Per Marx, il capitalismo ottocentesco era un vampiro che succhiava il sangue dei lavoratori: li sfruttava senza dare nulla in cambio. Invece per Sombart, il capitalismo del primo trentennio del Novecento ricordava un’ape capace di saper succhiare miele da tutti i fiori: ricambiava i sacrifici dei lavoratori con salari più altri e merci a buon mercato, la cui vendita rinvigoriva l’espansione del capitalismo.Come è noto, la metafora di Marx risale al primo libro del Capitale pubblicato nel 1867, quella di Sombart al terzo e ultimo volume di Capitalismo moderno, uscito nel 1927.
In realtà avevano entrambi ragione. Se l’Ottocento ci mostra un capitalismo che accumula senza troppi scrupoli sociali, nel Novecento, al contrario, ne rivela invece anche troppi. Certo, non tutti disinteressati, ma sicuramente frutto di una nuova consapevolezza, che si fa strada, per la prima volta, con Henry Ford. Quale? Che il sistema capitalistico, se vuole prosperare, ha bisogno di produttori e, soprattutto, di consumatori. Convinzione che si rafforzerà dopo la grande crisi economica degli anni Trenta. E troverà compimento nella seconda metà del secolo, in quelle forme fisiologiche (e non patologiche, come in alcuni casi) di individualismo protetto dal welfare. Forme capaci di conciliare alti consumi privati, protezione ed equità sociale, grazie alla costante crescita dell’economia capitalistica e del prelievo fiscale. Ma si tratta di politiche, queste ultime, oggi giudicate sospette, soprattutto dai cosiddetti liberisti.
Sombart, in certo senso, ha mostrato maggiori capacità prospettiche. Ma non in assoluto, dal momento che, come spesso si dice, ride bene chi ride ultimo. E Marx, a sua volta, potrebbe prendersi una bella rivincita…
A chi invece desideri approfondire l’ascesa e il trionfo dell’ homo consumans si consiglia la lettura dell’interessante volume curato da Stefano Cavazza ed Emanuela Scarpellini, Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento (Carocci, Roma 2006, pp. 246, euro 17,10), due giovani storici: Cavazza insegna a Bologna, la Scarpellini a Milano. Nonostante il taglio accademico del titolo, il libro è avvincente e ben scritto. E, quel che più conta, sostanzialmente privo di quei birignao gergali, che spesso rendono impervia, allo stesso specialista, la lettura di libri dedicati a temi pur intriganti.
Il “secolo dei consumi” viene raccontato e indagato in sette saggi. Una suddivisione, “a incastro” e per argomenti, che permette al lettore di ripercorrere, se non proprio cronologicamente, le modalità principali attraverso cui la società novecentesca si è trasformata in società dei consumatori.
Nel primo saggio, dedicato all’evoluzione dei luoghi di consumo, Emanuela Scarpellini, mostra come il passaggio dalla bottega ottocentesca ai giganteschi centri commerciali di oggi, sia legato a una gigantesca opera di razionalizzazione economica. Rivolta a garantire un migliore controllo delle rete distributiva e, soprattutto, evitare pericolose crisi di sovrapproduzione.
Il tema della razionalizzazione rimanda a quello del consumo, come necessità di prevenire e orientare i bisogni del consumatore. L’ argomento è affrontato da Paolo Capuzzo, il quale evidenzia come la caratteristica principale del capitalismo novecentesco rispetto a quello ottocentesco, così criticato da Marx, sia stata proprio quella di privilegiare il consumo rispetto alla produzione. E dunque di allargare, in modo programmato, la sfera dei consumatori.
Il problema dell’ “allargamento del mercato”, rinvia a quello del “tempo libero”, esaminato da Stefano Cavazza. Lo studioso, partendo dal dato della costante riduzione delle ore di lavoro (passate dalle 70 ore settimanali della fine dell’Ottocento alle 40-35 ore di oggi), spiega come certi diritti sociali, dalla pensione alle ferie pagate, siano stati funzionali allo sviluppo del consumismo di massa. Il necessario corollario sociale di un capitalismo, capace appunto, di suggere nettare da tutti i fiori: di trasformare l’accresciuto tempo libero in nuova e redditizia “industria”, grazie allo sviluppo del turismo e dei divertimenti di massa .
Il saggio di Silvia Salvatici si occupa invece del rovescio della medaglia: dei commessi, di coloro che sono, o meglio erano, al servizio dei consumatori. Un testo ricco di gustosi riferimenti storici (come ad esempio l’accenno all’articolo pubblicato nel 1932 sulla rivista della Rinascente, dove si spiegava alle commesse, il tratto psicologico della “clientela femminile”: la loquace, la laconica, la bisbetica, eccetera). Una vera arte, quella del vendere, oggi non più richiesta, o comunque resa superflua dalla diffusione del self-service.
Roberta Sassatelli affronta il tema dei rapporti tra differenze di genere e consumi. Un dato su tutti: l’ascesa del consumismo sarebbe solo apparentemente segnata dall’attenuazione formale delle diversità tra uomini e donne. Dal momento, come nota l’autrice, che oggi, malgrado la crescente libertà di shopping per entrambi i sessi, il consumo spesso riflette un’emancipazione femminile non qualitativa, fittizia: dove la differenza tra i sessi, si riaffaccia come ostentazione delle rispettive “quantità” di beni acquistati.
Del resto come mostra il saggio di Stephen Gundle, dedicato al rapporto tra consumo e spettacolo, è molto difficile sottrarsi alla pressione dei mass media. Basta accendere la televisione per accorgersi di quanto lo shopping sia legittimato, attraverso la reiterazione di modelli “divistici”. Dove il “fare spese” è presentato come stile di vita brillante e socialmente approvato. Di qui anche l’importanza dell’immagine mediatica delle marche, come evidenzia Adam Arvidsson, il cui studio sull’universo pubblicitario chiude il volume. Non si vende più il prodotto, ma lo stile di vita imposto da una certa marca (o brand) : “con le scarpe Nike, ci si sente attivi ed atletici, ma in un determinato modo (…) con la borsa Prada si è eleganti, in un determinato modo” (p. 215). E così via…
Un volta chiuso il libro, non si può però non pensare, a quanta strada abbiano percorso il capitalismo e i lavoratori dai tempi di Marx. Oggi in Occidente il benessere è diffuso, e le persone comuni programmano tempo libero, vacanze, shopping, come mai prima nella storia. Tuttavia l’imperativo al consumo ha i suoi lati negativi. Come giudicare, ad esempio, quel bisogno, da molti sentito come “dovere morale”, di cambiare automobile una volta all’anno? Oppure alla “necessità”, avvertita spesso dai giovanissimi, di sostituire ogni tre mesi il “vecchio” modello di telefonino con uno “nuovo”? C’è il rischio insomma, già intuito da Sombart, di chiudersi aridamente in se stessi, e valutare l’altro solo in funzione dei beni “esibiti”.
Resta poi un altro problema: la costante crescita dei consumi ha bisogno di stabilità sociale. Il “buon” consumatore necessita di certezze sociali: pensioni, tempo libero retribuito, stipendi e salari decorosi. O se si vuole, di alcune “dosi fisiologiche” di individualismo protetto, da “somministrare” attraverso l’uso accorto della leva fiscale e della spesa pubblica. Tuttavia l’introduzione di una sempre maggiore flessibilità, che i liberisti presentano come necessaria alla crescita del sistema, rischia - se spinta oltre un certo limite - di mettere in discussione la stabilità sociale, e dunque di influire in modo negativo sulla crescita stessa. E pertanto sulla sorte del capitalismo.
E qui, a coloro che hanno l' udito fine , non sarà sfuggita la risata omerica di Marx…
In realtà avevano entrambi ragione. Se l’Ottocento ci mostra un capitalismo che accumula senza troppi scrupoli sociali, nel Novecento, al contrario, ne rivela invece anche troppi. Certo, non tutti disinteressati, ma sicuramente frutto di una nuova consapevolezza, che si fa strada, per la prima volta, con Henry Ford. Quale? Che il sistema capitalistico, se vuole prosperare, ha bisogno di produttori e, soprattutto, di consumatori. Convinzione che si rafforzerà dopo la grande crisi economica degli anni Trenta. E troverà compimento nella seconda metà del secolo, in quelle forme fisiologiche (e non patologiche, come in alcuni casi) di individualismo protetto dal welfare. Forme capaci di conciliare alti consumi privati, protezione ed equità sociale, grazie alla costante crescita dell’economia capitalistica e del prelievo fiscale. Ma si tratta di politiche, queste ultime, oggi giudicate sospette, soprattutto dai cosiddetti liberisti.
Sombart, in certo senso, ha mostrato maggiori capacità prospettiche. Ma non in assoluto, dal momento che, come spesso si dice, ride bene chi ride ultimo. E Marx, a sua volta, potrebbe prendersi una bella rivincita…
A chi invece desideri approfondire l’ascesa e il trionfo dell’ homo consumans si consiglia la lettura dell’interessante volume curato da Stefano Cavazza ed Emanuela Scarpellini, Il secolo dei consumi. Dinamiche sociali nell’Europa del Novecento (Carocci, Roma 2006, pp. 246, euro 17,10), due giovani storici: Cavazza insegna a Bologna, la Scarpellini a Milano. Nonostante il taglio accademico del titolo, il libro è avvincente e ben scritto. E, quel che più conta, sostanzialmente privo di quei birignao gergali, che spesso rendono impervia, allo stesso specialista, la lettura di libri dedicati a temi pur intriganti.
Il “secolo dei consumi” viene raccontato e indagato in sette saggi. Una suddivisione, “a incastro” e per argomenti, che permette al lettore di ripercorrere, se non proprio cronologicamente, le modalità principali attraverso cui la società novecentesca si è trasformata in società dei consumatori.
Nel primo saggio, dedicato all’evoluzione dei luoghi di consumo, Emanuela Scarpellini, mostra come il passaggio dalla bottega ottocentesca ai giganteschi centri commerciali di oggi, sia legato a una gigantesca opera di razionalizzazione economica. Rivolta a garantire un migliore controllo delle rete distributiva e, soprattutto, evitare pericolose crisi di sovrapproduzione.
Il tema della razionalizzazione rimanda a quello del consumo, come necessità di prevenire e orientare i bisogni del consumatore. L’ argomento è affrontato da Paolo Capuzzo, il quale evidenzia come la caratteristica principale del capitalismo novecentesco rispetto a quello ottocentesco, così criticato da Marx, sia stata proprio quella di privilegiare il consumo rispetto alla produzione. E dunque di allargare, in modo programmato, la sfera dei consumatori.
Il problema dell’ “allargamento del mercato”, rinvia a quello del “tempo libero”, esaminato da Stefano Cavazza. Lo studioso, partendo dal dato della costante riduzione delle ore di lavoro (passate dalle 70 ore settimanali della fine dell’Ottocento alle 40-35 ore di oggi), spiega come certi diritti sociali, dalla pensione alle ferie pagate, siano stati funzionali allo sviluppo del consumismo di massa. Il necessario corollario sociale di un capitalismo, capace appunto, di suggere nettare da tutti i fiori: di trasformare l’accresciuto tempo libero in nuova e redditizia “industria”, grazie allo sviluppo del turismo e dei divertimenti di massa .
Il saggio di Silvia Salvatici si occupa invece del rovescio della medaglia: dei commessi, di coloro che sono, o meglio erano, al servizio dei consumatori. Un testo ricco di gustosi riferimenti storici (come ad esempio l’accenno all’articolo pubblicato nel 1932 sulla rivista della Rinascente, dove si spiegava alle commesse, il tratto psicologico della “clientela femminile”: la loquace, la laconica, la bisbetica, eccetera). Una vera arte, quella del vendere, oggi non più richiesta, o comunque resa superflua dalla diffusione del self-service.
Roberta Sassatelli affronta il tema dei rapporti tra differenze di genere e consumi. Un dato su tutti: l’ascesa del consumismo sarebbe solo apparentemente segnata dall’attenuazione formale delle diversità tra uomini e donne. Dal momento, come nota l’autrice, che oggi, malgrado la crescente libertà di shopping per entrambi i sessi, il consumo spesso riflette un’emancipazione femminile non qualitativa, fittizia: dove la differenza tra i sessi, si riaffaccia come ostentazione delle rispettive “quantità” di beni acquistati.
Del resto come mostra il saggio di Stephen Gundle, dedicato al rapporto tra consumo e spettacolo, è molto difficile sottrarsi alla pressione dei mass media. Basta accendere la televisione per accorgersi di quanto lo shopping sia legittimato, attraverso la reiterazione di modelli “divistici”. Dove il “fare spese” è presentato come stile di vita brillante e socialmente approvato. Di qui anche l’importanza dell’immagine mediatica delle marche, come evidenzia Adam Arvidsson, il cui studio sull’universo pubblicitario chiude il volume. Non si vende più il prodotto, ma lo stile di vita imposto da una certa marca (o brand) : “con le scarpe Nike, ci si sente attivi ed atletici, ma in un determinato modo (…) con la borsa Prada si è eleganti, in un determinato modo” (p. 215). E così via…
Un volta chiuso il libro, non si può però non pensare, a quanta strada abbiano percorso il capitalismo e i lavoratori dai tempi di Marx. Oggi in Occidente il benessere è diffuso, e le persone comuni programmano tempo libero, vacanze, shopping, come mai prima nella storia. Tuttavia l’imperativo al consumo ha i suoi lati negativi. Come giudicare, ad esempio, quel bisogno, da molti sentito come “dovere morale”, di cambiare automobile una volta all’anno? Oppure alla “necessità”, avvertita spesso dai giovanissimi, di sostituire ogni tre mesi il “vecchio” modello di telefonino con uno “nuovo”? C’è il rischio insomma, già intuito da Sombart, di chiudersi aridamente in se stessi, e valutare l’altro solo in funzione dei beni “esibiti”.
Resta poi un altro problema: la costante crescita dei consumi ha bisogno di stabilità sociale. Il “buon” consumatore necessita di certezze sociali: pensioni, tempo libero retribuito, stipendi e salari decorosi. O se si vuole, di alcune “dosi fisiologiche” di individualismo protetto, da “somministrare” attraverso l’uso accorto della leva fiscale e della spesa pubblica. Tuttavia l’introduzione di una sempre maggiore flessibilità, che i liberisti presentano come necessaria alla crescita del sistema, rischia - se spinta oltre un certo limite - di mettere in discussione la stabilità sociale, e dunque di influire in modo negativo sulla crescita stessa. E pertanto sulla sorte del capitalismo.
E qui, a coloro che hanno l' udito fine , non sarà sfuggita la risata omerica di Marx…