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Il rigido determinismo di Taine nella valutazione estetica di San Vitale a Ravenna

di Francesco Lamendola - 11/10/2012


 


 

Come è noto, per il filosofo, storico e critico letterario francese Hippolyte Taine (Vouziers, 1828 - Parigi, 1893), massimo teorico del Naturalismo, imbevuto di concezioni positiviste e storiciste, l’opera d’arte è determinata da fattori puramente materiali ed è una descrizione a suo modo scientifica del reale, non un prodotto libero e spirituale, concezione che sfocia in un rigido determinismo.

Per Taine, l’uomo è semplicemente un animale di specie superiore, che produce poemi e filosofie, allo stesso modo in cui i bachi da seta producono i loro bozzoli e le api i loro alveari; non vi è differenza qualitativa fra queste cose, sono tutte manifestazioni di una vita naturale che tende ad assumere forme sempre più complesse e organizzate.

Come ogni altra manifestazione della vita e dell’attività umana, l’opera d’arte, per lui, è la risultante di tre fattori concomitanti: quello ereditario (“race”), quello esercitato dall’ambiente (“milieu”) e quello dovuto al momento storico (“moment”). L’uomo non possiede libertà di scelta, è solo il prodotto di svariati fattori che lo modellano inesorabilmente e ciascuno dei quali ha la sua radice fuori di esso: l’ereditarietà, la famiglia, la società, la storia.

Non c’è bisogno di una psicologia per studiare il comportamento umano, se per psicologia si intende qualcosa di dinamico e di complesso; è sufficiente la fisiologia: quello che l’uomo sente, pensa, desidera, teme o spera, altro non è che il risultato della sua costituzione fisica, delle sue eventuali malattie, dell’educazione che ha ricevuto e dei suoi bisogni economici. Quanto alla morale, semplicemente non esiste: «il vizio e la virtù - egli afferma con arrogante sicurezza - sono prodotti chimici, come il vetriolo e lo zucchero».

L’estetica, come si è visto, è una operazione scientifica come lo sono la fisica o la chimica: l’artista è colui che raccoglie i documenti umani, li analizza e li descrive con lo stesso imparziale distacco, con la stessa coscienziosa metodicità con cui lo scienziato studia al microscopio, sul vetrino del biologo, una goccia d’acqua in cui si agitano degli organismi unicellulari, o con cui il geologo valuta l’età di una montagna osservando la roccia di una sinclinale messa a nudo dall’erosione, con tutti gli strati sovrapposti e modellati dall’azione orogenetica.

Enorme è stato l’influsso esercitato dalle teorie deterministiche di Taine sugli scrittori della seconda metà dell’Ottocento e fino ai primi del Novecento: ne risentono, fra le altre, le opere di Émile Zola, Guy de Maupassant e Paul Bourget; meno nota, ma altrettanto poderosa, è stata l’influenza da lui esercitata sulla critica delle arti figurative. Ne trascegliamo un esempio fra i moltissimi, che si riferisce ai mosaici bizantini nella celebre basilica ravennate di San Vitale, onde poter considerare in maniera concreta il suo metodo e trarne le opportune riflessioni (I. Taine, «San Vitale di Ravenna», cit. in: Pietro Silva, «I secoli e le genti. Corso di storia e geografia ad uso degli Istituti Magistrali», Milano, Casa Editrice Principato, 1947, vol. 2, pp. 26-27):

 

«La chiesa di San Vitale è stata costruita sotto Giustiniano e oggi, benché guastata all’esterno e malamente dipinta dentro, è ancora la più bizantina fra tutte le chiese dell’Occidente. È una costruzione strana, rappresentativa di un tipo nuovo di architettura, tanto lontana dalle idee greche quanto dalle idee gotiche. L’edificio è una rotonda, sormontata da una cupola,  dalla quale discende la luce. Tutt’intorno gira una galleria circolare  a due piani, composta di sette semicupole più piccole, e l’ottava, aperta largamente, è un’abside che contiene l’altare, in modo che il cerchio centrale si circonda di un anello di cerchi minori, e che la forma globulare domina  in ogni dove, come la forma acuta nelle cattedrali del Medio Evo e la forma quadrata nei templi antichi. Per sostenere la cupola, otto grossi pilastri poligonali, congiunti da arcate tonde, formano un cerchio, e coppie di colonnette  ne congiungono gl’intervalli. L’effetto è strano, e gli occhi abituati a seguire le colonne in fila, si meravigliano qui dei loro incroci, della bizzarra varietà dei profilo, delle forme diritte, tagliate dalle rotondità delle volte, dalle forme discordanti. 

L’edificio è una creatura di un altro regno, congegnata secondo simmetrie sconosciute, per altre condizioni di vita. L’elegante capitello corinzio si è deformato fra le mani di muratori e di ricamatori, fino a on essere più che una complicazione di disegni barbati.

L’impressione diviene decisiva quando si osservano i mosaici. Si vede l’imperatrice Teodora, l’antica danzatrice, in atto di recare offerte con le sue donne; figura pallida e quasi distrutta; niente altro che due occhi enormi, due sopracciglia congiunte e una bocca; il resto del volto è affilato, la fronte e il mento sono piccolissimi, la testa e il corpo scompaiono sotto gli ornamenti. Un diadema scintillante sovrappone sul suo capo stelle di rubini e di smeraldi. Le perle e i diamanti corrugano di ricami la sua veste; il suo mantello di porpora violacea è ricamato d’oro; la sua calzatura è d’oro. Le donne che la circondano scintillano come lei, tutte diasprate d’oro e zebrate di perle, la stessa ampiezza degli occhi che assorbono tutto il volto, la stessa piccola fronte invasa dai capelli, lo stesso pallore del volto mantecato e spento.

Dall’altra parte appare Giustiniano, coi suoi guerrieri a destra e il suo clero a sinistra, in gran manto bruno, con borzacchini di porpora, parato e dorato come un reliquiario. L’arte di raggruppare i personaggi non è ancora dimenticata; per lo meno quegli artisti sanno fare la composizione simmetrica. Ma le figura sono rigide, inarticolate, quasi simili a quelle di una tappezzeria feudale.»

 

Questo, come abbiamo detto, è un esempio fra i molti del metodo adoperato da Taine per la critica di un’opera d’arte; lo abbiamo trascelto perché, trattandosi di un’opera che appartiene a un momento storico non rispondente ai pregiudizi razionalistici e deterministici dell’autore, si presta particolarmente a mostrarne tutte le insufficienze e la presunzione di fondo.

Non ci addentreremo nell’affermazione, più volte ripetuta, circa la “stranezza” della Basilica di San Vitale a Ravenna, anche se ci sembra un concetto alquanto contraddittorio da parte di un signore che ritiene si possa e si debba spiegare ogni elemento di un’opera d’arte in base a precise categorie scientifiche, oggettive e sperimentalmente dimostrabili.

Del resto, se ne avessimo voglia, potremmo contestare a fondo tale “stranezza”, ad esempio facendo notare il filo ideale che lega l’impianto architettonico di San Vitale con quello della romana basilica di Santa Costanza, e questa, a sua volta, al Mausoleo di Adriano (oggi Castel Sant’Angelo): il che ci porterebbe a riconoscere l’origine degli edifici sacri a pianta centrale del Medioevo proprio in quella classicità che Taine considera il metro e la misura di ogni realizzazione artistica degna di rispetto, secondo lui in contrasto e in opposizione alla “barbarie” bizantina e altomedievale: non rendendosi conto - lui così storicista! - del legame che collega naturalmente l’edificio di San Vitale a quegli illustri predecessori romani e paleocristiani.

Quel che ci preme notare, piuttosto, è l’atteggiamento di chiusura, di rifiuto, di condanna, che spinge Taine verso una totale incomprensione del fenomeno studiato, l’arte ravennate-bizantina, dietro il velo di una prosa barocca e quasi lussureggiante, nella quale par di sentire gli echi di certo primitivismo ed esotismo romantico, ma anche certe anticipazioni dello stesso orientamento in ambito naturalista e perfino simbolista, tanto pittorico che letterario: si pensi non solo al celeberrimo «Ingresso dei Crociati a Costantinopoli» di Eugène Delacroix, ma anche alla «Salambò» di Gustave Flaubert e alla «Apparizione» di Gustave Moreau.

Tutto quel che Taine dice al lettore, oltre il profluvio torrenziale di parole, di verbi, aggettivi sfarzosi e ben torniti, è che quella architettura sacra, quei capitelli, quelle colonne, quei mosaici, gli sono estranei, anzi, per usare la sua espressione, “alieni”; peccando di immodestia, sostiene che essi sono alieni a noi moderni, mentre il fatto è che lui li percepisce come tali, solo perché non rispondono ai suoi canoni estetici e ai suoi pregiudizi razionalisti.

Se l’opera d’arte non è il frutto di una libera creazione dello spirito, ma un prodotto rigidamente predeterminato, come lo sono l’alveare per le api e il bozzolo per il baco, come accettare l’idea un edificio che riunisce in se stesso e porta a perfezione la sfida di un triplice ordine espressivo - architettonico, scultoreo e pittorico, o meglio musivo - secondo una logica interna del tutto differente da quella che il professore parigino, dall’alto della sua cattedra, ha deciso di assegnare, per un mero pregiudizio ideologico, ad ogni e qualsiasi espressione estetica?

Certo, ciascuna opera d’arte rappresenta, in se stessa, un mistero; un mistero al quale bisogna accostarsi con umiltà e con la consapevolezza che non riusciremo mai a scandagliarne le ragioni ultime, tanto più se si tratta di un’opera realizzata in epoche lontane, quando tutto il paradigma culturale era radicalmente diverso dal nostro. In questo senso, e soltanto in questo senso, ogni opera d’arte ci è “aliena”, così come, in ultima analisi, ci è alieno anche l’essere umano a noi più vicino, quello con il quale condividiamo, o crediamo di condividere, la nostra stessa vita.

Questa riflessione deve rendere il critico d’arte più attento, più rispettoso, più consapevole dei propri limiti, quelli suoi personali e quelli relativi alla cultura cui appartiene; e pertanto lo deve indurre a un atteggiamento di massima apertura, di massima ricettività, di massima empatia, fin dove possibile, con l’opera che si trova davanti: perché, esattamente come con le persone, l’empatia è un mezzo poderoso per superare ostacoli e barriere e per avvicinarsi al mistero dell’altro, alla sua realtà viva e palpitante, così spesso celata dietro una maschera.

Taine fa esattamente l’opposto: sale in cattedra, si corazza dentro le proprio orgogliose certezze e poi, dall’alto di esse, giudica, assolve e condanna senza appello tutte le opere che cadono sotto il suo sguardo; il tutto dietro l’apparenza della impassibilità, della oggettività, della scientificità, mentre il suo metodo altro non è che l’ipostatizzazione di un dogma.

In base a questo dogma, i mosaici ravennati di Teodora e di Giustiniano, così come la cornice architettonica e scultorea entro la quale essi brillano di vivida luce, sono, semplicemente, una pallida e sbiadita eco dell’arte classica; l’unico elemento positivo che egli vi trova è che i suoi realizzatori, “perlomeno”, non hanno smarrito la capacità di costruire delle simmetrie e di disporre i gruppi delle figure in base ad esse.

È sempre l’antico, tenace pregiudizio razionalista: l’arte medievale, compreso il suo prologo paleocristiano e bizantino, non è che un “errore”, o meglio, una degenerazione della grande tradizione greca; se qualcosa di buono vi è in essa, ciò dipende dalla sussistenza di elementi di quella; a parte ciò, per ritrovarsi nuovamente in presenza di un’arte degna d’interesse, non più barbarica, goffa e incomprensibile, ma meritevole di reggere il confronto con l’arte greca, bisogna aspettare fino al Rinascimento.

Ora, a parte la grossolana presunzione di voler identificare l’arte con l’arte greca del periodo classico (il che porta, fra le altre cose, alla radicale incomprensione e alla piena svalutazione di ogni espressione dell’arte extra-europea, per non parlare delle forme dell’arte popolare all’interno della stessa cultura europea; pregiudizio che già il Romanticismo aveva contestato), resta il fatto che una simile impostazione del fatto critico toglie alla critica stessa il suo strumento di lavoro fondamentale: la capacità di rapportarsi ad un’opera non per esigere da essa che rispetti le nostre idee, ma cercando di comprendere quello che il suo autore ha voluto esprimere, servendosi di quelle forme piuttosto che di altre.

La forma, nell’arte, non è mai solo un fatto tecnico e, per così dire, estrinseco; essa è la sostanza stessa del discorso espressivo: cercar di capire il significato delle forme è la strada maestra per avvicinarsi al mistero del significato. Ma che cosa ha da dirci il signor Taine circa il significato di quell’edificio, di quelle colonne di quei mosaici? Nulla, assolutamente nulla.

Un po’ poco, per un critico che aveva sostenuto la somiglianza o addirittura  l’identità del proprio mestiere con quello dello scienziato. Lo si potrebbe paragonare a un biologo che vede quel che appare sul vetrino del microscopio, lo descrive, ma ignora di che cosa si tratti e che, in fondo, non se ne curi nemmeno: gli basta aver capito, o credere di aver capito, che cosa non è.

Certo, la scienza moderna, materialista e quantitativa, prevalentemente descrittiva, tende a procedere proprio così. Ma questo sarebbe un altro discorso, e lo faremo un’altra volta…