro Muhammad Ali. Gli americani offrono al cubano una borsa da 5 milioni di dollari. Ma Teófilo rifiuta rispondendo orgoglioso: «Cosa valgono cinque milioni di dollari, quando ho l’amore di otto milioni di cubani?». Fidel Castro lo omaggiò con una casa.
«Basta parlare di me – disse anni dopo Stevenson – e della mia mancata sfida con Ali. Io devo tutto a Cuba, ed al mio popolo. E’ della mia gente che si deve parlare, della sua grande umanità, del suo valore. Io ho solo seguito ciò che ritenevo giusto e che mi ha reso un campione. Devo tutto al mio popolo, e di lui, quindi di Cuba, si deve parlare».
Nel triennio successivo ottiene altri tre trionfi in serie: Mondiali 1978 (a Belgrado), Panamericani 1970 ed Olimpiadi 1980 (a Mosca contro il sovietico Piotr Zaev). Conquisterà un altro Mondiale nel 1986 a Reno, nel Nevada, nella categoria supermassimi. Solamente nel 1982 non riuscirà a centrare il gradino più alto del podio, in seguito alla sconfitta contro l’italiano Francesco Damiani.
Nella sua carriera ha combattuto 302 incontri, perdendone solo 22.
Nel 1999 è nominato allenatore del Programma cubano di pugilato dilettantistico. Proprio in questa veste verrà arrestato a Miami dalla polizia americana dopo una rissa con un addetto dell’aereoporto Internazionale della città della Florida. Secondo la versione di Stevenson l’impiegato si era avvicinato alla comitiva cubana proferendo insulti alla Rivoluzione e al Governo.
Alto 1.91 aveva un’estensione di braccia impressionanti. In molti lo consideravano come l’unico avversario capace di battere Alì.
Fermamente fedele agli ideali della Rivoluzione patriottica e socialista cubana, Stevenson rappresenta un esempio inarrivabile per chi sogna uno sport pulito e liberato dall’incombenza del denaro e dell’economicismo a tutti i costi. Stridono in questo contesto le parole del giornalista Rino Tommasi: «E’ stato difficile capire perché non sia mai passato al professionismo. Perché non abbia mai cercato di tradurre in soldi il suo talento e la sua popolarità. E’ nato in un clima, in un ambiente molto diverso da quello in cui sono cresciuti i grandissimi dello sport mondiale», quasi che il vivere da Eroe nella sua Terra, il vivere secondo sani principi sportivi rappresenti un’onta per un pugile di talento. Un personaggio di cui, evidentemente il giornalista italiano non riesce a coglierne l’esatta grandezza.
Di lui Fidel Castro disse: «Crediamo che abbia dato un esempio ancora più valido nel momento in cui parlarono della possibilità di guadagnare un milione di dollari. Questo giovane, figlio di un’umile famiglia e di un’umile operaio orientale, disse che non avrebbe cambiato il suo popolo per tutti i dollari del mondo…Che impatto avrà questa dignità umana, questo spirito che pone i valori dell’uomo in cima a qualunque bene materiale?».
Un esempio, quindi, da proporre come contraltare allo sport nell’era capitalista fatto di soldi, marketing, mercificazione totalizzante, ma anche a certe tendenze marxistoidi che propugnano il superamento della competizione sportiva per arrivare ad uno “sport neutro”, come ad esempio nelle deliranti parole dell’ex (scarso) centrocampista jugoslavo, ex Juventus e Basilea, ed ora “pseudo filosofo” Ivan Ergic che in un’intervista sul giornale serbo Politica ha dichiarato: «Lo sport è l’ideologia allo stato puro e dicendo questo penso allo sport professionale di qualsiasi specie. Lo sport è quella pedagogia sociale che induce alla competizione, alla determinazione, alla vittoria, alla sconfitta, al sacrificio, alla perseveranza, alla lotta, quindi a tutto ciò che rappresenta il mercato, che è la più grande ideologia mai esistita. Lo sport è l’agitprop del mercato». Competizione, determinazione, perseveranza, sacrificio che sono elementi fatti propri da quel grande eroe socialista che era Teófilo Stevenson: «dobbiamo continuare a lottare nello sport», secondo le parole di Fidel.