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Amor che move il sole

di Alessandro Giuli - 10/09/2012


Note a margine del monumentale “Atlante di Roma antica” con il quale Andrea Carandini sigilla la sua missione d’archeologo

Il canto melodioso del sangue fa strani scherzi, si accende quando meno te l’aspetti e lascia rifulgere memorie ancestrali, rapporti sottili, incarnazioni nebulose. Bisogna però imparare ad ascoltarlo e, per cominciare ad alunnarsi, non c’è nulla di più indicato del contatto induttivo con le vestigia dell’antico. Come magneti con la limatura di ferro, i luoghi del passato più remoto attraggono, selezionano e plasmano nuove forme, costringendo talvolta a un attimo di silenzio perfino l’animo volgare dell’uomo moderno. Se gli archeologi contemporanei deponessero l’ego e riuscissero a comprendere tutto ciò, se non fossero diventati dei ruminanti specializzati, ammetterebbero di svolgere nient’altro che la funzione di un medium: messaggeri agiti da un mittente primordiale intenzionato a svelarsi nel giusto momento. Giacomo Boni dimostrò in effetti virtù più che medianiche allorché (1899 e. v.) dissotterrò il Lapis Niger, la Pietra Nera della regalità romulea, dopo averlo “scoperto” in sogno. Vi sono poi alcune donne la cui natura lunare funge da buon “conduttore di elettricità”, come le pupille di Cagliostro, e da cui nascono avventure notturne con mirabili visioni sul tipo di quelle conosciute da Gabriele D’Annunzio (per tacer d’altri, più elevati ricercatori dall’anima scettrata). Il più delle volte tale funzione mercuriale è “affidata” a qualche operaio degli scavi, se non addirittura a quei custodi capaci d’incastonarsi nel clima sottile dei siti archeologici che sono chiamati a proteggere (evidentemente ricambiati). Sul colle dell’antica Pallantion, in Arcadia, la regione della Grecia sacrata a Fauno e dalla quale fece ritorno in Italia un ramo della stirpe pelasgica guidato da Evandro, può accadere che sia un uomo delle maestranze, e non certo il suo padronato accademico, ad avvertire il legame occulto tra il fiume Alfeo e il Tevere, o tra il colle Palatino e il gemello suo arcade Pallantion, che nel dialetto indigeno suona: Palladio. Un caso? Scherzi del sangue.

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Proprio sul Palatino, la vetta delle origini di Roma, l’archeologo Andrea Carandini toccò ormai circa dieci anni fa il culmine della propria carriera: scoprì lì un tratto di mura d’età romulea, il segnacolo vivente della fondazione dell’Urbe, la prova materiale (per chi ne avesse avuto bisogno) che spazzava la segatura degli scettici e i veleni dell’ipercritica restia ad attribuire valore di verità all’età dei Sette Re. La stessa Fortuna, di lì a poco, avrebbe consentito di ricostruire la genesi e lo sviluppo della capanna abitata dalle prime Vestali romane, le nostre venerate Matresfamilias. Carandini oggi è una “archeo-star” emerita, il suo compito è in un certo senso da giudicarsi concluso, riconoscendogli d’aver praticato il mestiere d’archeologo come una missione della (e per la) Res Publica (ora è presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali), nonché d’aver mostrato in alcuni momenti una predisposizione d’animo quasi paragonabile a quella del Boni. L’irrazionale non lo spaventa, al punto che nell’introduzione al monumentale “Atlante di Roma antica” da poco licenziato per Electa (II vv., 1.248 pagine, 150 euro) Carandini sceglie di far vibrare la corda meno stridula di Sigmund Freud: “Facciamo l’ipotesi fantastica, che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò significherebbe che… nel posto occupato da Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio debba essere demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto recente… ma in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche… A evocare l’una o l’altra veduta basterebbe forse soltanto un cambiamento di direzione dello sguardo o del punto di vista dell’osservatore (‘Il disagio della civiltà’)”.

Su tali basi, si deve tuttavia aggiungere che c’è osservatore e osservatore. E che in linea di principio ciascuna persona percepisce in determinati luoghi quel tanto cui può elevarlo (o svilirlo) la propria natura: davanti alle colonne del tempio di Venere voluto da suo figlio Cesare, i più non vedranno che sassi e rovine; un’anima sensuale si lascerà cogliere, conturbata, da un sottofondo di voluttà afroditica; uno spirito superiore potrebbe invece avvicinarsi al mistero dell’attrazione universale accennato da Lucrezio nel suo proemio dedicato alla Madre degli Eneidi, e di cui Giove Ottimo Massimo è supremo garante. Di fronte all’eternità di Roma, sintesi della manifestazione trascendente che ha eletto l’Italia come sede d’immanenza e d’irraggiamento, un Freud può al massimo galleggiare sulla superficie dell’inconscio; l’esoterista francese René Guénon si sentiva circondato da cadaveri psichici; del pitagorico novecentesco Francesco Intelisano si narra invece che, contemplando una chiesa sprofondata nelle acque, vide realmente con gli occhi dell’anima il tempio che vi sorgeva in età remota. Unicuique suum.

Carandini non è certo un veggente, ma ha il dono dell’intuito e una vasta cultura anche artistica che gli consentono di esordire nel suo “Atlante” adombrando il fuoco di sotterra simboleggiato dalla serpe: ierofania dei trapassati illustri che i romani amavano onorare nei larari domestici, o delle presenze geniali stanziate in ogni luogo (nullus locus sine genio, insegna Servio). Virgilio (Eneide, V) non a caso fa apparire un fausto serpente allorché Enea sacrifica ai Mani di suo padre Anchise, nella terra degli Elimi troiani di Sicilia. Ed è il Virgilio delle Bucoliche (III) a essere evocato da Carandini: “Sotto una volta delle terme di Caracalla, A. L. R. Ducros e G. Volpato hanno raffigurato, in un acquarello, donne che raccolgono erbe e loro uomini che battono il suolo con bastoni. Di fronte a loro si erge una serpe: latet anguis in herba. E’ un’immagine adatta per cominciare. Le rovine stanno lì, naturalmente come rocce, e all’ombra della fabbrica romana si svolge la vita. Scarsa è l’attenzione per l’antico: è il grado zero dell’archeologia. Ma i morti sono lì sotto e si vendicano, irritati per tanta distrazione, inviando il loro Genius, la loro energia vitale concentrata in quel luogo, che freme ancora nel rettile eretto. Al passato mai si sfugge del tutto e già compare una lastra di marmo: un’iscrizione? Il nostro ‘Atlante di Roma antica’, che qui presentiamo, è il rovescio di questa immagine lontana, che ancora ammalia”. Dunque è vero che chi scava corre più rischi di quanto si possa credere.

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L’Atlante di Carandini è, nelle sue premesse, quasi un piaculum: un atto di espiazione rispetto alle brutalità cui il nostro patrimonio archeologico è stato ed è ancora sottoposto dall’età tardo-antica ai giorni attuali. Un atto di generosità che rovescia non tanto l’acquarello con il Genius a guardia dell’antico, quanto il triste e potente libro dell’archeologo e topografo Rodolfo Lanciani alla cui memoria Carandini dedica la sua fatica: “La distruzione di Roma antica”. Il Lanciani descrisse minuziosamente l’empia demolizione dei monumenti romani; Carandini oggi quella Roma la ricostruisce sulla carta assieme ai suoi collaboratori: il paesaggio naturale, i confini sacri, le prime aree tribali, le officine e gli opifici, le mura e gli acquedotti, i giardini e le strade. Perfettamente riprodotte sul piano della più avanzata topografia sono le quattordici regiones in cui l’imperatore e Pontefice massimo Ottaviano Augusto volle suddividere l’Urbe rinovellata. Stupefacente l’apparato iconografico – si va dall’apparentemente banale antefissa al censimento delle monete raffiguranti monumenti antichi, ma meglio di ogni altra cosa sono i disegni dei giovani studiosi chiamati alla rievocazione della Roma arcaica – e ricchissime sono le schede descrittive. L’insieme del lavoro riscatta la natura generalmente arida degli atlanti, in questo caso anche la bruttezza delle copertine del doppio volume ammiccanti a un’arte fotografica (Rauchenberg) e a una pittura (Füssli) che nulla hanno di solare e di armonico, attributi essenziali del mondo romano. Possiamo dunque condonare a Carandini le sue scappatelle con l’informatica più incline alle fantasticherie? (Il positivista Mario Torelli ha potuto ingenerosamente denunciare la passione di Carandini per dettagliate ricostruzioni grafiche di contesti archeologici o di paesaggio antico, spesso poco attendibili o comunque ‘di fantasia’, in qualche caso ai limiti del kitsch: pur nascendo dal giusto desiderio di volgarizzare (nel senso migliore) contenuti ostici ai più, queste ricostruzioni finiscono però per gettare una fosca luce di ‘invenzione’ anche sulle scoperte più certe e significative”: “La forza della Tradizione”, Longanesi, 2011, euro 28,90). E condoneremo anche qualche recente caduta carandiniana nella memorialistica e nella narrativa storica che sarebbe meglio lasciare a Valerio Massimo Manfredi e ai suoi pallidi epigoni? La risposta è in entrambi i casi affermativa. Duole soltanto che nella pur così densa bibliografia carandiniana sia assente il lavoro, per così dire, pionieristico intrapreso all’alba del secolo scorso da Giuseppe Gatteschi, culminato nel magnifico e patriottico volume (“pro ciechi di guerra”) intitolato “Restauri della Roma Imperiale” (Roma, 1924). Il più noto Orazio Marucchi onorò Gatteschi di una prefazione encomiastica: “Il Gatteschi, nel presentare agli studiosi i ‘Restauri’ di questi gloriosi monumenti, ha adottato il metodo assai razionale di mettere a confronto con i suoi disegni di restauro le fotografie dello stato attuale, cioè dello stato in cui presentemente si trovano gli avanzi di quei monumenti stessi fra i moderni edifizi; onde se ne veda a colpo d’occhio la corrispondenza. E chiunque potrà persuadersi che i suoi restauri non sono il prodotto di una fervida immaginazione come alcuni ideati da altri, ma che hanno la loro base nello studio accurato di tutto ciò che può sapersi intorno alla vera forma di ogni singolo monumento”. Al netto delle scoperte sopraggiunte da allora a oggi, c’è più vita nei disegni che illuminano il volume del Gatteschi che nel più “evoluto” grafico tridimensionale computerizzato. Disegnare l’antico, prima ancora di fotografarlo, non è forse un modo per appropriarsene senza recargli offesa, instaurando quella corrispondenza di sensi che potrebbe un giorno sbocciare in risonanze interiori più profonde? Si guardi all’esempio offerto da Marianna Candidi Dionigi, eccelso modello di esploratrice erudita, antiquaria e artista, e al suo “Viaggi in alcune città del Lazio che diconsi fondate dal Re Saturno” (1809), vi si ritroverà l’amorevole pietas d’una matrona patrizia. Scherzi del sangue.

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Infine c’è ancora il mestiere. Nessuno, che si sappia, ha ancora scritto un galateo per archeologi. Rispetto ai moderni scavatori tutti concentrati sul freddo dato materiale e sulla sua pubblicazione (e pubblicizzazione in audioguida per turisti sradicati); rispetto a chi vìola tombe e santuari senza nemmeno domandare il permesso a quelle forze geniali che Carandini ha riconosciuto, perfino i cani da tartufo mostrano una superiorità dovuta alla loro irrinunciabile funzione animale. C’è, a dire il vero, un’altra lezione che si può apprendere dagli antichi: come loro edificavano civiltà in omaggio a una scienza del sacro, seguendo canoni di geometria celeste e non togliendo mai alcunché alla natura senza lasciare qualcosa in cambio, così dovrebbero procedere coloro che di tali civiltà si vogliano improvvisare disseppellitori (non chiediamo tanta avvedutezza ai costruttori contemporanei, come non si può chiedere alle termiti d’essere api). Ma in ogni caso Roma è sopravvissuta ai barbari e ai lanzichenecchi d’ieri e di oggi, sa difendersi dalle oscure latenze straniere di cui è punteggiato il suo territorio, conserva luoghi inaccessibili ai profani (e agli archeologi) ove lo spazio e il tempo ridiventano il fulgido hic et nunc della stirpe romulea sempre viva e giovane. Diversamente, non sarebbe ciò che è: la Fenice in eterno risorgente come il Sole che a ogni alba l’inonda di porpora fissando la sua quadriga sui Colli fatali.