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La Penisola dei senza colore

di Francesco Lamendola - 24/07/2012


 

Nel suo libro «L’isola dei senza colore», lo scrittore anglo-americano Oliver Sachs descrive una strana malattia diffusa fra gli abitanti di due isole micronesiane, Pingelap e Pohnpei: l’acromatopsia, una forma di cecità cromatica totale ed ereditaria, che costringe quanti ne sono affetti a tenersi lontani dalla luce. In pratica, chi soffre di acromatopsia non distingue affatto i colori: cosa evidentemente ben diversa dal daltonismo, in cui i colori vengono percepiti, ma in maniera scorretta.

Ebbene, si direbbe proprio che l’Italia sia il Paese dove questa malattia, almeno in senso metaforico, è maggiormente diffusa: un Paese dove tutto si dimentica in fretta, dove tutto si confonde, dove tutto è possibile perché, in mancanza sia di memoria che di prospettiva critica - e, per giunta, con una atavica propensione al cinismo, che confina con l’amoralità - cadono le distinzioni, i ruoli, i principî, le leggi e perfino il senso del ridicolo.

In Italia, e solo in Italia, può accadere che il lupo si travesta da agnello e che non venga immediatamente riconosciuto e trattato come merita; in Italia, e solo in Italia, può accadere che gli uomini collusi con la mafia si ergano a baluardi dello Stato di diritto, che i corrotti puntino il ditino contro gli onesti, che i voltagabbana accusino di opportunismo le persone coerenti, che i cialtroni deridano chi possiede un ideale; e che nessuno di costoro venga sonoramente sbugiardato, fischiato, cacciato sotto una pioggia di monetine e pomodori marci.

Siamo la Penisola dei senza colore, appunto.

I furbi, specialmente se hanno raggiunto qualche posizione di potere, assumono di volta in volta il colore che torna loro più comodo, come dei perfetti camaleonti; e gli altri, il popolo bue, non possiedono la facoltà visiva di distinguere il bianco dal nero, così come non possiedono la facoltà critica di riconoscere e distinguere un lacchè da un uomo libero, un bugiardo patentato da una persona veritiera, un vecchio arnese della politica, restaurato e riciclato, da un personaggio che realmente sostiene delle posizioni innovative.

Le grandi novità di questa torrida estate dello spread sono, nell’ordine: che Berlusconi ha deciso di tornare a candidarsi per le elezioni del 2013; che Bossi non si rassegna alla pensione e vuol riprendersi la Lega, esautorando il suo ex delfino; che Napolitano si indigna per le intercettazioni telefoniche dei magistrati di Palermo e, invece di preoccuparsi della verità sulle trattative Stato-mafia, apre uno scontro istituzionale con la magistratura per tutelare le sacre prerogative della Presidenza della Repubblica; che Bersani continua ad abbaiare come uno di quei cagnetti che fanno gli aggressivi dietro un cancello, ma che, senza di esso, se la darebbero a gambe davanti al primo venuto; e, naturalmente, che Monti è deluso e amareggiato per l’ingratitudine dei suoi sudditi e li ricatta apertamente, ammonendoli che ogni critica al suo operato equivale a un rialzo dello spread fra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi.

Ancora: che Formigoni querela la stampa e ostenta la massima sicurezza dall’alto della sua poltrona lombarda, dicendo che tanto, ai Caraibi, lui ci andava a spese sue e, se Daccò gli faceva dei favori, era per pura filantropia e lui, del resto, di quei favori non si era neanche accorto; che, infine, le sorti della prossima campagna elettorale e, in definitiva, di questo nostro Bel Paese sono appese al buon volere dell’ex soubrette Nicole Minetti, la quale, dall’alto della sua sofferta e meritata carriera politica, si comporta come la ragazza del proverbio russo di cui parla Ivan Karamazov, quando si mette a sragionare davanti ai giudici: «Se voglio mi sposo, se non voglio non mi sposo; se voglio salto la corda, se non voglio non la salto».

Che la casta dei potenti nostrani fosse geneticamente irriformabile, lo avevamo capito da un pezzo; che, dopo le inchieste di Tangentopoli del 1992, la corruzione e la cialtroneria di tanti politici, finanzieri e imprenditori potesse addirittura crescere in misura esponenziale, insieme allo spessore delle bustarelle e all’improntitudine delle facce di bronzo, lo abbiamo visto; e tuttavia perfino i più disincantati, perfino i più pessimisti non avrebbero immaginato sino a questo punto.

La cosa veramente grave non è che ci siano i cialtroni e nemmeno che essi si riproducano con la velocità dei conigli; la cosa veramente grave è che essi non vengano immediatamente riconosciuti per quello che sono, che non vengano sommersi da una valanga di indignazione e di disprezzo, che non siano costretti a sparire per sempre dalla cosa pubblica, a emigrare, a fabbricarsi un passaporto falso e far perdere le loro tracce in qualche isola dimenticata o in qualche giungla tropicale, come nei romanzi di Joseph Conrad.

La Penisola dei senza colore, quindi; ma, si potrebbe anche aggiungere, la Penisola dei senza spina dorsale («Italia invertebrata», direbbe il buon Ortega y Gasset; la Penisola degli smemorati; la Penisola dei troppo furbi; la Penisola dei senza senso del ridicolo. Perché, tanto per fare un solo esempio, uno che, come Berlusconi, torna a candidarsi, per la sesta volta, alla guida del governo, dopo i disastri, le vergogne e le umilianti cronache da Basso Impero degli ultimi diciotto anni, in qualunque altro Paese del mondo civilizzato verrebbe accolto da un tale coro di fischi, da non osare mai più mostrare la sua faccia - finta pure quella, chirurgicamente rifatta - in strada; da noi, gli si fa ancora credito, lo si prende ancora sul serio, anzi, per una discreta percentuale di Italiani egli può ancora impunemente vestire i panni del salvatore della Patria.

Non si tratta, quindi, solo di una società gerontocratica, che a parole venera il nuovo in tutte le sue forme e varianti possibili, salvo poi tenere ben chiuso a chiave il catenaccio generazionale, quando si tratta del ricambio della classe dirigente, con dei settantenni e degli ottantenni ferocemente attaccati alle loro posizioni di potere, alle loro poltrone e alle loro prebende; si tratta anche di una società che pensa vecchio, nel senso peggiore del termine; che non ricorda alla sera quel che i suoi leader hanno promesso alla mattina; che disfa il martedì le leggi stabilite il lunedì; che concede cambiali in bianco a chi ha mostrato di non meritare la minima fiducia e che, viceversa, nega la fiducia a chi non possiede una rendita, perché nessuno è disposto a metterlo alla prova, né a correre il rischio di investire sull’incerto.

E dove tutti - le banche, le istituzioni, le università, i giornali, le case editrici - trovano assolutamente normale seguitare a comportarsi così: ad accordare fiducia non a chi possiede idee, coraggio, iniziativa, ma a chi può vantare dei santi in Paradiso, a chi è disposto a dire sempre di sì, a chi dà sufficienti garanzie che, facendo magari un po’ di polverone, non toccherà mai la sostanza delle cattive abitudini, delle inefficienze, degli sprechi, non pesterà mai i calli ai poteri consolidati, non disturberà mai il disordine costituito.

C’è una logica perversa, infatti, in questa ostinata sopravvivenza delle forme fossili più arcaiche, in questa apparentemente incomprensibile immobilità ad ogni costo, in questa paralisi cronica dello spirito critico; e, nello stesso tempo, c’è una sorta di maligna intelligenza al contrario; e il male è così esteso che se, per ipotesi fantascientifica, una nuova classe dirigente piovuta da Marte ponesse mano a una razionalizzazione del sistema, quest’ultimo andrebbe incontro a una drammatica implosione, perché, nella Penisola dei senza colore, le assurdità si tengono con le assurdità, le menzogne con le menzogne, le raccomandazioni con le raccomandazioni.

Erede del bizantinismo, la classe dirigente italiana dà più importanza alla forma che alla sostanza; erede dello spagnolismo, è sempre forte come un leone con i deboli e timida come una pecora con i forti; gattopardista per convenienza e per vocazione, si preoccupa di agitare le acque per dare l’apparenza del cambiamento, mentre resta ferocemente attaccata ai suoi privilegi, alle sue prepotenze, ai suoi eterni, inestirpabili intrallazzi.

Il popolino, da parte sua, sembra sempre lo stesso: un tempo erano i lazzari e i sanfedisti, la manovalanza dei baroni, la plebe capricciosa e senza dignità, disposta a servire e applaudire qualsiasi padrone; oggi è il popolo di Internet, il popolo delle discoteche, degli ultras degli stadi, della televisione-spazzatura, dei concorsi di bellezza e dei megaconcerti dove si sviene di orgasmo sessuale al ritmo incalzante dei decibel proibiti.

E ancora: il popolo delle autostrade d’agosto, il popolo delle spiagge tutto esaurito, il popolo che fa la fila per ascoltare l’ultima conferenza di Piergiorgio Odifreddi o per acquistare l‘ultimo di Margherita Hack, intellettuali per un pubblico dal palato ben grosso; che telefona ai salotti pseudo-intellettuali di Rai Tre per “dire la sua”, debitamente progressista e libertario, ma senza un’ombra di ragionamento personale, senza una parvenza di umiltà culturale, anzi convinto di rappresentare il giusto e il vero e di essere impegnato nella sacra crociata contro le forze oscure del Medioevo.

Nel Paese dei senza colore l’anticonformismo di massa raggiunge i vertici del sublime e i suoi volonterosi araldi non si accorgono neppure di quanto sia ridicolo e penoso il loro blaterare, il loro ripetere frasi fatte e luoghi comuni, il loro friggere e rifriggere la minestra dei “diritti” di matrice illuminista, senza mai fare il benché minimo cenno ai corrispondenti doveri.

È il Paese di Cuccagna di tutti i demagoghi, di tutti i mestatori, di tutti gli avventurieri fraudolenti; dove chi dice la verità viene trattato da pazzo e chi dice pazzie viene osannato e riverito; dove chi pensa con la sua testa si trova emarginato o costretto alla diaspora e chi bela nel gregge riceve approvazione e riconoscimenti, a cominciare dalla mala razza dei sofisti senza senso etico e degli intellettuali mercenari.

Così, per tornare al discorso iniziale, non è importante sapere in che contesto maturarono le stragi ai danni di Falcone e Borsellino e delle loro scorte; è importante che la sacra voce del Presidente della Repubblica non venga intercettata dai giudici, anche se ciò avviene casualmente nel corso di una legittima e sacrosanta indagine; oh, ma sia chiaro, qui si trattava di difendere un principio, non una persona: bisognava evitare che la massima carica istituzionale potesse venire trasmessa al successore minata nelle sue prerogative costituzionali.

Nel Paese dei senza colore, tutti agiscono per dei nobili principî o per il bene pubblico, nessuno per interessi o convenienze di tipo personale; anche i salvatori della Patria si candidano alla guida di essa per spirito di servizio, per amore del popolo, per non sottrarsi al richiamo del dovere: nessuno per mettere al sicuro o per incrementare le proprie ricchezze, né - tanto meno - per tutelarsi dalle scomode indagini della magistratura.

Nel Paese dei senza colore, ci sono ancora dei personaggi che fondano un partito e lo trattano come fosse cosa loro, come una proprietà privata; e che trovano elettori disposti a votarli e a credere in loro, perfino dopo che sono venute a galla, una dopo l’altra, molte delle loro ribalderie, molti dei loro ladronecci e molte delle loro sfrontatissime menzogne.

Nel Paese dei senza colore, dove i comuni cittadini devono stringere sempre più la cinghia e risparmiare perfino sugli acquisti dei generi alimentari, i calciatori, non paghi dei loro stipendi favolosi, truccano le partite, combinano le reti, addomesticano i risultati e ci scommettono pure sopra, guadagnando ancora altre fortune; eppure gli stadi sono sempre affollatissimi e questi idoli di cartapesta, se appena vincono qualche incontro internazionale, fanno subito dimenticare ai loro tifosi gli scandali, le mazzette, i processi e vengono applauditi come degli eroi.

Nel Paese dei senza colore i “Black block” possono spaccare tutto impunemente, ma i cittadini che pacificamente manifestano il loro dissenso vengono massacrati di botte come e peggio che nelle più brutali dittature sudamericane; e, al termine di un lunghissimo processo, i dirigenti che ordinarono o avallarono la mattanza della scuola «Diaz» vengono bensì condannati dalla magistratura, ma non si fanno neanche un giorno di prigione.

Chissà, forse sarebbe il caso di riconoscere l’acromatopsia per quello che è, una malattia, e, in questo caso, una malattia dell’anima: non passerà da sola, bisogna tentare di curarla oppure rassegnarsi a vivere in un eterno grigiore, senza speranza che qualcosa cambi.

Quando si è malati, prima ancora di chiamare il medico, bisogna avere il coraggio di ammettere di aver perso il bene della salute e, nello stesso tempo, è indispensabile trovare in sé il vivo desiderio di riacquistarla, affrontando tutti i sacrifici a ciò necessari. Se mancano questi due presupposti, consapevolezza e volontà, nessuna guarigione sarà mai possibile, anche qualora vengano chiamati al capezzale del malato i medici più competenti.

Nel nostro caso, se non riusciamo a vedere i colori del mondo, probabilmente ciò dipende dal fatto che la nostra stessa anima si è sbiadita, ha perso la lucentezza dei suoi colori; e ciò è accaduto a forza di conformismo, di pigrizia, di furberia meschina. È l’anima che ha perso i suoi colori, è l’anima che è malata; è in noi stessi che dobbiamo ritrovare i colori del mondo, non fuori…