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Nella mappa concettuale dell’uomo moderno è venuta meno la nozione dell’Essere

di Francesco Lamendola - 22/10/2012



 Negli uomini d’ogni tempo è disegnata una mappa concettuale, nella quale compaiono le cose possibili e le cose desiderabili, così come quelle indesiderabili; mentre le cose impossibili non compaiono o sono rappresentate, al massimo, come limite di ciò che è alla loro portata, come soglia oltre la quale non possono né devono tentare di spingersi.
Nella mappa concettuale dell’uomo antico erano indicati, forse un po’ ingenuamente, ma con molta chiarezza, il Bene e il Male, così come quei luoghi dell’anima il cui raggiungimento era da considerarsi fausto e desiderabile; e, per converso, quelli scabrosi e pericolosi, dai quali era bene che egli si tenesse alla larga.
In particolare, vi era la nozione dell’Essere; non solo: vi era la nozione che tutto proviene dall’Essere e tutto all’Essere vuol fare ritorno; che, pertanto, l’intera geografia delle cose terrene non è che preparazione alla dimensione vera, quella dell’eterno e dell’assoluto, ove ciò che qui appare bello e desiderabile diventa un pallido riflesso della vera bellezza; ed era segnata anche la strada per arrivarvi: la metafisica, dal punto di vista concettuale, e la vita buona, la vita pura e santa, dal punto di vista pratico e quotidiano.
Ma i moderni hanno rifatto di sana pianta le loro mappe concettuali; hanno giudicato che, per secoli e millenni, gli uomini si fossero serviti di carte sbagliate, illusorie, assurde; che tutta la “Philosphia perennis” non fosse che una chimera, una fanfaluca, un gigantesco abbaglio collettivo, perché non si basava sulle idee chiare e distinte di Cartesio.
I moderni, pertanto, a partire da Francis Bacon, Cartesio e, più tardi, Kant, hanno buttato via la metafisica, nel cestino della carta straccia; hanno negato senso e valore a qualsiasi concetto non presenti i caratteri della chiarezza e della distinzione; hanno messo in dubbio o negato tutto quello che non può essere esperito con i sensi e dimostrato dalla ragione, secondo le modalità della logica e della matematica.
Le nuove mappe concettuali, pertanto, rappresentano un paesaggio molto più angusto e limitato di quello che appariva nelle vecchie e i loro autori si vantano di tale riduzione, perché sostengono che essa è ampiamente bilanciata e giustificata da un grado di certezza infinitamente maggiore; inoltre, sono carte che hanno un valore e una possibilità d’impiego esclusivamente quantitativi, servono cioè a indicare dove si debba andare, ma nulla dicono a proposito del perché.
Quanto alle cose impossibili, ogni senso di rispetto per il limite umano è caduto: ora che la tecnologia rende possibili cose fino a ieri impossibili, come la riproduzione degli esseri viventi come altrettante fotocopie, o come la modificazione genetica delle piante destinate ad uso alimentare, perché mai tali cose non dovrebbero essere sfruttate a fondo e reclamizzate come il non plus ultra della intelligenza e della capacità intellettuale dell’uomo moderno?
È scomparsa la nozione dell’Essere, è stata rafforzata a dismisura quella dell’Io: dovunque si volga lo sguardo, ci si imbatte nella volontà dell’Io, nelle passioni dell’Io, nelle sue brame e nei suoi timori, e perfino nel suo inconscio; pare che il Tu non esista più, o se pure esiste, che altro non sia se non il gioco di rifrazioni provocato da infiniti specchi nei quali l’Io si contempla, narcisisticamente e ossessivamente.
L’Io è diventato legge a se stesso e da ciò è derivato un estremo soggettivismo a livello conoscitivo e uno smaccato utilitarismo a livello pratico: non interessa più quello che è, ma quello che l’Io pensa, quello che l’Io vuole, quello che l’Io crede; e non interessa più quello che è giusto, ma quello che torna utile all’Io, puramente e semplicemente. Inutile aggiungere che il solo criterio dell’utile è quello materiale e quantitativo, non certo quello morale e spirituale.
Essendo scomparsa la nozione dell’Essere, è scomparsa anche la terminologia che ad esso si riferisce (tranne che per pochi addetti ai lavori, i quali ne fanno comunque un uso quasi unicamente archeologico) e sono scomparsi i pensieri e i sentimenti, nonché le pratiche della vita quotidiana, che da esso discendono. Di conseguenza, sono scomparsi, o stanno scomparendo, anche i pensieri veri, i sentimenti veri e gli autentici modi di agire, perché la nozione dell’Essere non è una sovrastruttura falsa e illusoria, come vorrebbero quasi tutte le correnti della filosofia moderna, ma il perno e il fondamenti di tutto ciò che esiste, tanto nella sfera del pensiero e del sentimento, quanto in quella della vita pratica.
L’essere delle cose, infatti, deriva dall’Essere in sé: niente Essere in sé, niente essere nelle cose; e allora non resta che l’esistente, ossia la mera nozione dell’accidentale, del casuale, del fortuito. L’evoluzionismo darwiniano, per fare un esempio, non è che un caso particolare di questa impostazione concettuale: venuta meno la nozione del’Essere, l’essere degli enti non è più veramente un essere, ma solo una parvenza di essere; un esistere fortuito e temporaneo, un vagare a casaccio fra il nulla dell’origine e il nulla della fine.
Se si chiede a un evoluzionista che senso abbia avuto l’avvicendarsi di innumerevoli forme di vita, tutte nate dal caso e tutte destinate a scomparire nel nulla, egli non avrà cosa rispondere; dirà, probabilmente che una tale domanda è priva di senso. Curioso circolo vizioso: la domanda sul senso della vita è priva di senso; eppure essi ci dicono che la vita umana è una vita originatasi dal caso, come quella di ogni altra specie, e destinata a finire nel nulla, come quella di ogni altra specie. E tuttavia non dovremmo domandarci il perché, dovremmo accontentarci di questa larva di esistenza cieca e inconsapevole, di questa caricatura della vita vera, dell’essere vero, che sono invece fatti di pienezza, di consapevolezza, di significato.
A questo proposito, osservava acutamente E. F. Schumacher nel suo interessante volume «Guida per i perplessi» (titolo originale: «A guide for the Perplexed», 1977; traduzione dall’inglese di Giuseppe Bernardi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1979, pp. pp. 16-21):

«Cartesio, che è il padre del razionalismo moderno, insisté sul fatto che “noi non dovremmo mai permetterci di essere convinti di qualcosa se non attraverso la priva della nostra ragione”, e mette bene in evidenza che sta parlando “della nostra ragione, e non della nostra immaginazione o dei nostri sensi”. Il metodo della ragione è di ridurre complesse e  oscure proposizioni  via via in proposizioni più semplici, e poi, partendo dalla comprensione intuitiva di tutte quelle che sono estremanebte semplici, cercare di salire alla conoscenza di tutte le altre facendo  via via il percorso inverso”. Si tratta di un programma concepito  da una mente insieme poderosa e paurosamente limitata.. […]
Non c’è nessuna garanzia che il mondo sia fatto  in modo tale per cui la verità indubitabile sia tutta la verità. E di quale verità si tratterebbe, di quale apprendimento?  Quello dell’uomo. Di qualsiasi uomo? Sono tutti gli uomini  “in grado” di afferrare tutta la verità?  Come Cartesio ha dimostrato, la mente del’uomo può mettere in discussione  qualsiasi cosa essa non afferri con facilità,  e alcuni uomini sono più inclini di altri a dubitare.
Cartesio ruppe con la tradizione, fece piazza pulita e si incaricò  di partire da capo, scoprendo ogni cosa da solo.  Questo tipo di arroganza divenne lo “stile” della filosofia europea.”Ogni filosofo moderno” osserva Maritain” è un cartesiano nel senso che guarda sé  come a chi parte da un assoluto, come chi avesse la missione di portare agli uomini una nuova concezione del mondo”. […] Lo scetticismo, una forma di disfattismo filosofico, divenne la principale corrente della filosofia europea, che insistette, non senza plausibilità, che la portata della mente umana era rigorosamente limitata e che non c’era scopo a interessarsi minimamente in questioni che sono al di là della sua capacità.  Mentre il giudizio tradizionale aveva considerato la mente umana debole, ma di confini aperti, in grado cioè di spingersi al di là di sé verso livelli sempre più alti, il nuovo pensiero assume l’assioma che il raggio d’azione della mente aveva limiti precisi e ristretti, che potevano essere chiaramente determinati, benché all’interno di questi limiti essa potesse contare su capacità praticamente illimitate. Dal punto di vista della mappa filosofica  questo significò un impoverimento davvero notevole: intere regioni di speculazioni umane, che avevano impegnato nei più intensi sforzi  le generazioni precedenti, smisero semplicemente di comparire sulla mappa. Ma ci fu un altro e anche più significativo depauperamento: mentre il pensiero tradizionale aveva sempre dato una rappresentazione  tridimensionale del mondo (simboleggiata dalla croce), dove era non solo significativo da di fondamentale importanza  distinguere, sempre e dovunque, tra livelli  d’essere “superiori” e “inferiori”, il nuovo pensiero si è sforzato con precisa determinazione, per non dire con fanatismo, di liberarsi della DIMENSIONE VERTICALE. Perché si sarebbero dovuti conseguire chiari e precisi concetti su nozioni  quale “superiore” e “inferiore”? Compito urgente della ragione non era forse  l’ordinamento delle misurazioni quantitative? […] Né la matematica né la fisica possono includere le nozioni quantitative di “superiore” e “inferiore”. La dimensione verticale scomparve così dalle mappe filosofiche, che d’ora in avanti si concentreranno su problemi alquanto improbabili quali “Esistono gli altri?” oppure “Ma è davvero possibile sapere qualcosa?” o “Hanno, gli altri, esperienze analoghe alle mie?”, e cessarono così d’essere di aiuto alle persone  cui s’imponeva l’arduo compito di scegliere la loro strada nella vita. […]
La perdita della dimensione verticale comportò che non era più possibile dare una risposta non utilitaristica alla domanda: “Cosa devo fare della mia vita?” La risposta poteva essere più o meno individualistico-egocentrica o più o meno social-altruistica, ma non poteva evitare di essere utilitaristica: “Cerca  di stare a tuo agio più che puoi” oppure “Opera per la massima felicità del più alto numero di persone”. E divenne impossibile definire la natura dell’uomo come diversa da quella dell’animale. Un animale “superiore”? Sì, forse, ma solo sotto alcuni aspetti; sotto molti altri, infatti, diversi animali potevano essere descritti come “superiori” all’uomo, per cui la cosa migliore era evitare termini come “superiore” e “inferiore”, a meno di non parlare in termini rigorosamente evoluzionistici. […]  Niente di tutto ciò conduce a una risposta utile alla domanda: “Cosa devo fare della mia vita?” Pascal aveva detto: “Nonostante tutte queste miserie, l’uomo vuole essere felice, e non può non voler essere tale”, ma il nuovo pensiero dei filosofi sostenne, con Kant, che “egli non può mai dire, con sicurezza e precisione, che  cosa egli desidera veramente” e non può “determinare con certezza che cosa lo farebbe veramente felice, perché per far questo dovrebbe essere onnisciente”. La dottrina tradizionale dava invece una risposta positiva e franca: la felicità dell’uomo sta nell’elevarsi PIÙ IN ALTO, di sviluppare le sue facoltà PIÙ ALTE, di prendere coscienza di cose via via SUPERIORI e, se possibile, di “vedere” Dio. Se si muove verso il basso, egli sviluppa solo le sue qualità inferiori, che ha in comune con gi animali,  e si rende profondamente infelice, giungendo fino alla disperazione.»

Ora, da quando è stato detto all’uomo che egli è un animale, che è solo un animale, che non c’è nulla, in lui, che non sia frutto di istinti e pulsioni animali o di adattamenti animaleschi del suo pur sviluppato cervello; da quando gli è stato detto che non possiede un’anima, né uno spirito, e che la sua vita, nata dal caso, è mortale e priva di senso; che non c’è nessun Dio, perché l’idea di Dio è il frutto del suo delirio d’angoscia o la rielaborazione nevrotica del suo complesso edipico; e che non è possibile alcuna comunione profonda con l’altro, perché ciascuno è chiuso e murato nella prigione solipsistica del proprio Io e nel cerchio stregato dei propri desideri e delle proprie paure: da quando gli è stato detto tutto questo da scienziati presuntuosi e da cattivi filosofi, l’essere umano ha perso la speranza dell’altezza, del qualitativo, del divino e si è ripiegato tristemente sulla sua parte inferiore, oltre alla quale non immagina più che vi sia altro.
Questo animale triste, mutilato della trascendenza che è parte costituiva del suo essere; questa creatura infelice, cui é stata interdetta la speranza, presentandola come follia e come aberrazione della mente, e cui è stata proibita la preghiera, dichiarata una superstizione o, peggio, una degenerazione e un delirio, è ormai una pallida caricatura di sé, dell’uomo vero. Troverà la forza di rialzare la schiena e di levare gli occhi verso l’Essere, sua eterna e splendente dimora?