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Quella vena pronunciata di sadismo che fa vendere milioni di copie

di Francesco Lamendola - 14/10/2012




 

Il romanzo di Giorgio Faletti «Io uccido», opera prima del noto cantante, compositore e attore astigiano (che nel 1994, ha mancato per un pugno di voti la vittoria al Festival di Sanremo), appare nel 2002, quando il suo autore ha cinquantadue anni, e travolge le classifiche dei best-seller, vendendo ben quattro milioni di copie.

Prendiamo la sequenza in cui viene descritto l’assassinio a freddo di una donna - Arijane Parker, campionessa di scacchi di fama internazionale - che si era immersa in mare per un bagno notturno; il punto di vista narrativo è ora quello dell’uccisore, ora quello della vittima (da: G. Faletti, «Io uccido», Milano, Baldini & Castoldi, 2002, pp. 46-48):

 

«… Sta per togliersi le pinne quando percepisce un passo sul ponte della barca. Abbandona la scaletta e si sposta alla sua destra, per avere la protezione della murata. Dal suo posto fra le ombre, vede la ragazza uscire all’aperto  e rimanere in piedi, come incantata dal gioco della luna  sul mare calmo e piatto. L’accappatoio bianco che indossa è per pochi istanti un riflesso in più, ma poi, con un solo gesto fluido, la ragazza lo lascia scivolare a terra ed è nuda nella luce.

Dalla sua posizione, l’uomo la vede di profilo e ammira il suo corpo solido, la linea perfetta del seno piccolo e sodo, segue con lo sguardo la traccia delle natiche che si scioglie nelle gambe lunghe e nervose.

Con movimenti che sembrano d’argento, la giovane donna raggiunge la scaletta e tende un piede a provare la temperatura dell’acqua.

L’uomo sorride ed è il sorriso acuminato di uno squalo.

Non riesce a credere alla sua fortuna.

Spera ardentemente  che la ragazza non tema il confronto con l’acqua fredda e che subisca il fascino di un bagno in mare sotto la luce della luna piena. Quasi avesse colto il suo pensiero, la ragazza si gira, inizia a scendere la scaletta e si lascia dolcemente scivolare fra le onde, rabbrividendo alla temperatura frizzante dell’acqua che le fa venire la pelle d’oca e le raggrinzisce piacevolmente i capezzoli.

Si allontana nuotando dalla barca, puntando verso il largo, sul lato opposto a quello dove sta in agguato la sua figura avvolta  nella muta nera. Il movimento silenzioso con cui l’uomo si lascia sprofondare sotto il pelo del’acqua ha la sinistra fluidità  del predatore che inizia il gioco di caccia con la preda ignara, un gioco crudele che ha sempre in palio la vita.

Aiutandosi con le mani, svuota completamente i polmoni attraverso l’erogatore per scendere più agevolmente. Poi si pone parallelamente al fondale e inizia a muoversi in direzione della ragazza. Poco dopo arriva sotto di lei. Alza la testa e la vede  su in alto, macchia scura in controluce sul pelo dell’acqua, muovere i piedi e le mani per tenersi a galla. Risale lentamente, respirando piano per non tradire la sua presenza con le bolle d’aria. Quando la ragazza è a portata di mano, l’afferra per le caviglie  e la tira con forza verso il basso.

Arijane avverte con sorpresa la presa violenta che la trascina sotto la superficie. Il movimento con cui viene trascinata verso il fondo è talmente improvviso che non ha nemmeno il tempo di riempirsi i polmoni d’aria. Si trova di colpo un metro sott’acqua e quasi contemporaneamente sente allentarsi la presa alle caviglie. Scalcia istintivamente per darsi una spinta verso l’alto ma due mani si posano sulle sue spalle, apponendo un peso che invece la spinge ancora più giù, verso il fondale, lontano dal pelo dell’acqua che luccica sopra la sua testa come una promessa beffarda d’aria e di luce. Sente due braccia rapaci circondarle il busto e saldarsi come una cintura sopra il seno, il contato viscido del neoprene di una muta da sub aderire alla schiena nuda e un corpo sconosciuto allacciarsi al suo, mentre l’aggressore le circonda il bacino con le gambe cercando di impedirle ogni movimento.

Il terrore circonda la ragione con un muro di gelo.

Inizia a divincolarsi selvaggiamente, mugolando, ma i suoi polmoni, già in debito d’ossigeno, bruciano in un attimo tutte le residue riserve. Man mano che cresce il bisogno d’aria, Arijane sente  le forze svanire, sempre più in balia della stretta mortale del corpo tenacemente avvinghiato al suo,  che la trascina inesorabile verso la notte senza luna del fondale.

Ha la percezione che sta per morire, che qualcuno la sta uccidendo senza che le sia concesso di sapere il perché. Dai suoi occhi escono salate le lacrime del rimpianto che vanno a confondersi  con i milioni di gocce anonime del mare indifferente  che l’avvolge. Sente il buio di quel’abbraccio e spandersi ed entrare a far parte di lei, come una boccetta d’inchiostro nero versata nell’acqua pulita di un catino. Una mano fredda e spietata  prende a frugare freneticamente in ogni parte del suo corpo, dentro e fuori, quasi a cercare ed estinguere ogni minima scintilla di vita che incontri sul suo cammino, finché non raggiunge il suo giovane cuore di donna e lo ferma per sempre.

L’uomo sente il corpo rilassarsi improvvisamente, nel momento stesso in cui la vita lo abbandona. Attende qualche istante e poi gira il cadavere della ragazza con la faccia verso di sé,  le mette le braccia sotto le ascelle e inizia a muovere i piedi  pinnati per risalire verso l’alto. Man mano che procede verso la superficie luminosa, il volto della giovane donna smette di essere una macchia scura e prende lentamente forma oltre il vetro della maschera. Appaiono i lineamenti delicati, il naso sottile, la bocca semiaperta alla quale escono poche ultime, beffarde bollicine d’aria. Appaiono gli splendidi occhi verdi senza vita fissati dal flash spietato  della morte, mentre si avvicinano a quella luce che non possono  più vedere e che non gli appartiene più.

L’uomo guarda apparire il viso della donna che ha ucciso  come un fotografo guarda svilupparsi una fotografia di cui è particolarmente ansioso. Quando è perfettamente sicuro della bellezza di quel volto, lo squalo sorride…»

 

Dal punto di vista letterario, a parte la desolante prevedibilità di tutto l’insieme, e specialmente dell’aspetto fisico della donna - giovane, bella, lineamenti delicati, gambe lunghe, occhi verdi, eccetera -, e a parte qualche passaggio di dubbia proprietà sintattica (« mentre si avvicinano [gli occhi] a quella luce che non possono più vedere e che non gli appartiene più», in luogo di «che non appartiene più loro»), vi sono degli echi, forse inconsapevoli, comunque piuttosto precisi, di altre pagine e di altri romanzi del genere thriller.

In particolare, oltre al romanzo «Lo squalo» di Peter Benchley (e al relativo film), con la famosa sequenza della ragazza che viene attaccata dal predatore, dal basso verso l’alto, mentre si sta concedendo un bagno notturno, va segnalato un brano del romanzo dello scrittore americano John D. MacDonald «Dovere d’uccidere», che riportiamo per un confronto e nel quale la vittima, una giovane donna di nome Lucille Hanson, viene uccisa con la stessa identica tecnica davanti a una spiaggia della Florida (titolo originale: «The Drowner», Fawcett Publications Inc., 1963; traduzione italiana di Mariapaola Ricci Déttore, Milano, Garzanti, 1970, p. 6):

 

«Rivedeva la scena, come un occhio imparziale sospeso sopra la riva del lago Dayker’s.  Scorgeva a vecchia auto scendere fra i cespugli sulla pista sabbiosa nella luce calda del meriggio, e fermarsi davanti al lago. Vedeva la donna scendere, lasciando aperta la portiera, per togliersi la gonna di tela a portafoglio e gettarla nella macchina. Aveva un costume da bagno bianco e i sandali. I capelli erano biondi, di un biondo cenere, e il corpo abbronzato. Il volto piuttosto stretto, il collo lungo,  i seni piccoli e la vita sottile le davano una falsa apparenza di fragilità. Ma i fianchi rotondi erano vasti e solidi, le cosce e i polpacci avevano curve vigorose. La vedeva schiacciare una zanzara con una manata sulla coscia soda, allungare il braccio per prendere la sua roba nell’auto, sbattere la portiera e dirigersi a passo rapido verso la piccola spiaggia sabbiosa. Stendeva l’asciugamano, deponeva sulla sabbia le altre cose,  si sfilava i sandali e andava verso l’acqua nascondendo i capelli chiari nella cuffia azzurra. La sua espressione era quella di una donna sola, un poco solenne, preoccupata: forse pensava a due uomini che l’amavano, e a quello che lei amava.

Poi lo sguardo neutrale si spostava e la vedeva nuotare allontanandosi dalla riva: la cadenza delle gambe era piena di forza, la bracciata sciolta,  la testa si voltava con ritmo preciso, senza sforzo, per respirare a fondo. Da quella posizione vedeva esattamente come era stata uccisa. Non aveva avuto alcuna possibilità di scampo. Poi guardò sott’acqua, nella tenebra densamente ambrata a metri e metri dalla superficie, la vide discendere  lentamente e sola, quando per lei fu finita; ruotava piano su se stessa, senza un segno tranne,  sul viso, il vuoto della morte, sprofondava fino alle alghe e alla melma del fondo, sobbalzava appena sotto la spinta di una corrente, quindi andava a posarsi abbandonata su n fianco, gli occhi sbarrati, il bianco dei denti appena visibile; un ultimo riflesso le contraeva la mano sinistra; qualche bollicina e poi il silenzio popolato d’alghe nell’oro cupo del fondo.»

 

Quello che ci interessa, però, non è se vi sia un debito consapevole del brano di Faletti da quello di MacDonald - il quale ultimo, sia detto per inciso, nella sua maggiore concisione e nell’atmosfera quasi onirica che lo contraddistingue, risulta di molto superiore quanto a originalità ed efficacia espressiva -, bensì il meccanismo psicologico che spinge milioni di persone a leggere dei romanzi basati su questo tipo di impostazione letteraria, con un compiacimento evidente e piuttosto morboso nella contemplazione dell’agonia e della morte delle vittime, che sono, spesso e volentieri, delle donne giovani e belle.

La prima osservazione, che sorge spontanea, è che l’uomo moderno è caratterizzato, anche in questo ambito, da una notevole dose di cattiva coscienza. Vogliamo dire che l’uomo antico e, in larga misura, anche l’uomo medievale, non si vergognavano della propria componente sadica. Nella Roma dei Cesari gli spettacoli dei gladiatori, che richiamavano folle strabocchevoli di ogni età e di entrambi i sessi, erano un inno esplicito al sadismo: si godeva delle sofferenze e della morte altrui, puramente e semplicemente, senza finzioni e senza ipocrisie. Non era una bella cosa, certamente; e bene ha fatto il cristianesimo a proscrivere quel genere di spettacoli. Però, gli istinti sono rimasti, perché appartengono alla natura umana; piuttosto che eliminarne le manifestazioni esteriori, che possono servire anche da valvola di sfogo, meglio sarebbe agire in profondità, affrontando le radici del problema: il che significa lasciar perdere le ricette universali e fare invece i conti con la consapevolezza individuale di ciascuno e sulla necessità di un personale cammino di chiarificazione e di redenzione dalla propria parte peggiore.

Anche nel Medioevo l’istinto sadico erompeva spesso e volentieri in manifestazioni pubbliche: esso era istituzionalizzato, sicché il singolo se ne sentiva solo in piccola parte responsabile. Quando i Trevisani violentarono e bruciarono vive la moglie e le figlie di Alberico da Romano, sotto gli occhi di lui; e quando, poi, gli uccisero in sua presenza, uno dopo l’altro, tutti i quattro figli maschi; e quando, infine, dopo averlo tormentato con pinze roventi, lo legarono alla coda di un cavallo e lo trascinarono lungo la strada sassosa, facendolo perire fra inenarrabili sofferenze, ciascuno dei suoi carnefici e anche i semplici spettatori, senza dubbio non solo gioirono ed esultarono, ma si sentirono anche dalla parte della giustizia, stante le consuetudini dei tempi. Il che non esclude che alcuni di essi abbiano poi, magari, fatto un devoto pellegrinaggio a qualche lontano santuario, per fare penitenza e tacitare il sordo rimorso che forse provava.

Tale miscuglio di ferocia e di contrizione è durato ancora alcuni secoli, fino a tutto il Rinascimento ed oltre. Poi è arrivato l’Illuminismo, con la sua pretesa di una bontà originaria dell’uomo e con la sua ambizione di ripristinare l’Eden sulla Terra, sotto la guida della ragione e con gli strumenti della scienza e della tecnica. A partire da allora, l’uomo occidentale si è profondamente vergognato dei suoi bassi istinti, della sua cattiveria, ma senza cercare la redenzione nel perdono di Dio o nella coscienza della propria fragilità morale; ha preferito fingere che alcuni individui siano malvagi senza remissione, demonizzandoli e dannandone in eterno la memoria, non si sa bene come e perché, in una galleria degli orrori che culmina con Hitler e l’Olocausto; mentre per tutti gli altri continuano a valere la presunzione di bontà originaria, almeno fino a prova contraria, e quindi anche il mito del paradiso in terra recato dal Progresso.

Per poter fare questo, l’uomo moderno ha spinto la sporcizia sotto il tappeto; ha nascosto, cioè, ipocritamente, le sue tendenze aggressive, sadiche e masochiste, relegandole nella sfera della vita privata; mentre in pubblico, a maggior gloria della civiltà borghese da lui ambiziosamente costruita, ostenta il massimo rispetto per i “buoni” sentimenti: l’altruismo, la benevolenza, la solidarietà - anche se, in genere, a parole piuttosto che con i fatti.

Il sadismo vero e proprio nasce, infatti, con l’Illuminismo: quello teorizzato dal Divino Marchese non è semplicemente il sadismo puro e istintivo degli antichi, è qualcosa di diverso e più sottile, anche più perverso: è il compiacimento della trasgressione, lo sberleffo al senso morale, la blasfemia verso la religione cristiana che cerca di porre un argine al fiume melmoso dei cattivi istinti. Il sadismo moderno, quindi, è un istinto non immediato, ma riflesso; non semplice, ma complesso; non naturale, ma culturale: il prodotto di una deliberata volontà di sovvertimento dei valori, di un compiaciuto rovesciamento del codice morale.

De Sade, però, non tenne conto dell’ipocrisia caratteristica della civiltà borghese: immaginò di poter incidere sulla pietra le nuove tavole della legge e non si rese conto che, per i suoi contemporanei, una cosa è quel che si po’ dire e fare in privato, un’altra cosa, e ben diversa, quel che si deve mostrare davanti agli altri. Fu punito, perciò, con la detenzione alla Bastiglia, mentre la sua filosofia si diffondeva a macchia d’olio, favorita da un secolo e mezzo di libertinismo, ma sempre con la tacita intesa che fosse lecito professarla solo nella penombra discreta della sfera privata.

Oggi, il sadico che si diletta della lettura delle opere di Sade, se vuole assistere alla tortura e all’uccisione di esseri umani al fine di eccitarsi sessualmente, deve ricorrere al mercato clandestino degli “snuff movies”, i film girati con attori veri, che vengono realmente torturati e uccisi, perché il godimento pubblico del sadismo, come avveniva nell’antica Roma, non è più concesso, anzi è severamente perseguito dal codice penale. Ciò non toglie che esista un fiorente mercato clandestino, che coinvolge anche minorenni e che alimenta, a sua volta, il filone criminale della pedofilia commerciale.

Altrimenti, l’istinto sadico si traveste con abiti un po’ più rispettabili e penetra nei salotti buoni della nostra società, per esempio nella forma dei romanzi “gialli” di Agatha Christie, dove la banalizzazione dell’omicidio e l’apparente innocenza della protagonista, una signora in età della buona borghesia che capita sempre “per caso” sulla scena dei delitti (che poi riesce ogni volta a risolvere brillantemente), tolgono alla violenza e al compiacimento di essa buona parte della loro carica dirompente e della loro componente sessuale, senza peraltro riuscire a nasconderle del tutto, almeno ad uno sguardo un po’ penetrante.

L’istinto sadico esiste ed è una componente dell’anima umana, insieme ad altre componenti di segno diverso e anche opposto: non vi è solamente fango in essa, come vorrebbero le correnti psicanalitiche che oggi vanno per la maggiore. La questione che si pone è come si debbano gestire tali istinti distruttivi e se sia preferibile una censura totale e per così dire preventiva, che li respinge più a fondo nella coscienza e li rende potenzialmente ancora più pericolosi, o se sia preferibile concedere loro una qualche via di sfogo, nel tempo stesso in cui si favorisce una presa di coscienza di ciascuno sulla propria verità interiore e, quindi, si avvia anche un processo di sublimazione di tali istinti, attraverso pensieri e comportamenti socialmente accettabili.

In ogni caso, ci si muove lungo un sentiero stretto come il filo di un rasoio, come lo è anche in un normale rapporto sessuale, nel quale perfino il linguaggio degli amanti durante l’abbandono tradisce la componente sadomasochista latente.

Un passo falso da una parte o dall’altra, e si cade facilmente nei due errori della negazione ipocrita o della colpevole indulgenza.