Il bosone di Higgs: crisi irreversibile della fisica moderna e ultime tracce di una scienza sacra
di Paolo G. - 12/10/2012
“Tutta la scienza moderna non ha il minimo valore della conoscenza; essa si basa anzi su di una formale rinuncia alla conoscenza nel senso vero.
In effetti, già il concetto di “verità’ nel senso tradizionale è estraneo alla scienza moderna; questa s’interessa unicamente ad ipotesi e a formule capaci di far prevedere con un massimo di approssimazione il corso dei fenomeni e di ricondurli ad una certa unità. E come non è questione di ‘verità’ … così nella scienza moderna il concetto della certezza si riduce a quello della ‘massima probabilità’ … l’ ‘obiettività’ scientifica consiste unicamente nell’esser pronti in ogni momento ad abbandonare le teorie o ipotesi vigenti, non appena se ne presentino altre capaci di meglio controllare il reale e di far rientrare nel sistema di ciò che si era già reso prevedibile e maneggevole fenomeni non ancora considerati o che sembravano irriducibili: e ciò, senza un qualche principio che per sé, per la sua intrinseca natura, valga una volta per tutte”.
Con queste parole lo Julius Evola di Cavalcare la tigre descriveva, negli ormai lontani anni Sessanta, alcune caratteristiche della scienza moderna, sulla falsariga della fondamentale distinzione presentata da René Guénon tra scienza profana e scienza sacra ne La crisi del mondo moderno. Le parole di Evola, pur risalenti, potrebbero essere state scritte ieri, per la capacità profetica ed analitica che egli, anche in questo campo, ha saputo manifestare.
Come osservò Gianfranco De Turris in una nota di una delle più recenti edizioni di Cavalcare la tigre da lui curata, Evola anticipava “con lucidità e preveggenza un dibattito, in corso ormai da decenni, sulla crisi della scienza contemporanea che ha alla fine scoperto di non essere in grado di fornire risposte non tanto alle domande assolute, quanto addirittura a quelle relative ad ambiti ristretti. La crisi è dovuta alla autoreferenzialità della scienza che cerca di dare risposte soltanto in se stessa, e quindi non può fare altro che andare nella direzione della continua riproposta di schemi già noti”.
Queste riflessioni sembrano di ulteriore, particolare attualità proprio in quest’ultimo periodo. Com’è noto, dallo scorso mese di luglio il mondo della scienza è in visibilio per la (presunta) scoperta al CERN di Ginevra del tanto agognato “bosone di Higgs”, fondamentale particella del cosiddetto “modello standard” della attuale fisica nucleare, altrimenti nota come “Particella di Dio” (ma per motivi molto meno “spirituali” di quel che si crede[1]), la quale dovrebbe conferire la massa a tutte le altre particelle subatomiche e, di conseguenza, a tutta la materia dell’Universo visibile.
Sebbene da più parti si sia gridato al miracolo, e sebbene l’opinione pubblica ed i media generalisti abbiano parlato di questa scoperta in termini molto trionfalistici, la realtà è decisamente più complessa, non solo per evidenti motivi legati alla specificità tecnica dell’argomento, tipicamente da “addetti ai lavori”, ma anche per ragioni di altro genere, connesse non soltanto all’effettività di ciò che realmente si sarebbe scoperto, ma anche al significato da attribuire a tutto questo in termini spirituali e tradizionali.
Da molti anni i fisici, per spiegare la genesi dell’Universo, hanno creato un «modello standard», uno tra i tanti possibili modelli con i quali si cerca di ordinare la fisica della particelle. Per far quadrare i calcoli di questo modello puramente teorico, Peter Higgs teorizzò, nel 1964, l’esistenza di bosoni, cioè di particelle (così chiamate perché obbediscono alla statistica di Bose-Einstein) in grado di dare massa alle altre particelle. Per quanto possa apparire strano, alcune particelle sarebbero in qualche modo all’origine della massa delle altre, possedendone a sua volta una. Sarebbero dunque causa ed effetto contemporaneamente.
Il CERN aveva sicuramente bisogno di annunciare al mondo una scoperta “roboante”, dopo la brutta figura rimediata lo scorso anno con l’erroneo annuncio relativo alla scoperta di neutrini più veloci della luce (scoperta che avrebbe messo in crisi la teoria della relatività) e dopo le polemiche seguite ai massicci investimenti per la costruzione a Ginevra del Large Hadron Collider, il tunnel sotterraneo utilizzato per gli esperimenti, e di Atlas, il gigantesco rivelatore capace di individuare il passaggio di particelle di dimensioni infinitesime. Questo rivelatore, insieme al gemello Cms, ha dato la caccia per 18 mesi alle eventuali impronte lasciate dal bosone di Higgs.
La certezza assoluta su cosa si sia visto e su cosa si sia realmente “scoperto” a Ginevra, al di là di quanto ufficialmente è stato annunciato dai media, non ce l’ha nessuno, neppure gli addetti ai lavori. Nei giorni successivi all’annuncio, Fabiola Gianotti, la scienziata italiana che guida l’esperimento Atlas, aveva dichiarato: “Nei nostri strumenti abbiamo osservato tracce chiare di una nuova particella a circa 125 Gev di massa … viene prodotta nelle collisioni ad alta energia, ma poi decade in un tempo brevissimo, impossibile perfino da misurare”. La nuova particella individuata sembra essere praticamente invisibile, non dura neppure una frazione misurabile di secondo, e di fatto la si immagina solo sulla base di altre particelle, che effettivamente risultano misurabili; la ricercatrice stessa si guardava bene dal dire che si tratti con certezza del bosone di Higgs. Così anche Mariagrazia Alviggi, responsabile per l’Infn di Napoli del progetto Atlas e docente di fisica all’Università di Napoli Federico II: “Atlas e Cms hanno mostrato evidenze di una nuova particella, senza affermare con certezza che si tratti del bosone di Higgs previsto dal modello standard. Di questa nuova particella si sono visti solo alcuni tra i decadimenti previsti per il bosone di Higgs … sono stati trovati più eventi a due fotoni rispetto a quelli previsti … non si ha la certezza che si tratti della particella di Higgs con le esatte caratteristiche previste dal modello. Le teorie che prevedono particelle di Higgs sono molte e prevedono vari tipi di bosoni, con diverso comportamento”.
Lo stesso Rolf Heuer, direttore generale del Cern, aveva detto, contraddicendosi non poco, che: “Un grande sforzo collettivo ha dato un grande risultato: la scoperta del bosone di Higgs. Ora resta da capire di che tipo di particella si tratti e siamo dunque all’inizio di un altro grande cammino … proprio le nuove anomalie intraviste nel bosone di Higgs, potrebbero costituire l’anello di congiunzione con la realtà che ancora ignoriamo … È come vedere da lontano un uomo che somiglia molto a un nostro amico, ma dobbiamo avvicinarci per capire se si tratta davvero di lui o di un gemello con qualcosa di diverso”.
Roberto Longo, direttore del centro di matematica e fisica Teorica di Roma presso L’Università Tor vergata, aveva aggiunto: “Il bosone non porta grandi novità dal punto di vista operativo. Finora, si era sempre andati avanti come se esistesse, anche se non lo si era osservato. Ma il modello standard continua ad avere i suoi limiti … è un modello fenomenologico e dal punto di vista matematico non è rigoroso. Non contempla l’unificazione tra teoria quantistica e la teoria generale della relatività di Einstein, e questo è il problema concettuale più importante. Il fatto che non si riesca ancora a formulare una teoria unificata significa che non abbiamo compreso ancora a fondo queste teorie. Inoltre, il modello standard non descrive il comportamento della materia nelle condizioni più estreme e non prevede la materia oscura, che costituisce il 96% dell’universo … dal punto di vista matematico, il modello è inconsistente … non c’è dubbio che il modello funzioni, tuttavia la ragione ultima, concettuale, per cui funziona non è chiara”.
Insomma, gli esperimenti hanno portato ad individuare una tipologia di particella subatomica sfuggente, che è immediatamente decaduta, di cui non si conoscono esattamente la natura e le caratteristiche; le poche proprietà riscontrate sono in parte divergenti da quelle attese. Questa particella potrebbe essere quella ipotizzata in via puramente teorica da Higgs per far quadrare il famoso “modello standard”, oppure potrebbe essere tutt’altro; in realtà, la particella di Higgs potrebbe proprio non esistere, essendo, ripetiamo, solo il frutto di un’elaborazione teorica finalizzata a far funzionare un mero modello astratto. In tal caso, il modello standard dovrebbe essere abbandonato e bisognerebbe considerare altre teorie, come ad esempio quella della Supersimmetria (una simmetria che associa bosoni ad altri tipi di particelle, i fermioni).
Poche settimane fa, inoltre, un gruppo di fisici dell’Università dell’Iowa, ribadendo come non sia ancora ben chiaro cosa si sia realmente scoperto a Ginevra, hanno sottolineato che in ogni caso questo “qualcosa”, in sé, non può ritenersi sufficiente: “Per quanto possa rivelarsi di grande interesse, il risultato più deludente sarebbe trovare il bosone di Higgs, o una particella simile, e niente altro. In realtà la speranza è di trovare qualcosa che vada al di là delle previsioni del Modello Standard”, ha detto Jim Cochran, docente di fisica e di astronomia all’Univesità dell’Iowa. Il Modello Standard direbbe “fin troppo” del bosone ma, paradossalmente, non direbbe nulla in merito alla sua massa. “In futuro ci aspettiamo di trovare qualcosa di ancora più interessante”, precisa Chunhui Chen, fisico e collaboratore di Jim Cochran, facendo riferimento ad ipotetici e fantascientifici scenari cui potrebbero condurre i prossimi trent’anni di ricerche … come dire: al momento non si sa cosa si è scoperto a Ginevra, ed in ogni caso bisognerà attendere altri decenni perché si possano eventualmente fare ulteriori passi significativi.
Lo stesso “modello standard” è già in sé piuttosto traballante, poiché, oltre a non prevedere la materia oscura (uno dei tanti misteri non ancora risolti dalla fisica moderna, al pari di quello dell’antimateria) e a non dare conto di una forza fondamentale quale la gravità (non configurando la particella elementare della forza di gravità, il gravitone), al momento, come osservato dal dottor Longo, non riesce a far conciliare le due teorie fondamentali che hanno caratterizzato la fisica nell’elaborazione novecentesca: la relatività – generale e ristretta – e la fisica quantistica.
Le due teorie operano in ambiti distinti: la relatività generale si occupa del comportamento della materia a livello macroscopico e delle altissime energie, ed ha carattere deterministico, mentre la fisica quantistica (o fisica delle particelle, in quanto studia di fatto il comportamento delle particelle atomiche o subatomiche) si occupa del comportamento della materia a livello microscopico e delle basse energie ed è una fisica probabilistica. Le due teorie, quando vengono applicate assieme, portano a risultati contraddittori, in quanto si fondano su diversi presupposti: la materia sembra infatti comportarsi in maniera diversa a livello atomico e subatomico rispetto a quanto avviene invece a livello macroscopico, il che implica un terribile problema: che una delle due teorie sia sbagliata, o che comunque le teorie debbano essere profondamente rivedute e corrette.
Evola, con riferimento in particolare alla teoria einsteniana della relatività, parlò di “forma liminale della dissoluzione della conoscenza”, aggiungendo che “con quella teoria ci si è avvicinati quasi a certezze assolute, ma di un carattere puramente formale. E’ stato costruito un sistema coerente di fisica tale da tener in scacco ogni relatività, da render conto di ogni mutamento e di ogni variazione, con la massima indipendenza dai punti di riferimento e da tutto ciò che si lega alle osservazioni e alle evidenze dell’esperienza immediata, alla percezione corrente dello spazio, del tempo, della velocità. Ci si trova dinanzi ad un sistema che è ‘assoluto’ per via della flessibilità ad esso conferita dalla sua natura esclusivamente matematica e algebrica … La teoria in questione è disposta ad ammettere le relatività più inverosimili … l’una cosa non è più ‘vera’ dell’altra”, con l’unica differenza che un’alternativa comporterebbe l’introduzione di maggiori complicazioni nei calcoli rispetto ad un’altra.
Quella einsteniana è anche una fisica algebrizzata, come la definì Evola, ponendo in evidenza come in essa vengano matematizzate senza residuo anche le ultime basi sensibili intuitive che si mantenevano nella fisica meno recente, caratterizzata ancora da schematiche categorie geometrico-spaziali. Nella fisica einsteniana, invece, spazio e tempo fanno una cosa sola, formando un ‘continuo’ espresso da mere funzioni algebriche.
L’intera fisica moderna (e non solo quella einsteniana) appare dunque, nel suo complesso, dominata da un astrattismo e da un relativismo giunti ormai alle loro estreme conseguenze, essendo fondata su diversi schemi possibilistici e modelli teorici che possono essere modificati, corretti, abbandonati (proprio come ricordato all’inizio nella citazione di Evola), a seconda di ciò che può essere considerato come meglio rispondente, volta per volta, a determinate necessità, ed a seconda delle risultanze sperimentali, che peraltro rappresentano sempre un fattore di elevata incertezza, come rilevato sempre da Evola: gli esperimenti, infatti, “… non danno risultati univoci, ma variabili. La stessa impostazione dell’esperimento fa sì che si abbia ora l’uno, ora l’altro risultato, perché essa influisce sull’oggetto dell’esperimento … e all’una descrizione dei fenomeni sub-atomici se ne può contrapporre un’altra altrettanto ‘vera’ ”.
C’è pertanto ben poco di realmente completo, certo ed assoluto in questo contesto: tutto appare relativo, sfuggente, astratto o comunque indefinito. Abbiamo due imponenti teorie (relatività e fisica quantistica), che confliggono tra loro. Abbiamo un modello, il modello standard, che non dà conto di una forza fondamentale (la gravità) e, come visto, presenta altre importanti anomalie.
Gli scienziati si trovano attualmente di fronte ad una situazione tutt’altro che chiara, con numerose scuole di pensiero e diversi approcci; la fisica si è frammentata in mille rivoli, nel disperato tentativo di raggiungere e spiegare razionalmente, analiticamente e dialetticamente tutte quelle verità ultime che attengono invece ad un piano metafisico e che pertanto, come accadeva nelle civiltà tradizionali, potrebbero essere percepite soltanto attraverso una forma di conoscenza fondata su un pensiero di tipo sintetico-intuitivo. Qualunque scoperta a livello atomico e subatomico da parte di una scienza meramente profana richiederà sempre il compimento di ulteriori passi, e poi di altri ancora, all’infinito: ma essa non riuscirà mai a spiegare razionalmente l’essenza ultima del mondo sensibile, come si illude di poter fare; resterà inevitabilmente limitata entro un dominio conchiuso, fino a perdersi in quell’autoreferenzialità, in quell’astrattezza ed in quel relativismo probabilistico che ormai già da tempo la contraddistinguono.
“Le verità della scienza sono provvisorie”: così, sulla stessa linea, aveva commentato molto significativamente il filosofo Giovanni Reale a proposito della presunta scoperta di Ginevra (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43648). “Si ha l’impressione che non pochi scienziati e gran parte degli uomini comuni siano rimasti inchiodati all’idea ottocentesca e del primo Novecento, secondo cui la scienza raggiunge verità ultimative e incontrovertibili. Ma l’epistemologia ha dimostrato il contrario, ossia che ciò che la scienza dice si colloca all’interno di «paradigmi», tutti quanti controvertibili con le conseguenze che questo comporta. Non poche volte alcune affermazioni della scienza, nell’evoluzione delle conoscenza, si sono capovolte nel loro contrario.
Popper ha dimostrato in modo preciso che ogni teoria scientifica è tale solo se — e nella misura in cui — risulta «falsificabile», ossia controvertibile. Una verità presentata come infalsificabile sarebbe, per definizione, non scientifica.
Se non si tiene ben presente questo, si trasforma la scienza in «scientismo», ossia se ne fa un idolo considerandola fonte di ipotesi, ossia di affermazioni modificabili, ma di verità assolute”.
Ma è ancora possibile concepire oggi una fisica alternativa, che possa poggiare su altre basi?
E’ molto significativo al riguardo ricordare l’analisi fatta, da Andrea Boni, che pratica ed insegna professionalmente Anusara Yoga e che studia le interrelazioni tra scienza e spiritualità.
Boni ha osservato (http://scienzaespiritualita.blogspot.it/2009/02/etere-akasha-e-vuoto-quanto-meccanico.html), che il pensiero scientifico moderno, nonostante le derive cui si è accennato, è stato (ed è tuttora) arricchito dal contributo di diversi pensatori che hanno proposto delle teorie che si avvicinano in modo sorprendente alle conclusioni che è possibile trovare, con millenni di anticipo, nei testi sacri indovedici. Tra i tanti, Boni menziona i nomi di Marco Todeschini (1899-1988), fisico, Luigi Fantappiè (1901-1956), matematico, ed il contemporaneo Massimo Corbucci, fisico.
E’ interessante esporre, in particolare, la teoria del cd. Vuoto Quantomeccanico, elaborata in trent’anni di lavoro dal citato fisico italiano Massimo Corbucci, da sempre molto critico con gli esperimenti condotti dal CERN di Ginevra: “Cercare la materia come origine della materia è un errore concettuale, perché la fisica non ha ancora compreso la necessità di Dio”, ha recentemente dichiarato.
“Ciò che la scienza non ha ancora compreso”, ha sostenuto ancora Corbucci, “è che la ricerca dell’origine della materia entra nel campo della metafisica, dove le unità di misura della fisica non hanno più senso. Una scienza che non ha compreso la necessità di Dio è una scienza amorale che ci permette di esseri immorali. L’umanità sta andando catastroficamente verso un disfacimento morale perché la scienza scientista fa credere che l’universo sia come un aereo che viaggia alla deriva senza pilota”.
Secondo Corbucci ci sarebbe una soluzione differente per spiegare l’origine della materia, rispetto a quelle ipotizzate dalla fisica moderna: esisterebbe infatti un vuoto “pieno”, in grado di conferire massa alle particelle: il Vuoto Quantomeccanico, il luogo da dove avrebbe origine la materia.
Tecnicamente, il fisico spiega la sua teoria attraverso la rinnovata disposizione delle particelle all’interno del nucleo stesso. Queste non sarebbero più disposte “come in una cesta di arance”, così come ipotizzato dalla scienza sino ad ora, ma in parte a destra e in parte a sinistra del nucleo secondo una precisa dicotomia. Con questa distribuzione, le particelle individuate per l’atomo più grande conosciuto (indicato con il numero atomico 112) sarebbero 103, di cui 57 a sinistra e 46 a destra. Resterebbero quindi 9 caselle vuote, esattamente al centro del nucleo. Questo vuoto nel nucleo atomico, è la conclusione di Corbucci, avrebbe le stesse caratteristiche di ciò che si trova oltre i confini dell’universo. L’atomo avrebbe dunque dentro di sé una “porta” per accedere nell’infinito assoluto, un regno dove le misure non contano più.
La tesi va ora spiegata ed approfondita più specificamente in un’ottica tradizionale e spirituale.
Andrea Boni, facendo anche riferimento, per la sua esposizione, all’opera di Marco Teodorani “Marco Todeschini: Spaziodinamica e Biopsicofisica“, Macroedizioni, da cui ha liberamente tratto e parzialmente modificato alcuni passi, osserva: “Cartesio era fermamente convinto che lo spazio non fosse “vuoto”, come riteneva invece Einstein, ma riempito di una sostanza denominata “etere”, nella quale possono prodursi vortici e onde (che generano la materia e tutte le sue interazioni) (…) Ancora prima di Cartesio la stessa idea era nata dal caposcuola Anassagora, seguita e rielaborata da Leucippo, e poi adottata dai Filosofi Platone e Aristotele, che condividevano l’idea che non esistesse spazio vuoto, ma che la materia fosse immersa in una sostanza che indicavano come spazio “pieno” (Platone) o “etere” (Aristotele), intendendo, in definitiva, la stessa cosa, simile a quello che i fisici moderni chiamano “vuoto quanto-meccanico”. Tale termine è stato recentemente utilizzato anche dal Fisico Massimo Corbucci nel suo libro Alla scoperta della particella di Dio ”.
In particolare, il vuoto quantomeccanico postulato dal dottor Corbucci nella sua teoria delle particelle subatomiche corrisponderebbe, in sostanza, all’elemento akasha, presente nella struttura interna del Vaisheshika e del Sāṅkhya (o Sāṁkhya), due dei sei darśana, le concezioni metafisico-cosmologiche dell’India post-vedica, i “punti di vista” o “angoli visuali” (impropriamente chiamati “sistemi filosofici”[2]) cosiddetti “ortodossi”, in quanto in accordo costante con i principi del Veda[3]. Il “sistema” Sankhya (si usa per semplicità questo termine che in sé, appunto, è improprio, essendo i darśana, come accennato, delle forme/modalità conoscitive metafisiche, e non filosofiche, dei princìpi del Vedismo) è quello in particolare preso in considerazione da Boni. Esso, come il Vaisheshika, è in connessione con la sfera naturale, cioè con la sfera della manifestazione universale, da un “angolo visuale” sintetico e non analitico, descrivendo il processo che porta alla manifestazione del mondo fenomenico a partire dall’interazione tra due principi-base: il purusha (o pumas, “essenza”, principio attivo trascendente, elemento maschile, il Sé contrapposto all’io empirico) e la prakriti (o pradhana, la sostanza universale primordiale indifferenziata e non manifesta in sé, principio passivo, rappresentato come femminile, “sostanza”, da intendersi come la “ule” aristotelica, da cui procedono tutte le cose per modificazione)[4]. Il dinamismo dell’universo, secondo l’angolo visuale del Sankhya, sarebbe dovuto infatti all’interazione di questi due elementi primordiali: il loro “contatto” sarebbe indispensabile poiché il purusha resta inattivo senza la prakriti, e quest’ultima rimane statica e non manifesta senza l’operare del purusha[5].
In particolare l’elemento akasha (tradotto variabilmente nelle lingue europee moderne con i termini di ‘spazio’, ‘etere’, ‘vuoto’), indica uno dei panchamahabhutas, ovvero dei cinque grandi elementi, ed è assimilabile allo ‘spazio pieno’ platonico, all’‘etere’ aristotelico, essendo uno spazio primordiale che “ospita” la prakriti sotto forma di sostanza ancora allo stato non manifesto. L’akasha ha così la potenzialità di manifestare tutto ciò che diventa fenomeno (da essa infatti, secondo il Sankhya, derivano gli altri bhutas, “elementi”, ovvero l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra; dalla prakriti trarranno poi origine gli altri ventitré principi fondamentali, si veda la nota 5).
L’elemento akasha e gli altri quattro elementi sono di fatto energie del parampurusha (altrimenti noto come Mahāpurusha o Prajāpati), l’Uomo Cosmico primordiale, l’Essere che si situa ontologicamente al di là di materia, spazio e tempo. Si cita a tal riguardo