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L’amore per i bimbi di J. Korczak attesta che l’essenziale non è sopravvivere comunque

di Francesco Lamendola - 12/10/2012




 

Il film di Steven Spielberg «Schindler’s List», interpretato da Liam Neeson, Ben Kingsley e Ralph Fiennes ed uscito nelle sale cinematografiche nel 1993, è stato salutato come un capolavoro della Decima Musa e applaudito incondizionatamente dalla critica, nonché incoronato da un successo di pubblico senza precedenti.

Al regista è valso la definitiva consacrazione fra i “grandi” con due Oscar, per il miglior film e per la miglior regia; e la pellicola stessa è stata scelta dalla Biblioteca del Congresso, nel 2004, per essere preservata nel National Film Registry; come dire che, se una catastrofe di qualunque genere dovesse distruggere le grandi opere dell’ingegno umano, quel film sarebbe invece meritevole di salvarsi, almeno nelle intenzioni del governo americano, perché conterrebbe una sintesi dei più alti valori artistici e morali dell’umanità.

Ma è sempre oro tutto quello che luccica? Davvero il regista Steven Spielberg, già campione d’incassi, ma non certo di qualità, con film banalmente spettacolari come «Lo squalo», del 1975, atti a stuzzicare i peggiori istinti di un pubblico dal palato grossolano, si era improvvisamente convertito alle ragioni dell’arte e, quel che più conta, della più specchiata e intransigente onestà intellettuale?

Ci sia permesso di dubitarne. E la ragione di tale dubbio è molto semplice e prescinde, o meglio precede, qualsiasi ragionamento o giudizio di merito circa il valore intrinseco di «Schindler’s List»: essa verte unicamente sul fatto che la morale  esaltata dal film, e tanto apprezzata sia dal pubblico che dalla critica, è quella della sopravvivenza a qualsiasi costo, anche calpestando gli altrui diritti e anche sacrificando interamente il valore della dignità della vita umana. È una morale grevemente utilitarista: quel che conta non sono gli ideali o le nobili intenzioni, ma il risultato pratico, inteso come sopravivenza, ossia come la capacità di continuare a vivere a dispetto degli altri, anche senza gli altri, indipendentemente dalla salvezza degli altri.

Come è noto, c’è un aspetto nella vita dell’universo concentrazionario nazista che, per una forma malintesa di pudore e di rispetto, non è mai stato affrontato e sviscerato sino in fondo: e cioè il fatto che non solo, di norma, sono riusciti a sopravvivere quanti hanno smesso di farsi carico del destino dei propri compagni d sventura, ma, addirittura, quanti hanno saputo dispiegare tutti i mezzi, leciti e illeciti, per garantire la propria sopravvivenza, anche a danno degli altri; che, in breve, la struttura medesima dell’universo concentrazionario non sarebbe stata possibile, così come essa era stata concepita dai carnefici, senza la volonterosa collaborazione delle vittime stesse, e, in particolare, di quanti, fra le vittime, per forza, per astuzia o per mancanza di scrupoli morali erano più adatti a sopravvivere o ritenevano di avere maggiori probabilità di salvezza.

Pudore e rispetto malintesi, abbiamo detto, perché non si tratta di rovesciare la responsabilità dai carnefici sulle vittime stesse: la responsabilità dei carnefici rimane, questo è ovvio, e nulla potrebbe attenuarla; ma rimane anche il fatto, scomodo e imbarazzante, ma tremendamente vero, che, se vi fossero state delle dinamiche di solidarietà fra le vittime, lo sterminio non sarebbe stato possibile nelle forme in cui è avvenuto o, quanto meno, avrebbe incontrato dei gravi ostacoli; mentre esso ha potuto avvalersi del cieco egoismo e della brutale volontà di sopravvivere a ogni costo da parte di quanti, separando il proprio destino da quello dei propri compagni di sventura, hanno deciso di adottare tutte le strategie per conservare la propria vita, compresa quella di farsi sorveglianti, delatori e aguzzini dei propri compagni più deboli e indifesi.

Questo, lo sappiamo bene, è un discorso che oggi non piace, anche perché va contro la naturale tendenza a dipingere la realtà in termini di bianco e nero, con tutte le colpe da una sola parte e con il desiderio di pensare alle vittime come a una categoria indifferenziata di persone innocenti; mentre è un fatto che, in una comune sventura (si pensi a un incendio che scoppia in una scuola, in un cinema, in un grande palazzo di abitazione), l’anima umana ha la possibilità di trarre fuori da se stessa la propria parte peggiore, la più egoista e spietata, così come quella migliore, ove trovano spazio la solidarietà e la compassione nei confronti del prossimo.

In questo senso, la lezione delle persecuzioni e dei genocidi del XX secolo (e non solo di quelli di marca nazista, ma anche degli altri) non è stata meditata e assimilata nella maniera che sarebbe stata necessaria per trasformarla in un autentico ammonimento all’umanità; si è preferito rovesciare tutta l’esecrazione sui carnefici e riservare una pietà generica e, talvolta, ipocrita, sulle vittime, senza riflettere che appunto il modo di reagire delle vittime alla propria comune sventura rappresenta la pietra del paragone di quel che l’anima umana è o non è suscettibile di fare per migliorare se stessa e per alleviare, se possibile, le sofferenze del prossimo; o, qualora quest’ultima cosa non risulti possibile, per condividere con il prossimo il destino finale, qualunque esso sia.

A monte di questa riflessione, ovviamente, c’è una domanda fondamentale per qualsiasi essere umano: in che cosa consiste il valore della vita umana?; e, in base alla risposta che le si vuole dare, discende il giudizio su quanto è avvenuto in quei tragici frangenti della storia, non poi così lontani nel tempo come ci piacerebbe credere (il genocidio dei Tutsi in Uganda, da parte degli Hutu, è avvenuto nel 1994).

Potremmo incominciare con il negare la distinzione fra il valore della vita umana e il valore della vita in generale; potremmo, cioè, mettere in dubbio la rocciosa certezza, propria della cultura occidentale moderna (ma non di altre culture, specialmente orientali), circa il fatto che la vita delle creature non umane sia una vita di seconda categoria, cui non spettino i medesimi diritti e della quale l’uomo, anzi, possa disporre a piacere, come se ne fosse il padrone assoluto. Ma questo sarebbe un discorso che ci porterebbe troppo lontano e che, del resto, abbiamo già fatto altre volte; per cui, in questa sede, ci limiteremo a suggerirlo, mettendolo subito dopo tra parentesi, per concentrarci invece sulla domanda iniziale circa il valore della vita umana.

Ebbene, la risposta ci sembra essere contenuta nella domanda medesima: il valore della vita umana consiste nel fatto che essa sia una vita realmente umana; nella quale, cioè, siano rispettati e tutelati quegli elementi morali che la rendono tale, primo fra tutti la dignità, e che la distinguono da una vita disumana, basata, appunto, sul disprezzo e sul rovesciamento di quei valori. In altre parole: la vita umana non è, in se stessa, un valore auto-evidente; ma lo diviene a condizione che essa possa esplicarsi in maniera consona alla natura umana, che è spirituale, ragionevole e morale; se vengono a mancare tali condizioni, non siamo più in presenza della vita umana nella sua pienezza, ma di una sua caricatura o di una sua contraffazione.

Da ciò non discende affatto che l’eutanasia sia una pratica lecita, in quanto rimuoverebbe la vita umana quando essa non corrisponda più al requisito della propria pienezza; infatti, anche se vengono meno aspetti importantissimi, come la ragionevolezza e la stessa autocoscienza, permangono però altri aspetti, come la dignità intrinseca e la spiritualità in essa latente e potenziale, anche se non attuale. Ma discende, tuttavia, che la vita umana non può essere considerata un valore se essa, per tutelare se medesima, arriva al punto di ignorare le sofferenze altrui e, addirittura, di contribuirvi, aggravandole, anche solo dal punto di vista morale. La dignità della vita umana non può mai sussistere quando essa, per conservarsi, è disposta a collaborare con i carnefici a danno del prossimo: perché, bisogna dirlo anche se ciò può risultare politicamente scorretto, la vita umana non è un valore in se stesso, ma possiede un valore, fino a tanto che essa sia una vita realmente umana, ossia basata sul rispetto della sua dignità, in se stessi e negli altri.

Il famoso filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman ha contrapposto l’amore per i bambini del pedagogista Janusz Korczak (Varsavia, 1878 - Treblinka, 1942), che preferì morire con loro piuttosto che abbandonarli all’epoca delle deportazioni naziste, alla morale del film di Steven Spielberg «Schindler’s list», che consiste nell’elogio della sopravvivenza a qualunque costo, anche quello di sacrificare la dignità dell’essere umano e di abbandonare al loro destino i propri compagni di sventura.

Il suo ragionamento è semplice e convincente (da: Z. Bauman, «Amore liquido», titolo originale: Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds», Polity Press, Cambridge, e Blackwell Publishing, Ltd., Oxford, 200; traduzione dall’inglese di Sergio Minucci, Bari, Laterza, 2004, pp. 115-18):

 

«È tesi ampiamente condivisa tra i biografi e i discepoli di Korczak che l’elemento chiave dei suoi pensieri e delle sue azioni fosse l’amore per i bambini. Si tratta di un’interpretazione ben fondata: l’amore per i bambini di Korczak era appassionato e incondizionato, pieno e totale - sufficiente a sostenere un’intera vita caratterizzata da una straordinaria coerenza e integrità morale. E tuttavia, come quasi tutte le interpretazioni, anche questa non è non è esauriente.

Korczak amava i bambini come ben pochi di noi saprebbero o potrebbero amare, ma ciò che amava nei bambini era la loro umanità. L’umanità nella sua essenza migliore, non distorta, non monca, , non menomata, integra nella sua fanciullesca insipienza e nascenza, piena di una promessa ancora non tradita e di una potenzialità ancora incompromessa. Il mondo in cui i potenziali portatori di umanità nascono e crescono è noto per essere più adatto a tarpare le ali che a invogliare a dispiegarle, e così secondo Korczak solo nei bambini era possibile trovare, afferrare e preservare (per qualche tempo, solo per qualche tempo!) l’umanità genuina e integra.

Forse sarebbe meglio cambiare i modi del mondo e rendere l’habitat umano più ospitale alla dignità umana, cosicché il diventare adulti  non imponga di intaccare l’umanità di un bambino.  Il giovane Henryk Goldszmit [cioè J. Korczak] condivideva le speranze  del secolo in cui era nato e credeva che l’uomo AVESSE il potere di cambiare le abominevoli consuetudini del mondo: un compito a un tempo fattibile e destinato ad essere realizzato.  Ma col passare del tempo, via via che la pila di vittime di “danni collaterali”  delle cattive intenzioni come dei nobili intenti cresceva a dismisura e man mano che la necrosi e la putrefazione della carne in cui i sogni tendevano a trasformarsi lasciava sempre meno spazio all’immaginazione, tali nobili speranze vennero spogliate della loro credibilità. Janus Korczak conosceva fin tropo bene l’amara verità di cui Henryk Goldszmit era totalmente all’oscuro: non esistono scorciatoie che conducono a un mondo fatto a misura della dignità umana, mentre è assai poco probabile che il mondo “realmente esistente” costruito giorno dopo giorno da gente già privata della propria dignità e non adusa a rispettare la dignità altrui verrà mai rifatto sui tale misura.

Non puoi rendere perfetto questo nostro mondo per via legislativa.  Non puoi imporre la virtù al mondo, ma non puoi persuaderlo neanche a comportarsi in modo virtuoso. Non puoi rendere questo mondo come vorresti che fosse: gentile e rispettoso degli esseri ujmani che lo abitano e condiscendente ai loro sogni di dignità. MA DEVI TENTARE. Tenterai. Lo faresti comunque se tu fossi quel Janusz Korczak cresciuto da Henryk Goldszmit. In che modo tenteresti? Un po’ alla maniera di visionari utopisti vecchio stile  che - non essendo riusciti a quadrare il cerchio della sicurezza e della libertà nella Grande società - si trasformano nei progettisti di comunità recintate, di centri commerciali  e di parchi tematici… Nel tuo caso, proteggendo la dignità con cui ogni essere umano nasce dai ladri e dai malfattori che tentano di rubarla o di stravolgerla e menomarla; e inizieresti tale infinita opera di protezione quando c’è ancora tempo, durante gli anni infantili di quella dignità. Cercheresti di chiudere la stalla PRIMA che il cavallo fugga o venga rubato.

Un modo, apparentemente il più ragionevole, di fare ciò, è di mettere i bambini al riparo dai venefici effluvi di un mondo sporcato e corrotto dall’umiliazione e dalla mancanza di dignità umana; vietare l’accesso alla legge della giungla che impera appena fuori la porta del rifugio. Allorché il suo orfanotrofio si trasferì da Kochmalna, sua residenza prebellica, al ghetto di Varsavia, Korczak ordinò che la porta d’ingresso fosse sempre chiusa a chiave e che le finestre al pianterreno venissero murate. Via via che le paventate deportazioni alle camere a gas venivano trasformandosi in una certezza, Korczak si oppose all’idea di chiudere l’orfanotrofio e mandare via i bambini affinché cercassero individualmente una via di fuga che forse (soltanto forse) qualcuno di essi avrebbe potuto trovare. È possibile che abbia anche pensato che non valesse la pena di cogliere quell’occasione: una volta fuori dal riparo i bambini avrebbero conosciuto la paura, l’umiliazione l’odio. Avrebbero perduto il più prezioso dei loro valori: la dignità. E una volta privati di tale valore, a che sarebbe servito restare vivi? Il valore primo, il più prezioso dei valori umani, la “conditio sine qua non” dell’umanità, è una vita fatta di dignità, non la sopravvivenza a tutti i costi.

SPIELBERG AVREBBE POTUTO IMPARARE QUALCOSA DA KORCZAK L’UOMO E DA “KORCZAK” IL FILM. Qualcosa che non sapeva o non voleva sapere o on volle ammettere di sapere; qualcosa circa la vita umana e quei valori che rendono la vita degna di essere vissuta qualcosa che ha mostrato di ignorare o deciso di trascurare nella sua narrazione della disumanità, il film campione d’incassi “Schindler’s List”, ovunque applaudito nel nostro mondo che ha in scarso conto la dignità ma tanta fame di umiliazione, e che è giunto alla conclusione che scopo ultimo della vita sia quello di sopravvivere agli altri.

“Schindler’s List” è un film incentrato sul tema della sopravvivenza agli altri; sopravvivenza a tutti i costi in qualsiasi condizione, in qualunque modo, accada quel che accada. Il pubblico che affolla la sala scoppia in un applauso quando Schindler riesce a far scendere il suo capomastro dal treno diretto a Treblinka; non importa che il treno sia comunque partito e che tutti gli altri passeggeri stipati nel carro bestiame concluderanno il proprio viaggio nella camera a gas. E applaude di nuovo quando Schindler rifiuta l’offerta di “altri ebrei” in sostituzione dei “SUOI ebrei” destinati “per sbaglio”  ala cremazione, e riesce a “rimediare” all’”errore”.

IL DIRITTO DEL PIÙ FORTE, DEL PIÙ ASTUTO, ABILE O SCALTRO, NEL FARE TUTTO CIÒ CHE OCCORRE PER SOPRAVVIVERE AL PIÙ DEBOLE E SVENTURATO È UNA DELLE LEZIONI PIÙ TERRIFICANTI DELLA STORIA. Una lezione raccapricciante, spaventosa, ma non per questo meno diligentemente imparata, memorizzata e applicata. Per poter essere adottata, tale lezione deve prima essere totalmente spogliata di qualunque connotazione etica, , ridotta all’osso di un gioco della sopravvivenza a somma zero. La vita è sopravvivenza. Il più forte vive. Chi colpisce per primo sopravvive. Fino a quando sei tu il più forte, puoi farla franca e restare impunito, qualunque cosa possa aver fatto al più debole. Il fatto che la disumanizzazione delle vittime disumanizzi – devasti moralmente i loro vittimizza tori viene liquidato come una controindicazione irrilevante, se on addirittura fatto passare sotto silenzio. Ciò che conta è arrivare in cima e restarci. Sopravvivere – restare vivi - è un valore evidentemente refrattario alla disumanità propria di una vita dedita alla sopravvivenza. È un obiettivo che vale la pena di perseguire comunque, per quanto alto possa essere il prezzo pagato dallo sconfitto e per quanto profondamente e irreparabilmente ciò possa depravare e degenerare il vincitore.»

 

Certo, si può osservare che la concezione pedagogica di Janus Korczak peccava di astrattezza e di eccessivo idealismo; che il bambino, così come lo vedeva lui, era molto, troppo simile al “buon selvaggio” di Rousseau; che, infine, la sua pretesa di tenerlo separato il più possibile dal mondo degli adulti, per preservarne una supposta “umanità originaria”: quasi che il diventare adulto non sia, al contrario, il compimento di un naturale processo di evoluzione interna, che rende l’uomo più umano e non già meno umano.

Ma, pur con tutto ciò, non si può non convenire che, con la figura di Janusz Korczak, ci troviamo in presenza non solo di un grande pedagogista, concretamente innamorato dei bambini (e le due cose non sempre vanno di pari passo: si pensi al Rousseau, il quale depositava i propri cinque figli, uno dopo l‘altro, all’ospizio dei trovatelli), ma anche di un grande uomo: abbastanza grande da vedere come la difesa della dignità umana venga prima della sopravivenza ad ogni costo.

Testimoni oculari ci dicono che i bambini dell’orfanotrofio di Korczak si avviarono al treno, che li avrebbe condotti a Treblinka, a testa alta, senza mostrare alcun segno di paura; e che al loro maestro, cui le guardie fino all’ultimo offrirono la possibilità di andarsene e salvarsi, dicendo che l’ordine di deportazione riguardava i piccoli e non lui, ebbe la fierezza di rispondere: «Andar via senza i miei bambini? Fossi matto».

Ecco, questa è la lezione che Janus Korczak ci ha lasciato da meditare. L’essenziale non è sopravvivere a qualsiasi costo; l’importante è sopravvivere con dignità, se possibile; e, se no, affrontare il destino a testa alta, ma sempre con dignità e in solidarietà col prossimo.