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Viva la campagna?

di Francesco Lamendola - 10/09/2012

 


 

Il malessere, materiale e spirituale, che caratterizza la vita nelle città moderne è giunto a un punto così intollerabile che, per la prima volta da quando la cultura urbana si è imposta su quella rurale, a partire dal Basso Medioevo, si è creata una tendenza psicologica opposta a quella dominante: il desiderio di fuga verso la campagna, prima tanto disprezzata.

Persone e famiglie che hanno sempre vissuto in città a un certo punto dicono basta, vendono tutto e comprano o affittano una casetta in campagna, trasformandosi in agricoltori, allevatori, apicoltori e modificando radicalmente il proprio stile di vita, dall’alimentazione alla cura delle malattie, dal modo di usare il tempo libero a quello di concepire il riposo e le vacanze.

Alcuni diventano vegetariani o addirittura vegani, altri rifiutano le medicine di sintesi e passano ai rimedi naturali; alcuni smettono di guardare la televisione o ne fanno totalmente a meno, altri si accostano a forme di religiosità naturalistiche, altri ancora ritornano alle vecchie credenze, magari dopo anni di agnosticismo e perfino di ateismo. Tutti si confrontano con il fatto che andare a vivere in città non implica solo un cambiamento di residenza, ma di senso.

Certo, non ci si improvvisa agricoltori o allevatori da un giorno all’altro; o, se si pretende di farlo, lo si fa a proprie spese, cioè sbagliando più volte prima di imparare. Fare a meno della tecnologia è bello, ma faticoso. Si riscopre l’uso quasi dimenticato della manualità, del gesto quotidiano, e si torna ai ritmi naturali, che implicano un diverso modo di porsi rispetto al mondo: non si pretende più di avere in tavola le zucchine, i pomodori o i peperoni in pieno inverno; si impara a fare i conti con il caldo dell’estate, anche in assenza di un condizionatore d’aria; ci si abitua alle mosche in estate, alle zanzare, alle vespe, qualche volta anche alle zecche.

Si scopre che un cane e un gatto possono rendersi utili in qualche cosa d’altro che starsene tutto il giorno ad aspettare il cibo e le carezze senza far nulla; bisogna decidere che sorte riservare ai pipistrelli che hanno preso dimora nel sottotetto; ci si accorge con il sudore della fronte che strappare le erbe infestanti dall’orto richiede molto tempo e fatica e che, volendo, sarebbe assai più sbrigativo, ma certo dannoso per la salute, affidarsi ai diserbanti chimici.

Insomma si scopre che una cosa è la teoria e un’altra, la pratica; che una scelta di tipo ecologista richiede sacrifici e una forte motivazione, anche se è in grado di ricompensare ampiamente tutti i sacrifici e le scomodità, perché i tesori che essa può offrire sono impagabili. Tuttavia esige costanza, tenacia, spirito d’osservazione, capacità di progettare e programmare; e si impara che la frase: «Vai a zappare la terra!», riservata dalle persone istruite a chi mostra di avere poco comprendonio, è quanto di più sciocco si possa immaginare, perché quello del contadino, al contrario, è un lavoro che richiede scarpe grosse, ma cervello fino.

Una questione particolare è rappresentata dal problema della violenza. Molte delle persone che lasciano la città per andare a vivere in campagna lavorando la terra, sono animate da filosofie di tipo New Age o, più in generale, da una mentalità pacifica, naturista e non-violenta; ma la violenza, nel mondo della natura, esiste. Le volpi che fanno strage di galline, le galline che beccano a morte i coniglietti appena nati, il gatto che fa un boccone dell’uccellino entrato incautamente nel giardino, ne sono esempi quotidiani; a ciò si aggiunge la difficile scelta se rispettare la vita in tutte le sue forme, per chi ha deciso di vivere dei prodotti della terra.

Rispettare la vita, sempre e comunque, può porre dei problemi pratici, oltre che morali: come difendersi dalla volpe che insidia il pollaio? Come difendersi dalle formiche e dagli insetti che aggrediscono l’orto e il frutteto? O anche, più semplicemente: come proteggersi dalle mosche, dalle zanzare, come liberare la stanze dalla ragnatele, senza uccidere gli animali fastidiosi o molesti? Non parliamo, poi, dei conigli, dei maiali, del pollame: allevarli senza ucciderli è un non senso (a parte le galline, che almeno danno le uova); e farli uccidere da altri, un’ipocrisia.

Questi problemi possono sembrare di poco conto, ma non sono affatto irrilevanti per chi li vive sulla base di una particolare sensibilità, che è poi quella stessa che induce un cittadino ad abbandonare il suo ambiente abituale per affrontare una nuova esistenza in un ambiente a lui del tutto estraneo, come la campagna.

I contadini di un tempo non si facevano simili problemi: per loro era ovvio che, venuto il tempo, il coniglio andava ucciso prendendolo per le orecchie e assestandogli un colpo alla nuca; che alla gallina o al tacchino si tirava il collo e che il maiale andava sgozzato. Anzi, specialmente l’uccisione del maiale era una vera festa per tutta la famiglia e in particolare per i bambini, che vi partecipavano con entusiasmo, dopo averla pregustata per giorni e settimane.

Era crudele, il mondo contadino?  Per dare una risposta, bisognerebbe poterne assumere interamente il punto di vista, il che è impossibile, per noi cittadini del terzo millennio, che siamo figli di un altro mondo. Un paradigma culturale non può mai giudicarne un altro; come ben sanno gli antropologie e gli etnologi, ciascuno di essi è incommensurabile. In particolare, colui che è abituato ad andare dal macellaio o al supermercato per comperare le bistecche o le cosce di pollo destinate alla sua mensa, di solito non pensa che qualcuno ha ucciso e ripulito l’animale per lui e raramente si interroga sulla sofferenza di un pollo o di un vitello che trascorrono la loro breve e misera esistenza in uno spazio minuscolo, ingozzati di cibo per farli ingrassare poi soppressi con procedimenti industriali.

In campagna le cose sono più chiare ed evidenti, perché ridotte all’essenziale: non ci sono intermediazioni, se si vuole la carne bisogna uccidere. Bisogna uccidere, spesso, anche se si vuol proteggere gli animali domestici e i prodotti dell’orto; oppure rassegnarsi a farseli aggredire e distruggere un poco alla volta. Ma, se si vive di quegli animali e di quegli ortaggi, allora la scelta è fra la propria sopravvivenza e quella dei predatori o delle specie infestanti.

Sylvia Fenton è una donna londinese che, arrivata sulla quarantina, decise di fare il grande passo: licenziarsi, lasciare il suo appartamento nella capitale, separarsi dagli amici e traslocare in campagna, accompagnata solo da una nutrita compagnia di gatti. Nel suo libro «Tutti gli animali della fattoria» (titolo originale: «All the Beasts of the Field», 1984; traduzione dall’inglese di Marina Valente Braschi, Milano, Rizzoli, 1986, p. 172) racconta, fra l’altro, il dilemma “vita mea, mors tua” a proposito del pollaio insidiato da una volpe.

 

«Anche le volpi facevano la loro parte. Trovavo sempre più difficile conciliare la mia ammirazione e il mio rispetto per loro con la strage di volatili che stavano conducendo. Una mattina ero nella casa degli asini quando improvvisamente sentii Henrietta [uno strano uccello domestico che era forse il risultato di un incrocio fra un pavone e una faraona] che pigolava disperatamente. Mi precipitai fuori e la vidi in mezzo al recinto che correva in cerchio inseguita da una volpe. Perché non spiccasse il volo non saprei dirlo. La volpe era a tre metri da lei. E si stava avvicinando. Schizzai  fuori, urlando: “Va’ via, sciò, sciò!”. La volpe seguitò ad avvicinarsi. Presi la prima cosa che mi capitò a portata di mano, cioè un pezzo di sterco d’asino, e la lancia. Disgraziatamente colpì Henrietta ma ebbe l’effetto voluto  e la volpe se la filò nel bosco. Ero distrutta: a cosa serviva che chiudessi gli uccelli in case a prova di volpe  per tutta la notte se poi le volpi venivano di giorno e me li rubavano sotto il naso? Certo, mi rendevo conto  che anche le volpi devono vivere come tutti gli altri e avrei comperato volentieri un pollo per loro al negozio se solo avessero lasciato in pace i miei volatili.»

 

La riflessione conclusiva dell’autrice, a meno che sia volutamente auto-ironica, è emblematica delle contraddizioni in cui viene a trovarsi una persona di città, di animo sensibile e dalle aspettative un po’ ingenue, quando si trasferisce a vivere in campagna. La signora londinese, a quel che par di capire, non pensava che quel pollo, comprato al negozio per placare la fame della volpe e tenere quest’ultima lontana dalla fattoria, apparteneva alla medesima specie dei “suoi” animali prediletti; anche se lei stessa racconta di aver acquistato Henrietta per la bella cifra di due sterline, proprio per evitare che finisse in pentola, dato che era vecchia e bene in carne.

Insomma la campagna non è sempre e soltanto quell’oasi di pace bucolica che molti cittadini, disgustati della vita urbana, s’immaginano; e questo senza parlare della siccità o della grandine che rovinano il raccolto, e, naturalmente, senza considerare lo spietato meccanismo economico che rende così difficile, per non dire impossibile, il sostentamento di una minuscola azienda rurale a conduzione familiare, i cui prodotti, dal latte alla verdura e al miele, che gli vengono pagati una miseria, anche se poi, quando arriveranno sugli scaffali di un grande magazzino, costeranno al consumatore delle cifre tutt’altro che esigue.

Qualcuno ricorderà forse una simpatica canzoncina composta nel 1969 da Nino Ferrer (un personaggio dello spettacolo tutt’altro che banale: pittore, etnologo e musicista, oltre che cantante), che fu anche la sigla di un programma televisivo, intitolata «Viva la campagna», e che è stata quasi «Il ragazzo della via Gluck» al contrario. Parlava della fuga dalla città, nevrotica e inquinata, verso la vita felice della campagna; ma lo faceva con sottile ironia - per carità, nulla di sofisticato dal punto di vista intellettuale, era un pezzo senza pretese -, con una vena sorridente scetticismo, insinuando il dubbio, tra le righe, che uno la nevrosi se la porta dietro anche in campagna, se non è pronto ad affrontare il cambio di paradigma e se si immagina di andare a cuor leggero in una sorta di Paradiso terrestre.

Viva la campagna, dunque, e abbasso la città?

Come tutte le semplificazioni, anche questa è una alternativa inaccettabile, almeno fino a che venga posta in maniera così rozza e banale.

La sfida del presente è quella di ri-umanizzare la vita, in tutte le sue forme, in tutti i luoghi e a tutte le età: perché dovremmo rassegnarci al fatto che le città debbano essere delle bolge infernali, brutte, inquinate, rumorose, infestate dalla criminalità e totalmente invivibili? Perché gli abitanti di Taranto, per fare un esempio di attualità, dovrebbero rassegnarsi all’alternativa se sacrificare la salute o perdere il posto di lavoro?

D’altra parte è chiaro che una città, raggiunta e superata una certa soglia di grandezza materiale, non può evitare una serie di fenomeni degenerativi, che parranno forse il necessario prezzo del progresso agli economisti e ai capitani d’industria, ma che non sono accettabili dal comune cittadino e che anzi, per lui, sono questione di vita o di morte - spesso nel senso letterale del termine: morte da tumore, morte da infarto (e dunque da stress), morte da affezione cronica alle vie respiratorie (e dunque da inquinamento).

Finché le città continueranno a essere abbandonate al loro destino, a essere viste cioè in funzione di quanto esse producono e non della qualità della vita di coloro che le abitano, è logico che la campagna sembrerà la Terra Promessa a quanti hanno oltrepassato il limite della sopportazione; ma ciò si presta a tutta una serie di equivoci, di aspettative sbagliate, di delusioni. Se una società non è capace di organizzare in modo decente la vita nelle sue città, prima o dopo la bruttezza e la minaccia alla salute arriveranno anche in campagna. E infatti vi sono persone che hanno dovuto vendere la casa rurale in cui erano andate a vivere e andarsene altrove, piegate dall’allergia cronica provocata dall’innaffiamento sistematico dei vigneti circostanti con sostanze chimiche.

La vita in campagna è più a misura d’uomo della vita di città, ma solo per quanti la sanno apprezzare per ciò che realmente è, senza idealizzarla assurdamente e solo a condizione che le logiche più distruttive dell’economia capitalista non ne stravolgano irreparabilmente i ritmi, le abitudini e perfino il paesaggio.

L’energia eolica è certo una bella cosa, paragonata a quella derivante dai combustibili fossili; ma a quanti piacerebbe che la propria casa di campagna venisse circondata dalle torri di uno squallido campo eolico, dal paesaggio lugubremente artificiale, per non parlare dell’impatto ambientale che esso provoca sulla vita degli animali e delle piante?

La realtà è sempre sfumata, sfaccettata, complessa. Questo non significa che non esistano differenze fra le cose e che tutto, alla fine, sia uguale a tutto, ma che il reale non si può dividere con l’accetta in bianco e nero, vero e falso, giusto e sbagliato. Inoltre la realtà è in continua evoluzione; sforzarsi di capirla vuol dire essere elastici, senza perciò diventare relativisti.

Se non si son capite queste cose, si rischia di andare in campagna all’inseguimento di un miraggio...