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L’armonia spirituale dell’Europa si è incrinata insieme alla teoria del bene limitato

di Francesco Lamendola - 29/06/2012

Una storia spirituale dell’Europa, o della decadenza europea, non può evitare d’interrogarsi su quando sia incominciato lo stato d’insoddisfazione cronica, di aspettativa ansiosa e sempre delusa, di frustrazione permanente, che ha finito per diventare normale, tanto da aver originato una apposita pseudoscienza, la psicanalisi freudiana, con l’obiettivo di medicarlo.

È certo che è esistito un tempo in cui le persone non cadevano in depressione, non erano preda della nevrosi, non si sentivano complessivamente inadeguate rispetto alla vita e al mondo, anche se le loro condizioni di esistenza, materiale e morale, erano dure quanto e più di quelle odierne e anche se il senso di precarietà sociale non aveva certo minor fondamento di quanto ne abbia nella realtà contemporanea.

Riteniamo che un utile punto di partenza, in una tale indagine, sia quello relativo al concetto della “cupiditas”, così duramente stigmatizzato da Dante, che lo rappresenta allegoricamente mediante la più temibile delle tre fiere apparsegli nella selva oscura del peccato: la lupa; un peccato che era considerato, a sua volta, causa d’infiniti altri mali, dall’invidia all’avarizia, e che, nella dimensione collettiva, si manifestava nelle forme della violenza, della guerra, dell’usura.

Si potrebbe osservare che la “cupiditas”, la smania incontenibile di acquisire, con qualunque mezzo, sempre nuovi beni e sempre nuove ricchezze, è antica quanto l’uomo e ne costituisce una caratteristica immanente; ma il punto è un altro, e cioè se tale smania venga incoraggiata o scoraggiata dalla cultura dominante: possiamo definire sostanzialmente sane e tendenti all’equilibrio le società in cui essa viene scoraggiata, malate e tendenti al disordine quelle in cui viene alimentata, stuzzicata, ossessivamente coltivata.

La cultura medievale sapeva che si tratta di una belva feroce da tenere alla catena: tutta l’economia corporativa partiva dal presupposto che la tendenza all’accumulo continuo di beni è un male e che fomenta discordie, tensioni, ingiustizie; la modernità ha finito per capovolgere la prospettiva e per indicare nel perseguimento inesausto di beni e piaceri lo scopo stesso della vita o, quanto meno, il mezzo indispensabile per conquistare un’esistenza felice.

Quando è avvenuto, esattamente, e come si è verificato un simile, radicale capovolgimento della prospettiva? Vediamo.

Nella cultura medievale esisteva una dottrina ben precisa circa il bene limitato: secondo tale dottrina, esiste, nel mondo, una quantità stazionaria di bene, inteso come prosperità, piacere, realizzazione dei propri disegni. In linea generale, vi è nel mondo abbastanza piacere per tutti, o, in ogni caso, abbastanza perché la vita di ciascuno si possa considerare accettabile e degna di essere vissuta; però, se qualcuno si prefigge di accumulare il massimo del piacere nella propria vita, spingendosi molto al di là dei propri bisogni effettivi e delle proprie ragionevoli aspettative, inevitabilmente ciò si traduce in un impoverimento della vita altrui.

In altri termini, esiste una stretta ed esplicita relazione fra la quantità di bene disponibile per ciascun membro della famiglia umana; di conseguenza, è chiaro che, se qualcuno vuole appropriarsi di una quantità smodata di bene, è come se con ciò lo togliesse, letteralmente, ai suoi simili, perché il bene è come una coperta che può offrire riparo a condizione che non la si voglia tirare da una parte oppure dall’altra, perché, in questo caso, necessariamente qualcuno finirà per rimanere scoperto ed esposto al freddo.

È ovvio che la cultura medievale non credeva nell’idea del progresso, ed è altrettanto ovvio che considerava la stabilità come il fondamento di ogni altro valore: per questo le corporazioni proibivano la pubblicità, la concorrenza, i procedimenti di fabbricazione segreti, affinché nessuna bottega si avvantaggiasse rispetto alle altre, se non per merito della bontà intrinseca dei prodotti o dei servizi che era in grado di offrire al pubblico.

Tutto questo nasceva da una concezione olistica del reale: il mondo non è formato da una somma, più o meno disordinata e casuale, di enti, ma è un insieme ordinato e armonioso di parti che trovano significato solo in relazione al tutto; pertanto, agire a livello locale, nel bene come nel male, significa provocare una serie di ripercussioni che finiranno per arrivare fino alla più remota periferia dell’organismo sociale.

L’uomo medievale, quindi, è abituato ad accontentarsi di quel che possiede e a puntare sull’essere, non sull’avere; i suoi due tipi ideali, il cavaliere e il santo, sono entrambi degni di ammirazione non per quello che possiedono, ma per quello che sono, per quello che rappresentano in quanto soggetti capaci di lavorare su se stessi, fino al perfezionismo spirituale, senza cercare scorciatoie di sorta e senza scendere mai a compromessi, per nessuna ragione.

Ha scritto il medievalista John Bossy nel suo pregevole studio «L’Occidente cristiano, 1400-1700» (titolo originale: «Christianity in the West, 1400-1700», Oxford University Press, 1985; traduzione italiana di Enrico Basaglia, Torino, Einaudi, 1990, 2001, pp. 42-44):

 

«Su questa etica comunitaria insistevano i sermoni quaresimali del periodo precedente la Riforma,  pronunciati da parroci, frati e predicatori municipali e capitolari la cui dottrina del peccato  si riassume, più o meno, nel racconto del parroco  che conclude i “Racconti di Canterbury” di Chaucer, scritto intorno al 1390. Per lui, come per Dante, orgoglio, invidia e ira erano le colpe più gravi. L’orgoglio era un fenomeno sociale, non metafisico, prometeico, e consisteva essenzialmente nell’anteporre le pretese del rango a quelle della comunità sociale. Il parroco riecheggiava Dante circa i benefici sociali dell’umiltà, e insisteva sull’importanza dell’atto del saluto, ma diversamente da Dante non trasmetteva l’impressione che si trattasse di affari trascendentali. Più convincente risultava la sua opinione, come quella della maggioranza dei contemporanei, sull’invidia, tanto da indurci a sospettare che proprio questo sia il vizio caratteristico delle popolazioni contadine. L’invidia si divideva in due categorie: la gelosia per la prosperità degli altri e la gioia per le loro disgrazie. Ne  conseguiva, come aveva spiegato Dante, quella che è stata definita la dottrina del bene limitato, teoria secondo la quale esiste una quantità fissa di buona fortuna nel mondo, sicché quella parte di essa che ricade su un singolo membro di una comunità viene di fatto tolta agli altri. Era questo, secondo il parroco di Chaucer, il peggiore dei peccati, quello più contrario alla solidarietà e alla carità, la fonte della maldicenza, del rancore e della discordia. Era legato all’ira in quanto questa è l’espressione visibile di un sentimento interiore: l’ira non si riferiva in realtà all’incapacità di controllare i propri malumori, bensì all’odio costante e formale per il prossimo, capace di ispirare atti di malignità o vendetta nei suoi confronti. La presenza universale dell’ira nel pensiero morale del tardo Medioevo va compresa appieno: era stato il legittimo atteggiamento di Dio nei confronti del seme di Adamo, ed anche i santi la coltivavano, sia pure in misura inferiore rispetto al passato; il Diavolo, nemico dell’universo, ne era l’assoluta incarnazione; e una vasta gamma di azioni umane venivano percepite come sue esemplificazioni. Ovviamente nell’elenco del parroco rientravano l’omicidio, la bestemmia, gli improperi e gi insulti verbali; ma anche l’usura, il rifiuto di pagare il giusto salario e di far l’elemosina, e la stregoneria, l’evocazione degli spiriti e la divinazione;e le pratiche contraccettive, l’onanismo e l’aborto. Poiché conteneva la dottrina del bene limitato,questa dottrina morale dava anche per assodato che ogni atto sociale avvenisse in un universo caratterizzato da amicizia e inimicizia: l’amore per il proprio nemico era la suprema virtù cristiana, perché era la più difficile da coltivare e perché in questo consisteva l’autentica imitazione di Cristo, “morto per i suoi nemici”.»

 

La dottrina del bene limitato può sembrare ingenua e semplicistica, perfino grossolana; ma, se la si considera bene, si scopre che essa contiene una profonda saggezza e, soprattutto, che è suscettibile di ispirare agli uomini il necessario senso del limite, senza il quale ciascuno finisce per inseguire disordinatamente i propri appetiti, ignorando e calpestando i bisogni e i diritti altrui.

A partire da quando essa è tramontata e ha ceduto il posto alle ideologie del progresso, unite dal comun denominatore dell’individualismo e dell’utilitarismo, il mondo è diventato una foresta di belve: «homo homini lupus», per dirla con Hobbes. Ciascun essere umano si è lanciato alla conquista della propria felicità privata, ignorando totalmente l’armonia del corpo sociale, a cominciare da quella del proprio nucleo familiare, ivi compresi i nascituri il cui “diritto” di venire al mondo è stato subordinato alle logiche abortiste di una filosofia incentrata sull’edonismo, magari camuffato da più alto senso di responsabilità verso la prole.

Tutte le ideologie politiche moderne, dal liberalismo al marxismo, alla stessa democrazia, altro non sono che una legittimazione della filosofia dei “diritti” eretta a valore supremo: non vi è differenza sostanziale, in questo senso, fra il diritto alla proprietà privata (e allo sfruttamento del lavoro salariato) e il diritto alla giustizia sociale (e all’eliminazione fisica degli sfruttatori); e lo Stato altro non è che lo strumento per garantire questi diritti, reali o presunti, sempre a danno di qualcun altro, in una crescita ipertrofica dell’Io che non sa più nemmeno pronunciare il Tu.

Anche Ariosto, sia pure con ironia benevola, mostra l’uomo come una creatura eternamente desiderante, sempre protesa verso un illusorio e irraggiungibile oggetto del proprio desiderio (cime è il caso di Orlando nei confronti della bella Angelica); ma l’Illuminismo e le ideologie del progresso si sono spinti molto più in là, hanno codificato e istituzionalizzato tale atteggiamento, lo hanno scolpito in lettere di fuoco nelle costituzioni democratiche moderne, hanno scatenato guerre e ricatti economici per imporlo ad ogni costo (si pensi, tanto per fare un esempio, alle “guerre dell’oppio” condotte dalle potenze europee contro la Cina nel XIX secolo, in nome del profitto materiale più sfrontato e a danno del diritto altrui alla salute, alla vita e alla libertà).

Le ideologie del progresso promettono il massimo della felicità per tutti, a patto che ci si sottometta alle loro logiche e ai loro dogmi, che si pretendono auto-evidenti; mentre è chiaro che si basano su un sofisma e su un inganno, perché, avendo fatto coincidere la felicità con il benessere materiale, nessuna felicità universale sarà mai possibile, fino a quando resterà sostanzialmente inalterato il meccanismo della ineguale distribuzione delle ricchezze. Ma poi, quand’anche si potesse e si volesse porre mano ad una gigantesca ridistribuzione di queste ultime, è ragionevole pensare che un pianeta dalle risorse limitate possa soddisfare le illimitate richieste di benessere di tutti i suoi sette miliardi di abitanti?

Gira e rigira, si torna sempre lì: al venir meno del senso del limite; all’assurda pretesa di strappare sempre più beni, sempre più diritti, sempre più felicità per tutti e per ciascuno; e questo in una prospettiva sempre più esasperatamente individualistica, in cui tutto ciò che limita e ostacola la corsa privata alla felicità è percepito come il male da combattere e da distruggere, fosse pure un sistema di tassazione severo, ma equo, che miri a suddividere in maniera proporzionale il carico fiscale. Nella prospettiva capitalista, infatti, lo Stato appare come una istituzione legittima fino a quando tutela i miei diritti; ma diviene facilmente un nemico se, per tutelare i diritti altrui, attraversa la mia corsa all’accumulo di beni.

Come se ne esce?

Evidentemente, è necessario recuperare il senso del limite, il senso della interconnessione sociale ed il senso della comunità come organismo vitale, alimentato dalla disponibilità e dalla buona volontà di ciascuno.

Forse, dopotutto, non avevano tutti i torti, gli uomini e le donne medievali, quando pensavano che la quantità complessiva di bene disponibile sulla Terra è limitata e che nessuno può pretendere per se stesso una fetta di torta troppo grossa, quando si sa benissimo che altri non possiedono neanche il necessario per non morir di fame.

Siamo diventati schiavi della “cupiditas” e non siamo mai soddisfatti, per quanti beni possiamo accumulare: la lupa dantesca imperversa fra noi, e siamo ancora in attesa del Veltro liberatore…