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Siamo di passaggio

di Simonetta Fiori - 07/09/2012



Così l’era della transizione sta cambiando la storia


“Transizione” è tra le parole più abusate del nostro lessico politico. Ad essa viene ricondotta la storia degli ultimi decenni, ma a guardar bene si può risalire ancora più indietro, all’arco temporale tra la fine della seconda guerra e gli anni Settanta. E forse tutta la storia occidentale è una “transizione” continua. Insomma, di cosa stiamo parlando?
Dal laboratorio storico di Trento, l’Istituto storico italo-germanico che fa a capo alla Fondazione Kessler, ci arriva una preziosa strumentazione per sottrarre dalla nebbia un concetto oggi più che mai dibattuto anche in sede storiografica. «Bisogna distinguere tra transizione come mero cambiamento/passaggio e transizione storica in un’accezione più forte, quella di axial age, assimilabile a un “perno” attorno a cui ruota la storia dell’umanità », spiega il direttore Paolo Pombeni, studioso tra i più internazionalizzati, specialista di storia politica tra il XIX e il XX secolo. «Il nostro punto di partenza è stata l’esperienza attuale. Sempre più ci chiediamo se siamo testimoni non tanto di un progresso quanto di una più definita transizione. Ricorrerò a un esempio efficace usato da Umberto Eco: scrivere a macchina anziché con la penna è un progresso. Ma scrivere con computer è una transizione: acquisisco potenzialità che cambiano la mia impostazione mentale ». Alla Transizione come problema storiografico sarà dedicata a Trento una settimana di studio (dall’11 al 14 settembre) cui parteciperanno studiosi di vari paesi – da Romanelli a Stauber, da Verga a Dipper, da Macry a Freeden – e i sedici ricercatori coinvolti nel progetto.
Viviamo un’età di trasformazioni radicali che però facciamo fatica ad accettare fino in fondo.
«Si modificano i paradigmi – cambiano le nozioni di famiglia, di lavoro, di sessualità, di dovere civile, di identità – ma rimaniamo aggrappati alle vecchie certezze. Non vogliamo mollare i nostri modi di pensare, perché abbiamo paura che senza di loro saremmo nel vuoto. Al massimo cerchiamo di inquadrare il nuovo nei parametri del vecchio».
E come potremmo definire questa fase in termini storici?
«Ora ci arriviamo, ma prima vorrei illustrare come abbiamo proceduto con il nostro gruppo di lavoro. Il primo passo è stato quello di analizzare il rapporto tra conservazione e innovazione. Ogni grande età di passaggio è un intrecciarsi di perduranze e di dismissioni innovative. Ci siamo ispirati a un volume che è stato una svolta negli studi, L’autunno del Medioevo di Huizinga, apparso nel 1919: lo studioso olandese contrastava l’idea di “date spartiacque” per spiegare come i passaggi storici fossero un lento declinare unito all’incubazione del nuovo».
E che cosa ne avete ricavato?
«Questa lettura non ci bastava. Nell’osservare l’evo contemporaneo, da un lato abbiamo riscontrato la persistenza di tratti propri della modernità. Il carattere preminente della libera determinazione individuale. Un rapporto con la natura che esclude qualsiasi implicazione magica. Il predominio della scienza come strumento della ragione, l’applicazione di questa alla sfera pubblica. Dall’altro lato, però, non si può negare che tutta questa struttura sia in crisi: la libera determinazione individuale pone problemi. La natura non avrà forze magiche ma ha un suo equilibrio su cui la signoria dell’uomo non può esercitarsi appieno. Scienza e ragione hanno a volte generato mostri, come rilevò Horkheimer: “Al culmine del processo di razionalizzazione la ragione è diventata irrazionale e stupida”. E la sfera pubblica non riesce ad essere contenuta e razionalizzata né dall’economia né dall’amministrazione né dal diritto».
La modernità, in sostanza, sembra andare in crisi, ma sentiamo di non poterne fare a meno.
«Sì, da qui l’ipotesi che lanceremo a Trento nel definire la nostra come una nuova “età assiale”. Il concetto fu sviluppato originariamente da Jaspers, poi ripreso da Eisenstadt e Schluchter, e più recentemente dai sociologi americani Robert Bellah e Hans Joas, curatori del volume The Axial Age and its consequences, che uscirà in ottobre da Harvard University Press».
Ma cosa si intende per età assiale?
«È una età-perno attorno a cui è girato il mondo, che dopo non sarebbe stato più quello di prima. Certo all’interno delle età assiali ci sono evoluzioni, ampliamenti e anche regressioni, ma non ne viene modificato il tratto essenziale: da quel giro di boa non si torna indietro».
Mi può fare un esempio nel passato?
«Jaspers e i suoi seguaci avevano in mente le grandi civiltà classiche dell’antichità: la cinese, la indiana, l’ebraica e la greca tra il IX e il III secolo a. C.. Queste ci- viltà elaborarono la prima uscita dell’uomo dalla sfera magica per introdurlo in quello della ragione, ossia dell’organizzazione dei modi di capire quel che gli succedeva intorno facendo conto sulla sua capacità di mettere in rapporto cause ed effetti. Tra le età assiali a cui hanno pensato questi autori non c’è quella moderna, sebbene Eisenstadt si sia spinto su questo terreno. Ma noi proviamo ad affiancare alla civiltà classica l’età assiale della modernità, articolata in tre periodi».
Quali?
«I primi due sono abbastanza ovvi. Si comincia con il passaggio tra la fine del XV secolo e il seguente (l’età delle riforme, della riorganizzazione della sfera dei domini politici e del nascere della moderna economia). Si passa poi a considerare il tornante tra il XVIII e XIX secolo, dall’età dei lumi all’emergere della sfera dell’opinione pubblica, dal costituzionalismo al primato dell’amministrazione, dalla crisi della coscienza religiosa al sorgere delle religioni politiche. È stato più difficile scegliere la fase finale».
Molti la indicano nell’Ottantanove, con la fine del bipolarismo Est-Ovest.
«A noi è apparsa una soluzione semplicistica. Può essere una data importante sul piano politico, ma non su quello della struttura profonda degli eventi storici. Abbiamo preferito concentrarci sul periodo 1945-1973, perché ci è sembrata la fase che con un ossimoro potremmo definire della “stabilizzazione dissolutiva” ».
Cosa vuol dire?
«Apparentemente con la seconda guerra mondiale il mondo aveva raggiunto una sua stabilizzazione, sia sul piano politico – pur nell’equilibrio dei blocchi – che in ambito culturale, con il dominio della razionalità occidentale. Eppure più questo mondo si stabilizzava imponendosi come l’unico possibile, più le sue strutture si indebolivano. E a partire dagli anni Settanta fummo chiamati a misurarci con un futuro che non stava più nei canoni precedenti. Abbiamo scelto come data emblematica il 1973, l’anno
della prima crisi petrolifera. Di lì in avanti è stata una dissoluzione continua. Crisi culturali. Crisi politiche. Crisi religiose. E l’emergere di forze che l’antica filosofia della modernità non riusciva più a dominare, a meno di non accettare di rimettersi radicalmente in gioco».
Una ricerca, la vostra, con implicazioni civili.
«Sì, non è una questione di lana caprina per gli specialisti, ma è il tema di questa e delle generazioni future. Le società che non comprenderanno di essere dentro una transizione per sua natura irreversibile soccomberanno nella vana ricerca di difendere la prosecuzione di un passato che è già finito. E che non ritornerà più».