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Sul filo della memoria, con la «marilenghe», nell’antica chiesetta in cima al colle

di Francesco Lamendola - 25/06/2012

 


 

Era quasi sempre chiusa e i ragazzi vi passavano davanti, salendo l’ultima rampa di scale che immetteva sullo spiazzo del castello, in cima al colle da cui si ammira un immenso panorama sulla chiostra delle Alpi orientali.

Da lì ci si poteva riempire lo sguardo e i polmoni d’infinito, era come abbracciare il mondo intero con un unico sguardo e con un unico respiro; anche se bambini e ragazzi erano più interessati al gioco, a correre e saltare, a nascondersi e inseguirsi, a far decollare dei piccoli aquiloni e sognare gli appostamenti degli armigeri che un tempo facevano la ronda, su e giù, lungo gli spalti, proprio nel punto in cui sovrastavano una fitta macchia di abeti.

Tenuta in ottimo stato, si sapeva, tuttavia, che la piccola chiesa era antichissima, così antica che le sue origini si perdevano nel passato più remoto: chi le faceva ascendere ai primi secoli del cristianesimo, chi a prima ancora, quando, sullo stesso luogo, sorgeva un tempio pagano dedicato a qualche strana divinità dimenticata.

E poi c’era l’agnul in cima al campanile, l’angelo di bronzo, che, con la sua caratteristica sagoma, ruotando a seconda della direzione del vento, sembrava prendere sotto la sua protezione, dall’alto del colle, tutta la città e la vasta pianura, dalle vicine montagne fino alla linea azzurra del mare, visibile, quest’ultima, nelle giornate più belle; si tramandava infatti che la collina stessa era stata fatta erigere da Attila, il terribile re degli Unni, per godersi da lontano lo spettacolo dell’incendio che divorava Aquileia, rea di aver tentato di resistergli.

Una volta all’anno solamente la si trovava aperta con certezza, a parte qualche matrimonio: il secondo giorno di febbraio, per la festa di San Biagio e della Madonna Candelora, quando le mamme portavano i bambini a ricevere la benedizione della gola, perché quel santo era ed è noto come un potente difensore contro le malattie della gola. Il sacerdote impartiva la benedizione mentre imponeva due lunghe candele alla base del collo dei fedeli, formando come una specie di croce: un gesto carico di significato simbolico, anche se i più piccini non lo capivano e tutto quel che ne ricavavano era un’impressione quasi di gioco, il gioco di una blanda simulazione dello strangolamento.

La saggezza popolare aveva anche creato un proverbio per il 2 febbraio: «A la Madone candelore, s’al è nulât il frêt al è lât, s’al è seren il frêt al ven», che si traduce così: «Il giorno della Madonna candelora, se è nuvoloso il freddo è andato via, se è sereno vuol dire che il freddo sta arrivando»; anzi ve n’era anche un secondo, che recitava: «A San Blâs la gjate si leche il nâs» («A San Biagio la gatta si lecca il naso», evidentemente per il freddo, perché il detto «avere il ghiaccio al naso» significa che fa molto freddo.

Magnifico Paese, il Friuli; paese quasi mitico, di castelli, di montagne, di leggende; ma assai freddo l’inverno, come aveva osservato anche Giovanni Boccaccio, che certo ne aveva avuto notizia da qualche mercante della sua Toscana. Scrive, infatti, nell’incipit della novella quinta della giornata decima del «Decameron», la bella e celebre novella di Madonna Dianora: «In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora, e moglie d’un gran ricco uomo nominato Gilberto, assai piacevole e di buona aria.»

E seguita dicendo che alle calende di gennaio (ossia il primo giorno di gennaio), quando i freddi erano grandissimi e ogni luogo era pieno di neve e ghiaccio, un negromante, su richiesta d’un cavaliere innamoratosi perdutamente di madonna Dianora, fece una potentissima magia, ottenendo che fiorisse uno splendido giardino profumato, ricco di erbe, alberi e frutti d’ogni tipo, un giardino più bello di quanti ne fossero mai stati visti da alcuno.

La benedizione della Candelora aveva luogo nelle prime ore del pomeriggio, sfruttando le ultime ore di luce prima del tramonto; ed era sempre una strana emozione passare dalla penombra delle navate, con i solenni affreschi medievali, antichi di secoli e secoli, raffiguranti Cristo, la Madonna e vari santi, nella luce madreperlacea del cielo invernale, davanti allo scenario maestoso e commovente delle Alpi Giulie e Carniche bianche di neve. Poi si tornava a casa, imboccando la ripida discesa in terra battuta verso la Piazza Grande, dove un tempo favolosamente remoto esisteva un lago abitato da un drago; oppure prendendo per una snella successione di porticati, per la scalinata che conduceva direttamente al centro della città, alla stupenda Piazza della Libertà, che molti considerano una delle più belle piazze rinascimentali d’Italia.

Immagini lontane, figure che sbiadiscono nel ricordo, ma che un colpo di vento, un profumo improvviso, una parola pronunciata da qualcuno nella “marilenghe” riportano vivamente alla memoria; specialmente il suono della lingua d’un tempo - la “mari”, in friulano, è la madre - ha un potere evocativo fortissimo; basta udirne un frammento, dopo anni e anni di dimenticanza, e subito qualcosa si desta nel profondo dell’anima con forza sbalorditiva.

Come é dolce, a chi l’abbia udita da piccolo, questa parlata neolatina che invece, agli stranieri, appare probabilmente così rozza e incomprensibile; è proprio la lingua-madre, la lingua che ha accompagnato gli anni più rapinosi e incantati della vita d’un essere umano, quelli della fanciullezza, e che per sempre rimarrà legata ai ricordi più importanti, perché più antichi.

Certo, agli orecchi di uno straniero deve sfuggire la sua arcana, ritrosa dolcezza; solo chi l’abbia udita dai nonni, quando già in città si parlava da molti un dialetto di origine veneziana, può sentire quella fitta al cuore, quel caro turbamento che si credeva dimenticato per sempre.

Ecco qualche frase dal Vangelo di san Marco, il Vanseli seont Marc, nella gustosa e coloritissima traduzione di Antoni Bellina, un sacerdote che ha talmente amato quella lingua scarna e maschia, ma pervasa di una sua struggente malinconia, da compiere il titanico lavoro di tradurre in essa l’intera Bibbia, Vecchio e Nuovo Testamento al completo. È la scena che descrive l’incredulità dei compaesani di Gesù, a Nazaret, davanti alla sua annunciazione messianica (Mc., XIII, 53-58):

 

«Jessût di li, Gjesù al rivà te sô patrie, compagnât dai siei dissepui. Rivade la sabide, al tacà a insegnâ in te sinagoghe  e tante int che lu scoltave a disevi maraveâz: “D’indulà lis tirial fûr dutis chestis robis? E ce sapience ese  cheste che j è stade dade? E ce meracui fàsino  lis sôs mans?  Po non esal il fari, il fî di Marie, e il fradi di Jacum, di Josegf,  di Gjude e di  Simon? E lis sôs sûrs non sono culì framieč di nô? “. E si scandulisavin  di lui. Gjesù  però us diseve: “ Un profete al è spreseât dome te sô patrie, framieč dai siei parinc’ e a cjase sô”. E nol podé fâ nessun meracul, dome vuarî un pôs di malâz metintjur sore lis mans. E si dave di maravee  pe lôr mancjance di fede.»

 

Come spiegare a chi non è friulano, a chi non ha vissuto l’infanzia nel Friuli, la ridda, l’esplosione di sentimenti che suscita nell’anima il suono di questa lingua, ridestando le pieghe più profonde dell’affetto e del ricordo?

“Marilenghe” non vuol dire semplicemente “madrelingua”, nel senso tecnico della parola; vuol dire che la lingua, quella lingua, è come una madre e che essa desta in coloro che la parlano o che l’ascoltano la stessa inesprimibile dolcezza che il figlio prova quando riceve le carezze della propria madre.

No, è una cosa che non si può spiegare; la si può solo provare, provare con tutto il proprio essere, sino alle radici più profonde. È come un cordone ombelicale che non si spezza mai del tutto, e che continua ad alimentare, anche quando non vi si pensa né lo si crederebbe, un legame tenace e irriducibile, destinato a proseguire per tutta la vita, non importa quanti anni siano passati e quante altre esperienze, viaggi e nuovi modi di pensare si siano succeduti.

È come aver amato una donna in gioventù e poi perderla di vista, non sentirla più nemmeno nominare, ignorare del tutto quel che ne sia stato; e dimenticarla poco a poco, o meglio credere di averla dimenticata, non pensarci più per mesi e anni; ma poi, ecco, d’un tratto emerge un viso in mezzo alla folla, un paio di spalle, un riflesso di rame sui capelli: e non solo la si riconosce all’istante, fra cento, fra mille altre donne, ma si sente il cuore mettersi a battere all’impazzata, così, senza alcun preavviso, come la si fosse lasciata solo la sera innanzi e non si avesse mai cessato di amarla, di pensarla, di desiderarla.

Cento e cento cose tornano alla mente: i cigni che si dondolano nel sole lungo la roggia, sotto i ponticelli avvolti di edera selvatica; i portoni e i cortili interni avvolti nel verde, simili a piccoli boschi che stormiscono nelle brezza della sera; le domeniche mattina, con il tubare delle colombe e il festoso scampanio proveniente da due, da tre, da quattro diversi campanili; il gelso gigantesco, che con i suoi rami nodosi e smisurati si protende per tutta la piazza e sotto di essi le bancarelle del mercato che, da generazioni, attirano grandi e piccini (quel caro vecchio gelso che più non esiste, lo tagliarono perché malato e la piazza, da allora, non sembra più quella); il vecchio bar di periferia che si apre sul borgo acciottolato, col ronzio delle mosche in estate e i bambini che allegramente vi fanno irruzione, per comperare il gelato o per bere la spuma…

E ancora: i riflessi del sole invernale sulla facciata dell’antico palazzo, sui vetri delle finestre che si accendono come ai bagliori d’un incendio; la statua in bronzo del vecchio poeta tanto amato dalla gente umile del popolo, il vecchio poeta quasi cieco, con le lenti spesse, laggiù nel minuscolo giardino davanti all’Ospedale Vecchio; la bottega della fruttivendola nel borgo che sa ancora di un’epoca passata, quando la roggia non era stata coperta e scorreva con allegro tumulto sotto i muri delle case; e il giardino misterioso del collegio, dove bambini e bambine giocano a rincorrersi durante la ricreazione, all’ombra delle piante, come se il tempo si fosse fermato e non esistesse che il presente, mai sazio né stanco; e la maschera paurosa del cavaliere che, per il Carnevale, volle indossare un’armatura da diavolo e poi non riusciva più a levarsela, finché, disperato, fece un voto ala Madonna e la lasciò lì, in segno di grazia ricevuta, nell’atrio del santuario…

Ricordi: ma che vuol dire, ricordi? Schegge del passato, o frammenti di un mosaico che non finisce mai, che seguitiamo a comporre fino all’ultimo giorno della vita e che, forse, seguiteremo a comporre anche dopo, chissà dove, chissà come?

Volti, gesti, profumi, colori, parole, scherzi, sapori, sensazioni tattili: il venticello di marzo sulla faccia, l’odore di bagnato all’inizio dell’estate, la calda magnificenza dell’autunno, con le foglie multicolori ai piedi dei platani, lungo i viali; il cielo di gennaio che si tinge di porpora e d’arancio avanti che cominci ad albeggiare, e dal cavalcavia ferroviario puoi contemplare quella prima macchia di luce ancora incerta che si accende verso est, spiccando sulle tenebre circostanti; e quel fremito di vita nelle narici, quella nostalgia d’infinito, quella commozione di più lontani orizzonti, di palpiti e sussurri che guizzano nell’ombra, annuncio d’inesprimibili promesse…

«Dove sei stato tutto questo tempo?», sembrano chiedere tutti quei volti, attraverso il volto della signora Alice, miope come una talpa, col suo fazzolettone annodato sulla testa, sempre mite e sorridente, anche se con il cuore gravato da innumerevoli tristezze. «A un certo punto non ti abbiamo più visto: dove sei stato? Dove te ne sei andato?»

L’acqua scorre giovanile sotto i piccoli ponti ricoperti di edera e brilla come l’arcobaleno sotto i raggi del sole mattutino. Da due, tre, quattro differenti direzioni, si ode provenire un festoso scampanio, certo dev’essere domenica mattina.

Poi ecco il volto magro, dalla barba mal rasata, del professore di disegno; i suoi occhi vivacissimi mandano lampi di malizia, mentre con voce stentorea interroga i suoi alunni per sapere se qualcuno ha eseguito lo schizzo servendosi della squadra; e tutti si fanno piccoli nei banchi, letteralmente terrorizzati dall’imminente scoppio d’ira di quell’uomo buono e geniale, ma imprevedibile.

Il canarino, nella sua gabbietta appesa al muro nel minuscolo giardino della nonna, non smette di cantare con la sua voce melodiosa, che risuona come un limpido torrente di montagna.

E la cima del pioppo si dondola lentamente contro il cielo azzurro, tremolando con le sue mille mani in segno di saluto…