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Nel rapporto con l’animale il bambino può maturare, ma solo a ben precise condizioni

di Francesco Lamendola - 03/11/2012

 


 

Fra tutte le stucchevoli leggende che l’uomo moderno si è creato intorno al mito della natura, dopo averla aggredita e manipolata in mille modi, la più insulsa e pericolosa è quella che vorrebbe ci fosse un’intesa automatica, istintiva, quasi perfetta fra il bambino e l’animale, specialmente fra il bambino e il cucciolo di animale.

Come sempre, si parte da un’ottica rigidamente antropocentrica e si dà per scontato di sapere che cos’è l’animale, come lo si può avvicinare, cosa gli piace e cosa no, perché si presuppone che l’uomo, unico essere dotato di ragione, è naturalmente in possesso della maniera giusta per interagire con gli altri enti e con le altre creature viventi; o, per dir meglio, che qualunque maniera sia giusta, perché egli, appunto, essendo la specie privilegiata fra tutte, è anche depositario, rispetto alle altre, di quel sapere che esse, invece, riguardo a lui ignorano.

Un tipico esempio di ciò è il modo in cui l’uomo crede di poter comunicare facilmente con l’animale, anche solo a livello gestuale: non gli passa per la mente che un determinato gesto, come quello di accarezzare il pelo dell’animale, possa essere interpretato da quest’ultimo in maniera diversa da come lo interpreterebbe un altro essere umano, per esempio come un gesto potenzialmente ostile; e solo allorché si verificano tragici casi, nei quali un cane morde a morte un bambino che lo aveva carezzato, solo allora si pone la domanda sul tipo di messaggio che, involontariamente, era stato mandato all’animale, che, dopotutto, non essendo un essere umano, forse possiede un codice linguistico completamente differente dal nostro.

Eppure, gli antropologi e gli etnologi sanno benissimo che perfino tra due diverse culture umane esistono grandissime differenze di interpretazione dei messaggi gestuali, perché i codici semantici sono diversi e perfino opposti: e quel gesto che in una cultura è simbolo di amicizia, in un’altra può significare aggressività, sfida, minaccia. A maggior ragione è chiaro che l’uomo sbaglia di molto se immagina che esista una dimensione universale, interspecifica, del linguaggio o se la sua supposta superiorità nel mondo dei viventi possa automaticamente compensare la sua ignoranza dei codici comportamentali delle altre specie.

La letteratura, e soprattutto il cinema e la televisione per l’infanzia hanno aggravato questo problema, perché hanno creato una subcultura nella quale gli animali sentono, pensano e agiscono esattamente come gli uomini e dove dei grandi predatori, come tigri, leoni e orsi, finiscono per ridursi a simpatici gattoni o allegri compagni di giochi dell’uomo; il che viene presentato ai bambini, già inclini ad accogliere le informazioni senza alcun vaglio critico, con assoluta naturalezza, col risultato che essi, trovandosi di fronte ad un animale vero, si comporteranno con esso esattamente come fanno i personaggi di una fiaba o di un fumetto.

Avvicinare un bambino al mondo degli animali, inoltre, presenta una ulteriore difficoltà: gli animali con i quali è possibile farlo, infatti, sono necessariamente animali domestici oppure animali selvaggi imprigionati (nelle gabbie degli zoo, per esempio); né gli uni, né gli altri, ma specialmente i primi, sono animali allo stato “naturale” e, pertanto, il loro comportamento e le loro possibili reazioni sono soggetti a un margine d’imprevedibilità, accresciuto dalla falsa sicurezza dell’uomo che, credendo di averli perfettamente sotto controllo, sottovaluta gli effetti che la domesticazione forzata o la cattività possono aver provocato nella loro psicologia.

In particolare, si dà per scontato che, per un bambino, avere un animale domestico sia una cosa bella e desiderabile e che rappresenti per lui una preziosa opportunità formativa.

In realtà, le cose non stanno sempre in questi termini: quello che conta, infatti, nel rapporto fra un bambino e un animale domestico, è che vi sia un certo equilibrio affettivo: che il bambino, cioè, non veda l’animale solo come un giocattolo, per giunta temporaneo, del quale si disferà non appena sarà scemato il suo entusiasmo per esso; anzi, che non lo veda affatto così, ma come una creatura vivente che possiede un suo statuto ontologico, diverso da quello dell’uomo, e una sua dignità; per cui, una volta presolo in caso, l’uomo contrae nei suoi confronti un impegno, al quale sono connessi doveri e responsabilità ben precisi.

In altre parole: se il bambino non viene indirizzato a responsabilizzarsi nei confronti dell’animale, abituandosi a rispettarlo, a non eccedere con le manifestazioni d’affetto, a non cadere neanche, poi, nell’eccesso opposto, quello di trascurarlo ed ignorarlo; se non gli viene insegnato che deve prendersi cura dell’animale, lo deve nutrire, lo deve accudire, nel caso di un cagnolino lo deve portare a spasso, perché esso ha bisogno di aria e moto; che deve anche insegnargli, secondo certe modalità, a rispettare l’ambiente, a non sporcare dovunque, a non prendersi eccesiva confidenza con gli umani, per esempio salendo sui letti e magari intrufolandosi sotto le coperte; se il bambino non viene preparato ad essere consapevole di tutte queste cose, allora il suo rapporto con l’animale partirà su basi sbagliate e non farà bene né all’uno, né al’altro.

Non farà bene all’animale perché, evidentemente, ridotto a un ninnolo domestico, subirà il destino di tutti i ninnoli, prima sempre al centro di tutto, poi dimenticato in un angolo; e neppure al bambino, il quale potrebbe sviluppare dinamiche negative, l’egoismo, la tendenza alla manipolazione e, in certi casi, perfino il gusto al maltrattamento e alla crudeltà. Quante volte si viene a sapere di vere e proprie torture perpetrate da bambini ai danni di qualche animale? Il bambino, infatti, possiede un innegabile potere nei confronti dell’animale domestico, specialmente quando è un cucciolo, ed è portato ad abusarne, se l’adulto non lo coregge. Vi sono animali domestici che sopportano pazientemente ogni sorta di molestie da parte dei loro piccoli e capricciosi padroni; ma vi sono anche dei casi drammatici, come abbiamo detto più sopra, in cui si giunge all’aggressione del bambino da parte dell’animale.

È difficile, se non impossibile, capire da che cosa dipenda il fatto che la linea della sopportazione venga superata dall’animale; è possibile che quest’ultimo senta, istintivamente, quando le molestie gli vengono fatte con relativa “innocenza, nel qual caso le tollera, anche perché sono unite e mescolate a sincere manifestazioni di affetto nei suoi confronti; ma esiste comunque un limite che non può essere oltrepassato, perché l’animale, se arriva a sentirsi gravemente minacciato, reagisce attaccando, non solo verso gli estranei, ma anche verso adulti o bambini che conosca da tempo, cioè i suoi cosiddetti padroni.

Quando il bambino viene accompagnato in un negozio di giocattoli e viene invitato a scegliersi un gioco, egli vede il padre o la madre che pagano il negoziante e si convince che, a partire da quel momento, l’oggetto è suo, senza limiti né condizioni; e la stessa cosa tende a pensare quando si reca in un negozio di animali ed i suoi genitori gli comprano un gattino, un criceto, un pesce rosso, un uccello canoro. Egli dirà, e soprattutto penserà, che quello è diventato, dopo il rito dell’acquisto, il “suo” gatto, il “suo” criceto, e riterrà di non essere soggetto ad alcun dovere nei suoi confronti, ma solo depositario di diritti. Ebbene, gli adulti dovrebbero fargli capire che non è così, che un gattino o un criceto vivi non sono la stessa cosa che un gattino o un criceto di pezza e che, quindi, egli sta impegnandosi in un rapporto molto serio con una creatura vivente, nella quale esistono regole, responsabilità, doveri da rispettare.

Osserva, in proposito, il giornalista ed esploratore subacqueo francese Philippe Diolé, già collaboratore di Jacques-Yves Cousteau, nel suo libro «Gli animali malati d’uomo. I rapporti dell’uomo con il mondo animale» (titolo originale: «The Errant Ark, Man’s Relationship with Animals», 1974; traduzione dall’inglese di Sergio Frugis, Milano, Rizzoli Editore, 195, pp. 56-63):

 

«La perdita di contatto reale con gli animali ci ha portato a fabbricare di loro immagini nella nostra mente; molto spesso queste immagini non sono solo svuotate di un contenuto  reale ma addirittura pericolosamente ingannevoli. I bambini leggono storie di leoni che parlano o vedono alla televisione storie di jungla in cui questi predatori temibili vengono presentati  come dei semplici micetti. Noi adulti abbiamo passato a loro l’afflizione per la quale più o meno siamo tutti siamo ancora travagliati - la neurosi nota in America come il complesso di Bambi.

Tuttavia, sebbene può anche darsi che noi siamo riusciti a cambiare gli animali che teniamo in cattività, nulla sta a dimostrare che un tale cambiamento di manifesto sotto forma di una maggiore tolleranza per gli esseri umani da parte degli animali stessi o quantomeno di un desiderio di pacifica coesistenza con la razza umana. Niente nel passato di un leone o di un orso vi è che li predisponga a sopportare pacificamente lo spettacolo di esseri umani che possano in fila davanti alle loro gabbie. La cattività non ha insegnato certo loro a risparmiare i giovani esseri umani che arrivano a tiro delle loro zampe. Un animale selvaggi è sempre un animale selvaggio e nemmeno Walt Disney può insegnare a un vero leone le buone maniere o a un orso polare i modi cortesi. È perfettamente comprensibile che un bambino voglia avere come compagno un leoncino e io penso che sarebbe inutile proibire semplicemente a un bambino di ottenere una cosa del genere. Si deve spiegare che un grosso felino non è una semplice versione ingrandita di un gatto di casa e che star vicino a un animale del genere è notevolmente pericoloso. Tutti questo non ispirerà, come alcuni genitori credono, al bambino una paura neurotica per gli animali ma semplicemente metterà il piccolo in contatto con la realtà e gli insegnerà il rispetto per l’indole e la potenza di questi animali, rispetto che dopo tutto è loro dovuto.

L’accarezzare gi animai è una vera e propria arte ma delicata, un’arte che anche i più esperti domatori  esercitano con grande cautela. Chiunque abbia avuto una certa esperienza  con gi animali sa che qualunque movimento esitante, timido, da parte dell’uomo suscita un senso di allarme - vale a dire l’istinto aggressivo - nell’animale. […] L’intera questione di ciò che piace o non piace a un animale è un fatto piuttosto misterioso. Dopo decine di migliaia d’anni di vita in comune noi ancora dobbiamo imparare quasi tutto sull’argomento come anche in altri. È come se animali e uomo  vivessero in due mondi diversi senza comunicazione, separati da un mare d’ignoranza. […]

Occorre una buona dose di provocazione prima che l’istinto di un animale selvatico a fuggire  venga sopraffatto dall’istinto di attaccare. Se noi potessimo soltanto persuaderci della verità di questa affermazione  e comportarci di conseguenza avremmo risparmiato molti errori tragici. Per evitare tali errori, noi dobbiamo innanzi tutto riconoscere che le reazioni di un animale non sono le stesse di un essere umano eppoi dobbiamo tentare di scoprire che cosa fa scattare queste reazioni. Probabilmente il peggior nemico che un uomo deve affrontare in presenza di un animale è la sua stessa paura. La paura umana è la spada di Damocle dei domatori. Gli animali sentono - cioè odorano -  la paura umana. […] Un bambino deve scoprire che cos’è veramente un animale. Egli sa soltanto che non è un oggetto e che non è un uomo adulto.  Ma perché possa situare l’animale al posto giusto, deve incontrare una certa resistenza,  da parte dell’animale. Il bambino deve realizzare che esso non è solo un essere vivente ma un essere vivente con una sua propria natura. Per convincerci ad ammettere l’indipendente esistenza degli animali dovremmo trovarci in uno stadio  dello sviluppo umano che oggigiorno è sconosciuto, almeno in genere.

Konrad Lorenz ha dichiarato, con comprensibile orgoglio, che nessuno dei suoi figli ha mai avuto paura degli animali  e che nessun animale ha mai avuto paura dei suoi figli.  Egli sostiene anche che mancherà sempre qualcosa nella vita di un uomo  che da bambino non sia vissuto con gli animali. Io sono dello stesso parere del dottor Lorenz. Ma devo anche spiegare al lettore che i figli di Lorenz sin dai primi anni, hanno vissuto cin sei cani,  un gatto, un tasso, alcune  oche e un dingo (una specie di lupo australiano). In circostanze del genere, molto probabilmente Lorenz ha potuto stabilire che “il contatto con gli animali è la porta aperta verso la natura”. Oggigiorno, però, una porta simile non è necessariamente aperta ai bambini che vivono in città. Ciò che invece avviene è che il bambino si forma idee errate  che prende dagli adulti che lo circondano, a proposito dell’animale come oggetto.  L’animale viene quindi momentaneamente oppresso dall’affetto e poi  abbandonato quando la famiglia se ne va in vacanza. Oppure, se il bambino è una femmina, il cagnolino e il gattino  diventano la bambola o addirittura il “bambino” - quei classici sostituti di un inconsapevole desiderio di amare e di essere amati.

Non si sarà mai detto abbastanza e soprattutto abbastanza apertamente , che in alcuni casi - i casi del genere diverranno sempre più frequenti - la presenza di un animale nella casa può fare più male che bene nello sviluppo emotivo del bambino. […] Ciò che è sicuro è che i bambini hanno la necessità di toccare una palla di pelo o di piume. Può darsi che il calore  animale sia un completamento o un sostituto del calore materno. La conseguenza di un simile contatto può quindi essere sia desiderabile che indesiderabile. Tutto ciò può provocare un profondo attaccamento emotivo o rappresentare una manifestazione dell’ego - una tendenza al trattamento egoistico dell’animale o addirittura al sadismo.

Talvolta questo tipo di reazioni viene incoraggiato dai genitori i quali ritengono di compiere il proprio dovere nel procurare al loro figliolo  molti animali. Ciò che di solito in casi del genere succede è che tutti gli animali  vengono trascurati o maltrattati e divengono infelici. Occasionalmente si rivoltano ai loro giovani padroni a meno che non abbiano la fortuna di morire prima di raggiungere uno stadio del genere.  […] Un attaccamento tra un fanciullo e un animale è desiderabile solo se l’affetto del fanciullo è duraturo e sincero  e se lo si rende consapevole che questo rapporto comporta delle responsabilità. Ma poiché i genitori sono n genere essi stessi inconsapevoli dell’esistenza di tali responsabilità, vi è ben poca speranza che il fanciullo possa apprendere qualcosa da loro.»

 

In conclusione, quando pensiamo al rapporto che si può instaurare fra un bambino, che poi potrebbe essere nostro figlio o nostro nipote, e un animale, dobbiamo sforzarci di uscire dalla retorica letteraria e televisiva e soprattutto dal nostro abituale modo di pensare, così segnato dalla presunzione antropocentrica, e tener presente che il bambino non cresce, non matura, ma rischia di indulgere nel vizio narcisistico di coltivare il proprio ego ipertrofico, se gli viene consegnato come una proprietà inerte un gatto, un cane, un qualsiasi animale domestico, quasi si trattasse di un puro e semplice oggetto di curiosità e di divertimento.

Specialmente il bambino di città, specialmente il bambino che vive in appartamento e che passa molte, troppe ore davanti allo schermo del televisore o del computer, ignora la dimensione autonoma dell’animale, la specificità del suo statuto ontologico, il fatto che si tratta di una creatura che, per la circostanza precisa di essere stata accolta in casa, richiede cure e attenzioni, le quali, peraltro, devono essere somministrate nella maniera giusta, e cioè non cercando di trasformare l’animale in una caricatura dell’uomo.

Il bambino deve capire che l’animale non è un giocattolo e neanche un fratellino minore; che è, semplicemente, una creatura d’altra specie; che merita rispetto, pur se non possiamo capire sino in fondo il suo pensare e il suo sentire; che, pur amandola, egli non deve farla mangiare in tavola, o prenderla con sé a letto, perché, oltre che poco igienico, ciò significherebbe forzare il suo statuto ontologico e imporgli un ruolo innaturale, con danno di entrambi; che le sue necessità vanno rispettate anche quando comportano dei sacrifici, come quello di rinunciare, eventualmente, a una gita, se l’animale non può venire con lui e se non c’è nessun altro che possa prendersene cura durante la sua assenza.

Solo a tali condizioni il rapporto con l’animale rappresenta, per il bambino, una esperienza formativa; diversamente, sarebbe meglio che il bambino si accontentasse di leggere le fiabe degli animali o di seguire le avventure di Yoghi o di Topolino nei fumetti e alla televisione.

Peraltro, della produzione letteraria e cinematografica in materia di bambini e animali non si può fare di tutta l’erba un fascio. Alcune opere sono molto educative, perché insistono sull’aspetto della responsabilità; responsabilità che può assumere anche forme assai dolorose e persino drammatiche, perché non è detto che riguardi solo il rapporto del bambino con l’animale, ma può inserirsi nel contesto più ampio della famiglia, dei suoi bisogni anche di tipo economico e materiale, ponendo il bambino stesso davanti ad un tragico dilemma etico.

Un buon esempio in proposito è il romanzo di Marjorje K. Rawlings «Il cucciolo», del 1938, da cui il regista Clarence Brown ha tratto, nel 1946, un vero e proprio capolavoro del cinema per l’infanzia, pieno di delicatezza e di struggente, ma virile poesia.