Apologia di uno storico dilettante
di Francesco Mario Agnoli - 31/10/2012
Il libro di Alessandro Barbero “I prigionieri dei Savoia”, appena pubblicato (ottobre 2012) da Laterza, non solo si propone di raccontare la vera storia del trattamento riservato dai piemontesi ai soldati napoletani caduti prigionieri nel corso della guerra che portò alla distruzione del Regno delle Due Sicilie, ma anche, soprattutto e fin dalla prefazione, di aprire una pesante polemica nei confronti di quegli esponenti del revisionismo risorgimentale che tale trattamento hanno descritto con toni assai cupi fino a proporre paragoni con quanto in seguito praticato dal regime nazista.
Trovandomi citato fra questi revisionisti a causa della prefazione (a suo tempo richiestami dall'Autore) al bel libro di Fulvio Izzo “I lager dei Savoia” (criticato anch'esso dal Barbero, ma, nonostante il titolo ricco di evocazioni, con qualche benevolo distinguo), mi sono posto il problema se, invece di imbastire una mia replica, non fosse più opportuno lasciare il compito ad altri, che, come Roberto Martucci, ugualmente tirato in ballo, possono fare valere agli occhi del cattedrattico Barbero la loro qualità di storici professionisti e colleghi. D'altra parte una risposta personale e diretta è quasi imposta dalla natura di una polemica condotta con toni così pesanti da sollecitarla in tempi brevi che non sarebbero compatibili con quelli richiesti da una replica complessiva ad un libro di oltre 360 pagine. Mi è, quindi sembrato opportuno rinviare ad un secondo momento una risposta più ampia se non vi avranno nel frattempo provveduto il Martucci o altri, per dedicarmi in prima battuta alle questioni che riguardano direttamente la polemica del Barbero nei confronti del ”magistrato di carriera” (ora a riposo) nonché revisionista dilettante (dal momento che non sono né meridionale, né meridionalista e neo-borbonico e nemmeno storico professionista, debbo ritenere di essere stato collocato in questa categoria).
Va precisato che questa replica pur ad oggetto limitato, per evitare nuove accuse di dilettantismo sarà “condotta criticamente sulle fonti”, e poiché nel caso queste sono costituite dal libro del Barbero, sulle sue affermazioni e sui dati che vi sono riportati. Il che, ovviamente, significa accettare la realtà del dato, ma, appunto criticamente, cominciando da quello solo in apparenza innocuo: le distinzioni fra “prigionieri di guerra” (i militari borbonici catturati o consegnatisi fino al 13 febbraio 1861, data della capitolazione di Gaeta), “sbandati” (i militari ancora a piede libero dopo tale data), “renitenti” (i giovani sottrattisi alle prime leve “piemontesi”), “refrattari” (i renitenti alle leve borboniche fino al 1860)), “disertori” (tutti coloro che fuggivano dopo avere indossato la divisa del Regio Esercito). Distinzioni tecnicamente esatte e storicamente non prive d'interesse, così come i provvedimenti del governo sabaudo che, ad arbitrio dei vincitori, trasformarono lo status dei militari napoletani da prigionieri di guerra a quello di generici carcerati o internati e infine di truppa italiana. Soprattutto distinzioni molto funzionali al progetto di chi, suddividendo e parcellizzando, mira a ridurre l'importanza del fenomeno, ma scarsamente rilevanti per un giudizio complessivo sul trattamento riservato dai Savoia ai soldati dell'esercito sconfitto, poco importa come classificati se la loro situazione dipese comunque dal servizio prestato nell'esercito borbonico e dal rifiuto dell'arruolamento in quello italiano.
Vanno, quindi, messi in conto come componenti di una medesima umanità dolente e perseguitata tutti i militari ex-borbonici (e a rigore nemmeno si dovrebbero escludere i “renitenti” quanto meno delle prime leve “italiane”) che comunque finirono nei “depositi” piemontesi, nel campo di S. Maurizio e soprattutto nella fortezza di Fenestrelle, anche se, da ultimo, per assegnazione ai reggimenti di punizione dei Cacciatori Franchi lì di stanza, fra i quali tutt'altro che per caso numerosissimi erano i meridionali.
Tornando a noi, le espressioni che mi vengono addebitate sono di avere definito “inferno carcerario”, la fortezza rupestre di Fenestrelle, e descritto i luoghi dove vennero deportati e detenuti prigionieri e sbandati come “il modello, di base di quell'universo concentrazionario di campi di deportazione e prigioni destinate ad attingere nel nostro secolo i supremi fastigi dei lager e dei gulag”, nonché di avere visto l'anticipazione di Pol Pott nella cittadella di Alessandria, nei depositi di Genova “e specialmente nel campo di concentramento e di rieducazione di San Maurizio Canavese nei pressi di Torino, e, infine, nell'ultimo cerchio di quell'inferno carcerario cui purtroppo è mancato un Solgenitsyn, la fortezza di Fenestrelle”. Affermazioni dalle quali lo storico piemontese deduce la mia ignoranza su “cosa fossero Fenestrelle e San Maurizio, quali le condizioni disumane in cui là il militare ribelle era incarcerato”, un'ignoranza dichiarata “profondamente offensiva innanzitutto verso la memoria degli uomini che passarono da quei luoghi, e che qui si pretende di onorare” (rilievo del tutto gratuito e da addebitare alla polemica ad ogni costo cui si abbandona il Barbero dal momento che gli unici legittimati a farlo, i discendenti o i compaesani dei carcerati di Fenestrelle, mai mi hanno rimbrottato per averne offeso la memoria).
E veniamo al dunque per dire anzitutto che, essendomi occupato della situazione dei “prigionieri dei Savoia” esclusivamente nella citata prefazione, non ho nessuna difficoltà a riconoscere di non avere previamente svolto ricerche d'archivio, che mi azzardo a credere non indispensabili per i prefatori. Senza dubbio l'autore di una prefazione non può permettersi, nemmeno lui, di sbrigliare la fantasia ed è tenuto, oltre che alla lettura dell'opera prefata, ad una certa conoscenza della materia, ma non anche allo spoglio degli archivi per il controllo di tutti i dati (impresa oltretutto non semplice per un revisionista dilettante, che, a differenza di un cattedrattico, non ha a disposizione studenti e collaboratori cui delegarlo).
In definitiva, le mie considerazioni sui lager sabaudi si fondavano sia su articoli e saggi pubblicati su “L'Alfiere”, una delle più colte e prestigiose riviste del Meridione (brillantemente diretta da un altro magistrato di carriera), e su altri periodici come Due Sicilie, sia sui libri di quegli stessi autori incorsi nei fulmini dello scrittore piemontese. Studiosi tutti che stimavo e stimo non solo per la conoscenza personale che ho con alcuni di loro, ma perché tuttora convinto che abbiano rappresentato la triste situazione dei militari borbonici prigionieri in modo assai più prossimo alla realtà del libro del Barbero pur ricchissimo di note e citazioni.
Per quanto mi riguarda, se non ho svolto ricerche d'archivio e non ho visitato il campo di rieducazione (insisto) di San Maurizio Canavese da tempo soppresso, sono però andato qualche anno fa a Fenestrelle, riportandone, nonostante la bella stagione e il mio amore per le montagne, un'impressione tutt'altro che piacevole a causa dell'asprezza dei luoghi e del grigiore della costruzione, resa angosciante dal ricordo delle molte persone che a forza vi hanno soggiornato per periodi più o meno lunghi. Una visita che mi ha reso evidente perché Fenestrelle sia stata classificata fortezza di correzione e utilizzata per molti anni come prigione di Stato, prima da Napoleone poi dalla monarchia sabauda e di nuovo nel secolo scorso, dopo un ritorno a sede di punizione e correzione per militari, dal fascismo.
Dalla mia visita ho riportato il ricordo di una scritta a grandi caratteri neri sopra una parete interna, nell'ala destinata al comando della fortezza di correzione: “Ognuno vale non per ciò che è ma per ciò che produce”, che forse lascia indifferenti gli storici di cultura azionista, ma che alla mia mentalità cattolica è sembrata orrenda, peggiore, come sintesi di un programma e di un'idea, del nazista “Arbeit macht frei”, di per sé innocuo e addirittura accettabile se non fosse stato stravolto e capovolto nell'attuazione.
Di conseguenza mi rifiuto di credere che sia stato per caso o per insufficienza di altre sistemazioni, come invece pretende il Barbero, che una grande quantità di soldati napoletani sia passata prima o poi per Fenestrelle non per venire soppressi, ma per esservi “corretti” (è assolutamente pacifico, e non occorreva il libro dello storico piemontese per ricordarlo dal momento che nessuno ha mai sostenuto il contrario, che il sistema concentrazionario sabaudo mirava non alla eliminazione dei ricoverati, ma al loro arruolamento e conversione, perché Vittorio Emanuele II e il suo governo, convintissimi di un prossimo attacco in forze da parte dell'Austria, avevano un disperato bisogno di uomini da mandare a combattere e morire per la grandezza della dinastia).
Comunque non si tratta soltanto di Fenestrelle, pur se questa temibile fortezza di correzione, stava al centro del sistema, e del campo d'istruzione creato nell'estate del 1861 a San Maurizio Canavese e definito dalla stampa dell'epoca “luogo di risanamento fisico oltre che morale”, ma di tutta una serie di “depositi”, soprattutto in Piemonte e in Lombardia (“centri di raccolta” vennero in un secondo momento istituiti anche a Livorno, Ancona, Rimini e Fano), dove, a cominciare dall'autunno 1860, vennero collocati i prigionieri napoletani.
Restando al 1860, già nella prima metà d'ottobre, di fronte alla difficoltà di sistemare a Genova, dove erano stati condotti per mare ammucchiati nelle navi alla bell'e meglio, i primi prigionieri di guerra (il Barbero quantifica in 8.000 uomini questa prima ondata, una parte dei quali subito dislocata ad Alessandria e a Bergamo), e al loro rifiuto di arruolarsi, il ministero della Guerra, pur riconoscendo che non si poteva per il momento procedere ad arruolamenti forzati, non trattandosi di “regi sudditi” per non essere stata ancora proclamata l'annessione, dispose che “ove il numero di quelli che rifiutano sia troppo grande e non possano essere ritenuti prigionieri (...) il Ministero penserà a mandarli a Fenestrelle”. Pochi giorni dopo il generale Carlo Boyl di Putifigari, incaricato della sistemazione, ricevette l'ordine di designare ”fra i prigionieri napoletani 300 od intorno dei più rivoltosi per essere mandati a Fenestrelle”. Ben conoscendo il significato del ricovero nella fortezza di correzione, il generale reputò eccessiva la misura e nel tentativo di evitarla rispose che i prigionieri napoletani, pur non volendo prestare servizio, erano quietissimi e che la loro ostinata fedeltà a Francesco II andava attribuita alla loro natura di “gente alquanto idiota, non scevra di pregiudizi e alquanto bigotta”.
Ciò nonostante, giunti a Genova altri 5.000 prigionieri, 1.200 vennero spediti a Fenestrelle, mentre altri furono collocati a Genova, Alessandria e Milano. Il Barbero, nell'evidente intento di sminuire il carattere particolarmente correttivo dell'invio a Fenestrelle, riferisce che il comandante della fortezza venne sollecitato a prendere “gli opportuni provvedimenti affinché ai prigionieri napoletani che vennero destinati a questa fortezza siano usati i riguardi possibili perché la rigidezza del freddo di codesto clima non riesca perniciosa alla salute di gente abituata alla mitezza dei climi meridionali”. Può sembrare un provvedimento ispirato a umanità e al desiderio di convincere con le buone i napoletani a prendere servizio nel Regio Esercito. Lo confermerebbe la successiva circolare del 20 novembre 1860, che detta le regole per il trattamento di tutti i prigionieri, che doveva essere ispirato a giustizia e addirittura ad amorevolezza “affine di animarli a prender servizio nell'Esercito” e dispone la distribuzione di “quegli effetti di vestiario e calzatura che siano riconosciuti veramente indispensabili” sia pure “scegliendoli di preferenza fra quelli di minor costo”. Purtroppo la realtà fu assai diversa a quanto risulta, non dai resoconti filoborbonici o dalla stampa cattolica dell'epoca, ma, pur se riguardano solo prigionieri collocati a Milano e non, direttamente, quelli di Fenestrelle, dai rapporti del generale Alfonso La Marmora a Cavour, che gliene aveva dato incarico, e al Ministero della Guerra subito prima e subito dopo la circolare del 20 novembre. Il La Marmora mostra profondo disprezzo per i soldati napoletani (del resto largamente condiviso, riconosce il Barbero, dai comandi del Regio Esercito, dai giornali e dall'opinione pubblica settentrionale in genere, e piemontese in particolare), definiti “canaglia” e “feccia” e descritti “tutti coperti di rogne e di vermina, moltissimi affetti da mal d'occhi o da mal venereo”. Con tutta la scarsa considerazione che prova per loro e la sua contrarietà al loro arruolamento nel Regio Esercito, il La Marmora critica però la decisione di collocare questi uomini nelle caserme in condizione prossima a quella dei “servi di pena”, adibendoli cioè a lavori di solito assegnati agli ergastolani, e chiede di assegnargli “un trattamento pari ai nostri soldati” e di non lasciarli uscire senza averli prima rivestiti e dotati di abiti “per la riflessione stessa che trovandosi così malvestiti e laceri potrebbe incoraggiarli di più a commettere delle bassezze”.
Insomma il La Marmora ci fa sapere che nel Castello Sforzesco i napoletani, pur essendo frammisti ai soldati “piemontesi” e in apparenza liberi (ma la libera uscita doveva esser espressamente concessa e lo era solo “ai più meritevoli”), erano malvestiti e laceri, svolgevano lavori da ergastolani ed erano trattati molto diversamente da quelli che si sperava diventassero i loro futuri commilitoni. Situazione destinata a protrarsi anche a mesi di distanza dalla cattura. Ne fornisce prova, certa perché del tutto involontaria, il quotidiano ministeriale torinese L'Opinione. In un articolo pubblicato il 4 dicembre 1860 lo scrittore milanese Cleto Arrighi riferì di essersi recato con un ufficiale al Castello Sforzesco e di avervi trovato circa duecento prigionieri napoletani “laceri e seminudi, che avrebbero fatto compassione ad un codino” e tuttavia ostinati, o per imbecillità o per fedeltà al loro Re, a non prendere servizio, pur sapendo che se si fossero decisi a “giurare alla nuova bandiera italiana” avrebbero subito ricevuto vestiti, paga e tabacco.
Una testimonianza che costringe il Barbero ad ammettere che “sembra” che ci fosse “davvero il piano di forzarli ad arruolarsi a furia di maltrattamenti”. Il dubbio è di troppo tanto più che è ragionevole supporre che la situazione del Castello Sforzesco fosse migliore di quella della caserma di S. Girolamo, dove erano stati “ricoverati” “i più turbolenti e decisi alla resistenza” e dove il 1° dicembre si erano verificati incidenti fra carabinieri e napoletani, che avevano opposto resistenza, dapprima passiva poi usando come armi le panche e le gamelle del rancio, al trasferimento presso reparti dislocati in diverse località lombarde.
Le notizie per Alessandria, Bergamo, Genova, Biella (dove pure si ebbe un ammutinamento di soldati napoletani che le autorità militari ritenevano invece pronti ad arruolarsi) e, appunto, Fenestrelle sono, per questo aspetto, più scarne, ma non c'è ragione di pensare che le cose andassero diversamente, dal momento che anche in questi “depositi” e fortezze i prigionieri borbonici si rifiutavano di passare all'esercito italiano.
Per quanto in particolare concerne Fenestrelle e i riguardi usati ai napoletani che vi erano destinati è lo stesso Barbero a descrivere già nella polemica premessa al suo libro la “colonna di soldati in lacere uniformi turchine, disarmati e sotto scorta”, che la sera del 9 novembre, “marciava lungo la tortuosa strada alpina che risale la Val Chisone, nelle montagne piemontesi, verso la fortezza di Fenestrelle, costruita a 1200 metri di altezza sul livello del mare”, e a spiegare che si trattava di “prigionieri dell'esercito borbonico catturati per lo più alla resa di Capua il 2 novembre, trasferiti per mare da Napoli a Genova dove erano approdati il giorno prima, poi trasportati in treno fino a Pinerolo e ora avviati a piedi, giacché non c'era altro mezzo, alla fortezza. Esausti per l'interminabile marcia, arrivarono a Fenestrelle per tutta la notte, a drappelli sbandati. Uno di loro morì appena giunto, nei giorni seguenti ben 178 su 1186 vennero ricoverati in ospedale e altri quattro vi morirono”.
A parte queste amorevolezze del governo e dei comandi militari piemontesi, è dunque provata l'esistenza di una quantità di luoghi, in un primo tempo collocati tutti in Alta Italia (ne vennero poi realizzati anche in Meridione, con una netta preferenza per le piccole isole, nelle quali i prigionieri potevano essere più facilmente controllati, non avendo modo di allontanarsene), dove i napoletani venivano collocati e spostati dall'uno all'altro in condizioni che si possono benevolmente definire di estremo disagio. Difficile allora comprendere perché il Barbero trovi fuori luogo la definizione di “universo concentrazionario”, non bastando certo il fatto che i luoghi di custodia fossero non “campi”, ma fortezze e caserme, e che l'unico campo, quello di San Maurizio fosse (come ha l'ardire di scrivere nel suo attaccamento al dato formale) “un campo di addestramento per truppa italiana e non campo di, prigionia”, quando quella “truppa italiana” di 6.000 ex-militari napoletani non veniva per prudenza fornita di armi nemmeno durante le esercitazioni, riceveva un rancio immangiabile e pochi abiti, ed era sorvegliata da due battaglioni di fanteria “piemontese”.
Il termine “concentrazionario” viene da qualche decennio usato per individuare una particolare realtà, quella, appunto, di un mondo separato da quello normale, nel quale vengono collocati, non per loro libera scelta, soggetti avviati dal potere ad un destino particolare, che, nei casi estremi, può essere l'eliminazione fisica, in altri il lavoro forzato (laogai cinesi) in altri la rieducazione politica e l'arruolamento. L'universo concentrazionario piemontese mirava a convincere il maggior numero possibile di napoletani ad entrare nel Regio Esercito e a rimanervi fino al termine della ferma senza fare storie. Per questo il numero dei morti, a Fenestrelle, nei depositi e nel campo di S. Maurizio, comunque consistente perché le condizioni sanitarie erano quasi dovunque pessime e negli spostamenti non si usavano, come si è appena visto, troppi riguardi, risulta infinitamente più basso che in altri universi finalizzati invece alla soppressione.
Si è detto che il centro del sistema era la fortezza di Fenestrelle. Se dovunque le condizioni di detenzione, educazione e addestramento erano cattive, nella fortezza di correzione erano necessariamente pessime. Difatti, ad esempio, il destino dei prigionieri (o, se si preferisce, ma la sostanza non cambia, formalmente ex-prigionieri) addestrati (sotto sorveglianza armata) nel campo di S. Maurizio era di essere inviati ai reggimenti del Regio Esercito per quelli che, progrediti nell'istruzione, “mostrino di aver acquistate le qualità che si richiedono a formare de' buoni soldati”, mentre gli altri “si manderanno a Fenestrelle, per esservi tenuti sotto più rigida disciplina, finché si correggano e diventino idonei al servizio”.
Ugualmente difficile comprendere, questa essendo la situazione, la ragione per la quale il Barbero ritenga inappropriata la definizione di “inferno carcerario” per la fortezza di Fenestrelle, pur riconoscendo che alcuni napoletani vi morirono e che altri, arruolati nei Cacciatori Franchi, vi rimasero per tutto il tempo della ferma, cioè per anni. Certamente non basta la sua pretesa di non tenere conto dei napoletani inviati a Fenestrelle in veste di soldati italiani assegnati ai Cacciatori Franchi per quelle stesse ragioni formali che dovrebbero fare del campo di S. Maurizio un semplice “campo di addestramento per truppa italiana”.
Non vorrei deludere del tutto il Barbero sulle virtù correttive del suo lavoro e debbo riconoscere che dopo la lettura delle 360 faticose pagine che lo compongono se dovessi riscriverla modificherei due punti della mia contestata prefazione. Il primo là dove ho recepito la notizia che “la stragrande maggioranza e addirittura la quasi totalità fra i semplici soldati, i sottoufficiali e gli ufficiali dei gradi inferiori rifiutò l'arruolamento” senza precisare che la situazione cambiò, sia pure controvoglia, quando la legislazione piemontese rese obbligatorio l'arruolamento. Il secondo riguarda gli ufficiali napoletani dal momento che, secondo quanto scrive il Barbero, “nessuno di loro passò per Fenestrelle, né per San Maurizio né fu inviato ai Cacciatori Franchi”. Non sono in possesso di dati in contrario. Tuttavia, pur se quanto ho scritto può essere inesatto per Fenestrelle, resta il fatto che anche ufficiali napoletani subirono la prigione come quelli che, pur avendo avuto la garanzia di ricevere il trattamento patteggiato al momento della capitolazione per i loro colleghi della guarnigione di Gaeta, vennero invece arrestati, tenuti in detenzione a Napoli e, quindi, internati a Ponza, dove si perdono le loro tracce, che, a quanto si deduce da un accenno dell'autore, presero la via della giustizia penale. Altri poi vennero arrestati, fra la fine del 1860 e l'inizio dell'anno successivo, d'ordine del luogotenente Luigi Carlo Farini, romagnolo, che li definiva “svergognati” e “vile e disonorata gente”, e inviati i primi (tutti di grado molto elevato) a Genova, gli altri in due depositi istituiti appositamente per loro a Savona e a Chiavari. Si può immaginare che, nonostante i pregiudizi classisti dell'epoca, il trattamento riservato a questi ufficiali napoletani, considerati, a differenza dei piemontesi, non gentiluomini, ma “disonorata gente” non sia stato molto migliore di quello inflitto alla bassa forza.