Quel che veramente ci suggerisce Serge Latouche
di Stefano Boninsegni - 17/07/2006
Fonte: Argilla rivista
Serge Latouche, economista,
insegna all’Università di Parigi
Sud e presso l’Eides (Institut
d’étude du développement
économique et social). Viene
considerato uno specialista del
Terzo mondo (in particolare
l’Africa) e dell’epistemologia
delle scienze sociali. In realtà
tutta la sua opera è pervasa da
una tensione complessiva verso
l’abolizione dell’attuale dominio
dell’economia, che distrugge il
tessuto sociale, mercifica ogni
aspetto del vivere e fa scivolare
l’umanità nel baratro del non
senso. L’opera che lo ha reso
noto maggiormente fuori dai
confini transalpini, è stata
“L’Occidentalizzazione del
mondo” (Boringhieri 1992).
In essa si analizzano i motivi
del mancato sviluppo industriale
e modernizzatore, voluto sia dalle
élites politiche ed economiche occidentali
che da quelle dei paesi
decolonizzati dopo il secondo
conflitto bellico mondiale. L’obiettivo
polemico implicito è il
cosiddetto terzomondismo, ovvero
la teoria socialisteggiante che
unisce nazionalismo e giustizia
sociale, sulla base di una prospettiva
di industrializzazione tesa
a garantire l’indipendenza reale
dai paesi occidentali. L’autore
francese finisce per indicare le
cause di tale fallimento nell’assenza
di quegli elementi culturali
che consentono di elaborare la
stessa nozione di sviluppo. Ovvero
quelli che, in una determinata
fase della sua storia, emersero
nella coscienza europea e che si
strutturano in una configurazione
che prevede essenzialmente l’autonomia
dell’economia dal resto
della sfera sociale e l’individualismo,
ovvero l’Individuo assunto
come valore ultimo.
A questo punto la ricerca di
Latouche si orienta da una parte
ad appurare a ritroso i possibili
fondamenti che hanno reso possibile
il sorgere di questa configurazione
che trascinerà l’Occidente
nel materialismo e nel feticismo;
dall’altra lo studio sul
campo di processi economici fiorenti
quanto vincolati alla società
nel suo complesso, che l’autore
assurge a simbolo orientante verso
la soppressione della tirannia
dell’economia. Le idee di Latouche
sono state accolte con vivo
interesse critico sia da parte di
quella che si autodefinisce sinistra
antagonista, che da ambienti della
cosiddetta destra radicale. In
realtà l’intellettuale francese, per
la sua indubbia originalità è irriducibile
a simili categorie obsolete
e interessate.
Per inoltrarsi nel pensiero di
Latouche, oltre alla già citata
“L’Occidentalizzazione del
mondo”, si vedano in particolare
“
1995), nonché “La fine
del sogno occidentale” (Elèuthera
2000).
Un Profilo
Seguite e nel complesso apprezzate
da ambienti culturali connessi
alla cosiddetta sinistra antagonista,
le posizioni di Serge Latouche
non sono sfuggite all’invettiva di
quella componente “fondamentalista”
ultraminoritaria, ma rumorosa
e provvista di un suo peso,
presente in Francia come in
Italia. Invettive, in un certo
senso, più che giustificate: non si
può infatti demonizzare sistematicamente,
così come accade, un
Alain de Benoist e sorvolare
allegramente sulle riflessioni dell’economista
francese. Ci troviamo
infatti, a dimostrazione del
carattere vuoto e pregiudiziale che
contraddistingue il dibattito contemporaneo,
di fronte ad una bizzarra
situazione nella quale gli
stessi che, pur in un rapporto critico,
guardano a Latouche con
benevolo interesse, non esiterebbero
a bollare De Benoist (che, sia
chiaro, pensa diversamente) come
il solito reazionario, nazista ecc.,
se esprimesse le stesse posizioni.
Fra l’altro sbagliando, perché
Latouche reazionario non è, per
il motivo fondamentale che esclude
essere rimasto un altrove che si
sia significativamente sottratto alla
deculturazione planetaria in atto,
verso il quale si possa ritornare.
In ogni caso, questo la sinistra
non lo comprende, e si accontenta
del suo indefesso schierarsi dalla
parte degli esclusi di tutto il
mondo per riversagli interesse e
rispetto. Quando il suo argomentare
porta a conclusioni inseguibili
anche da parte di chi ha
rotto nella sua coscienza con ogni
forma di progressismo determinista
e ingenuo, si usa parlare di “utili
provocazioni”.
In realtà, quelle che così vengono
comodamente chiamate,
costituiscono convinzioni di
Serge Latouche, e doverosa
-mente come tali vanno prese,
anche perché frutto di un percorso
intellettuale che ha il notevolissimo
merito di nominare, senza
ipocrisie o mistificazioni, i mali
che incombono sull’umanità contemporanea.
Un testo nel quale
Latouche esprime, abbandonando
ogni reticenza, le proprie visioni,
è “La fine del sogno occidentale”
(Elèuthera, Milano 2002), e
ad esso faremo particolare riferimento
nelle nostre riflessioni,
evidenziando alcune prese di posizione
particolarmente controcorrente.
L'impossibile società multiculturale
Dichiararsi contrari oppure
favorevoli al presunto caratte
-re multiculturale, spesso a torto
confuso con il pluralismo religioso,
che sempre più caratterizzerebbe
la società europea, afferma Latouche
in apertura del suo libro,
è una opposizione priva di senso,
giacché in Europa non esiste
nessuna società multiculturale.
Piuttosto ci troviamo in presenza
di un contesto nel quale agli immigrati
è consentito mantenere alcuni
aspetti del loro modo di vivere
(alimentazione, vestiario, modi di
ricreazione) che, separati artificialmente
da quella totalità culturale
di cui sono manifestazioni,
finiscono per assumere un significato
meramente residuale, nonché
commerciale: si pensi al non trascurabile
business dei vari ristoranti
e locali etnici. Sotto questo
punto di vista, la presunta società
multiculturale può essere considerata
un ulteriore capitolo della
società dei consumi, uno di quelli
tipici della new economy, che è
innanzitutto mercificazione delle
culture, ovunque si compia.Oltre,
continua Latouche, non si va: in
tutto ciò che “conta” (diritto, economia,
modi di produzione) gli
immigrati sono tenuti ad atte
-nersi alle leggi dell’Occidente,
né potrebbe essere diversamente.
Una cultura infatti, nel senso
ampio conferitole in ambito antropologico,
è infatti una risposta
integrale (materiale, simbolica)
alla sfida dell’esistenza inscindibile
nei suoi elementi, che comprende
il modo di abbigliarsi, così come
il diritto e le regole dello scambio
di beni.
E’ impossibile quindi concepire
una società dove possono convivere,
ad esempio, diverse versioni
e applicazioni della sfera giuridica
a seconda dell’appartenenza etnica
dei cittadini. Inoltre, teorizza,
ogni cultura tende inevitabilmente
all’universalismo, a sentirsi cioè
come l’unica possibile, per cui ogni
ipotizzata convivenza risulta inconsistente.
Per chi desidera
conservare la propria cultura di
origine, non resta altro che rinunciare
alla condizione di immigrato.
Ma anche ciò sarebbe in fondo
inutile, perché non esiste più cultura
che l’Occidente, direttamente
o indirettamente, non abbia corroso
nei suoi fondamenti. Anche nelle
megalopoli più povere del mondo,
constata l’autore, l’Occidente
è presente con i segni del suo dominio
e della sua appetibilità:
grattacieli adibiti a lussuosi alberghi,
sedi di multinazionali,
filiali locali di colossi finanziari.
L'imperialismo del dono
Promossa dall’alto (istituzioni,
fondazioni private, ecc.), è in
pieno corso una campagna tesa a
sensibilizzare gli abitanti dei paesi
ricchi ai loro doveri morali di
solidarietà verso i poveri ed i malati
del pianeta, esclusi dal “benessere”.
Essa si avvale di personaggi
dello spettacolo di varia
estrazione, ma che ha trovato soprattutto
nelle leggende del rock
convertite al “buonismo” più
imbecillesco (il che di per sé offre
di che riflettere) i veicoli più
convincenti. E’ nostra opinione
che tutto ciò costituisca innanzitutto
una risposta interna ai
dilemmi dell’Occidente. Infatti
l’esaurimento progressivo del legame
sociale è ormai tale fino al
punto di rimanere insopportabile,
secondo l’opinione stessa dell’attuale
presidente della Federale
Reserve, Alan Greenspan,
anche per una società che si vuole
fondata su rapporti contrattuali
come quella liberal-capitalista.
Il che spinge le èlites politiche
ed economiche a promuovere direttamente,
in seno ad una società
che altrimenti si limiterebbe a
guardare la televisione per attingervi
modelli stereotipati, valori
e ideali addomesticati ma tesi ad
elevare il grado di coesione sociale
e il vuoto spirituale che attanaglia
le società occidentali, il quale si
manifesta sotto forme di dissoluzione
ed implosione dai toni inediti
ed inquietanti. Tuttavia, nello
stesso tempo, questa “ideologia del
dono”, usando la terminologia
dell’autore, rappresenta effettivamente
l’inedita e particolarmente
distruttiva forma assunta dall’imperialismo
culturale dell’Occidente
(espressione in realtà impropria,
precisa Latouche, perché
l’Occidente è l’anticultura).
“Donando” scrive “ l’Occidente
acquista quel potere e quel prestigio
che generano la vera e propria
destrutturazione culturale
[…]. In tutte le società, colui
che dona acquisisce prestigio e diventa
creditore di un debito di riconoscenza
che niente può estinguere.
Il neocolonialismo,
con l’assistenza tecnica e il dono
umanitario, ha fatto senza dubbio
molto di più per la deculturazione
che la non brutale colonizzazione”.
Non per nulla, detto per inciso,
l’India ha rifiutato ogni aiuto
offertogli per i danni subiti a causa
dello Tsunami. Le truppe
avanzate di questa sofisticata forma
di imperialismo sono le cosiddette
Ong e le varie organizzazioni
umanitarie che agiscono in nome
dell’occidentalissima nozione dei
diritti dell’uomo: “Non si rifiuta
la medicina che salva la vita, il
pane che dà sollievo alla miseria”.
Afferma l’autore francese: “La
volontà di potenza, che si manifesta
più volentieri col dono che
con la violenza è negli occidentali
ancora più forte della sete di ricchezze.
Essa può arrivare fino
ad assumere le sembianze […]
dell’abnegazione dei medici senza
frontiere”. Il risultato infatti
dell’accettazione di un’assistenza
apparentemente gratuita, è l’inesorabile,
più o meno repentino,
crollo di pratiche consolidate e di
immaginari di remota formazione.
Ma anche senza questa strategia
deculturizzante, gli effetti della