Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / In difesa della “persona”

In difesa della “persona”

di Giuseppe Gorlani - 09/01/2013


 

L’etimologia del termine “persona” è controversa. Alcuni la associano al greco “prosopon”, “volto, presenza, maschera, effige, posizione o grado sociale, individuo”; altri ritengono tale accostamento fuorviante e la riconducono al latino “pars”, “parte, funzione, ufficio”, ravvisandone la radice nell’antico babilonese parsu, “compito, parte, ufficio”.(1) Sia come sia, i due etimi non sono in contrapposizione: entrambi rimandano a quanto caratterizza un essere umano, distinguendolo dai suoi simili e dagli altri esseri viventi.

“Persona” sarebbe dunque chi adempie al compito individuale che il Logos gli ha assegnato. In simile ottica l’uomo potrebbe essere concepito come una sorta di “tramite”, una “maschera”, una micro-epifania del divino virtualmente consapevole di sé. Salta subito evidente agli occhi la consonanza col “dharma” (“qualità intrinseca, legge, dovere”) o, meglio, con lo “svadharma”,  «inerente alla natura propria di un essere»,(2) a cui ciascun uomo si deve conformare. Se è vero, come suggerisce Marius Schneider, che le affinità fonetiche ineriscono l’essenza,(3) con “per-sona” ci si può benissimo riferire all’ente attraverso il quale si manifesta, in modo più o meno consapevole, il Suono, il Soffio primordiale, “Vac”, la Parola-Luce atemporale.

Il concetto di persona ha assunto una notevole rilevanza nel Cristianesimo, ma non si deve credere che esso appartenga esclusivamente a questa tradizione religiosa. Si sa come il Cristianesimo abbia assunto pressoché integralmente il linguaggio filosofico dell’antica Grecia e, sotto il profilo dottrinale, abbia riproposto, storicizzandolo, il mito primordiale del Dio salvatore che muore e rinasce. Inoltre, benché con accezioni differenti, ritroviamo il medesimo concetto nelle tradizioni arcaiche dell’India, sia applicato all’umano, che al Divino nella sua qualità di emanatore dell’esistenza e di elargitore della grazia illuminativa, Ishvara: punto di congiunzione tra il Manifesto e l’Immanifesto.

Nel notevole lavoro di Kamalakar Mishra, “Tantra – lo Sivaismo del Kasmir”, troviamo importanti riflessioni sul concetto di “persona”. In esso si ribadisce come il significato essenziale di “personalità” sia dato dalla coscienza di sé: «Che cosa è, allora che qualifica una persona? La risposta è l’autocoscienza. Una persona è uno che è autocosciente. Ciò implica che solo un essere senziente possa essere una persona». La Realtà ultima dello Shivaismo del Kashmir è Paramashiva, la persona assoluta: «Come abbiamo già visto, la coscienza di sé è più che possibile in Siva assoluto non-duale. È possibile che l’Assoluto, la Coscienza cosmica, conosca se stesso come “Aham” (Io); questo sarà l’Io assoluto (“Purnaham”) che ricomprende tutto entro se stesso. Siva è una persona proprio perché Siva ha coscienza di sé. [...] L’autocoscienza è il dinamismo naturale della coscienza di Siva non-duale, è la sua “eterna vibrazione” (“nitya-spanda”). Questo è lo stato del puro “Io sono”».(4)

Secondo René Guénon, il grande esegeta della sapienza tradizionale, vissuto nel secolo scorso, la personalità è «[...] il Principio trascendente e permanente dell’essere [...] una sorta di determinazione immediata, primordiale e non caratterizzata del principio, chiamato in sanscrito “Atman” o “Paramatman” [...] La Personalità deriva pertanto dall’ordine del Principio, e ciò significa che essa è di natura universale e non è, e non può essere, “individualizzata”».(5)

Nella Terra dei Bharata, la presenza di dottrine impersonaliste quali il Buddhismo e il Jainismo non è mai riuscita a scalzare o ad attenuare il culto dell’“Ishta-devata”, cioè dell’aspetto personale della divinità, che, anzi, è sempre stato ritenuto imprescindibile. Basti leggere ne “Il mito psicologico nell’India antica” il capitolo “Sintesi dei contrari nella personalità divina”: «Il Dio liberatore è funzionalmente insito nell’anima. Giacché è la sua divina potenza, la psichica potenza sublimatrice che lo rende tale. [...] E questa teofania cosmica nell’insegnamento della “Gita” coincide con una teogonia psicologica; perciò la “conoscenza” di questo mistero trasfigura e libera l’uomo: poiché tale “conoscenza” è un atto reale, è l’attuarsi del mistero stesso, è la “nascita” di Dio nell’uomo [...] E il Dio gli largirà l’“occhio celeste”, l’estatica visione indiatrice: immedesimato col Dio, Arjuna lo intuirà nella sua vera forma di divino Macrantropo. [...] gli uomini ottenebrati non riconoscono il Dio nella forma umana [...] nessuna realtà è al di fuori dell’anima umana. [...] Il regno della trascendenza non è fuori di noi».(6)

L’uomo è allora, anche presso le tradizioni non cristiane, sia persona, in quanto ricettacolo privilegiato della coscienza, sia individuo, in quanto essere contingente che non ha in sé la sua ragione sufficiente; egli, in virtù della sua libertà, da un lato può identificarsi ciecamente nell’accidentalità, autodistruggendosi, dall’altro, pur considerando il fluire fenomenico quale espressione dell’energia divina, può rivolgersi alla Fonte, all’Essenza, all’“Atman” nel Centro del Cuore.

Non diversamente, nella nostra tradizione filosofica l’uomo è persona e non semplicemente individuo, in quanto in lui sono presenti la coscienza di sé e la libertà di scelta. Tali facoltà si traducono in intelligenza ordinatrice o distruttrice quando si relazionano, all’esterno, con la molteplicità degli enti, umani e non umani, e in spinte che indiano o abbruttiscono quando, all’interno, si volgono al sostrato universale al quale attingono o se ne distolgono. Nel “Dizionario di scienze filosofiche”, al lemma “persona” si legge: «Quando cadde l’uso della maschera, indicò il personaggio stesso, e così passò nell’uso per indicare l’uomo, in quanto non è soltanto individuo, cioè unità organica di parti solidali, ma è un essere cosciente e intelligente, un’unità fondamentale di pensiero, di sentimento e d’azione. Perciò persona si oppone a cosa; il vegetale, il minerale, l’animale sono cose, mentre l’uomo cosciente soltanto è persona».(7)

Sull’ultima proposizione ci si deve soffermare. Qualora, in chiave tantrico-shivaita, si considerasse il mondo lo “spanda” (vibrazione) della divinità, allora persino gli alberi, gli animali, le montagne e i fiumi potrebbero essere considerati centri di consapevolezza, dato che la presenza del principio Shiva è onnipervadente. Incidentalmente va notato che i Pellerossa considerano gli animali come fratelli da rispettare anche quando li debbono uccidere per nutrirsene o per coprirsi. Qualora, invece, si vedesse la questione da un punto di vista speculativo-metafisico, tutto sarebbe cosa, oggetto, apparenza rispetto al Sé-“Atman”, consapevole di Sé, che vede ed emana la molteplicità senza esser visto né conosciuto dalla stessa. Questa seconda prospettiva viene sottolineata nel “rajayoga” per indurre il “sadhaka” a ritirare la coscienza dagli oggetti dei sensi (“pratyahara”). Lo chiarisce pure Abhinavagupta nel “Tantrasara”: «Tutto quello che vediamo intorno a noi non esiste dunque se non in quanto si riposa nel nostro pensiero, nel nostro io che lo pensa e che, pensandolo, lo fa essere. Questo io, questa coscienza è il principio primo da cui nascono tutte le cose, la forza che consente di andare da pensiero in pensiero, ma che in nessun pensiero può essere fissata, senza diventare una cosa come tutte le altre».(8)

In ogni caso, l’uomo, in veste di depositario eminente della coscienza, dell’intelligenza e della libertà di scelta (“svatantrya”), resta, almeno in potenza, la persona per eccellenza. Troviamo conferma di ciò nella già citata opera sullo Shivaismo del Kashmir: «Siva è libero e l’anima individuale, come una sorta di ‘mini-Siva’, è essa stessa libera, anche se entro un certo limite. [...] L’uomo è una combinazione di determinismo e libertà, ma la libertà è un’esclusiva dell’uomo ed è in questo che risiede la sua essenza. [...] Secondo le scritture Indù, la specie umana è la più evoluta e solo in questa forma è possibile compiere un’azione ex novo».(9) La stessa idea viene ribadita nel “Kularnava Tantra”: «Nessuna creatura, in nessun’altra forma fisica eccetto quella umana, può conseguire fini superiori. Perciò, una volta ricevuta la ricchezza preziosa di un corpo umano ci si dovrebbe dedicare ad azioni virtuose».(10)

Nella tradizione Hindu si ritiene che gli animali appartengano alla categoria delle “bhoga-yoni”, poiché essi raccolgono soltanto il frutto delle loro azioni precedenti; gli animali sono senz’altro dotati di vari gradi di coscienza e intelligenza, ma soltanto in casi eccezionali possono manifestare una limitata capacità di libero arbitrio. L’uomo, invece, appartiene alla categoria delle “karma-yoni”, poiché ha la capacità di operare delle scelte consapevoli, modificando il karma o, nel caso del Liberato in vita (“Jivanmukta”), risolvendolo definitivamente.

Alla luce di quanto sovra esposto, il tentativo che oggi alcuni ecologi propongono di scalzare alla radice, senza discriminare, l’antropocentrismo ci appare una fatica di Sisifo, uno spreco di energia e, purtroppo, anche un servizio reso a quelle forze straripanti che vorrebbero ridurre l’uomo ad un automatismo disanimato, un contenitore del nulla.(11) Tra l’altro, i ragionamenti finalizzati a tale scopo possono svilupparsi soltanto se si ignora il soggetto da cui essi procedono: l’uomo. Si rifletta bene: chi propone di rigettare il concetto di persona, di propiziare un cambio di paradigma o di «ridimensionare il protagonismo umano e riapplicare il senso del limite perorato dagli antichi»?(12) La risposta è evidente e non lascia adito a dubbi. È l’uomo il soggetto intelligente, consapevole, capace persino di rimettere in discussione i propri contenuti mentali, dotato della facoltà di scegliere e di intuire il Sovrasensibile, e quindi la prima “persona”.    

Henry Corbin, nel suo saggio “Della teologia apofatica quale antidoto al nichilismo”, sostiene che per instaurare un dialogo è indispensabile che vi siano persone: «Mancando la persona, assente ciò che ne rende possibile la preminenza, ci troviamo di fronte al nichilismo agnostico: non c’è più nessuno; l’uomo è scomparso».(13) Egli sostiene altresì che nel momento in cui la desacralizzazione della vita umana «procede dalla negazione di ogni prospettiva metafisica»(14) si aprono le porte allo pseudo-sacro e, proprio come si sta chiaramente concretizzando in questi tempi, alle varie istituzioni sacre si sostituisce lo Stato totalitario. In accordo con quanto già esplicitato da Maryla Falk, Corbin spiega: «E questo perché sacralizzazione e secolarizzazione  sono fenomeni che hanno luogo, e hanno il loro luogo non già primariamente nel mondo delle forme esteriori, bensì anzitutto nel mondo interiore dell’anima umana. Sono le modalità del suo essere interiore che l’uomo proietta all’esterno per costituire il fenomeno del mondo, i fenomeni del suo mondo, nel quale decide della propria libertà o schiavitù. Ove l’uomo perda coscienza della responsabilità di questo legame, e proclami con disperazione o con cinismo che sono chiuse quelle porte che lui stesso ha sbarrato, si ha allora il nichilismo».(15)

Altre riflessioni illuminanti ci vengono dal pensatore russo Nikolaj Berdjaev: «Se l’uomo fosse soltanto un individuo non si innalzerebbe al di sopra del mondo naturale: quella di individuo è una categoria naturalistica, innanzitutto biologica. L’individuo è qualcosa di indivisibile, un atomo. [...] La persona è qualcosa di assolutamente diverso. La persona è una categoria dello spirito non della natura, e non è soggetta né alla natura né alla società. [...] L’uomo è un microcosmo. La persona è un tutto e non può essere una parte. [...] La persona si contrappone alla cosa, si contrappone al mondo degli oggetti, è un soggetto attivo, un centro esistenziale. Ed è solo per questo che la persona umana è indipendente dal regno di Cesare. Essa ha un carattere assiologico, è un valore. Il compito dell’uomo è appunto quello di diventare persona».(16)

Le riflessioni di Corbin e di Berdjaev non debbono essere prese alla leggera; esse scavano nell’intimo, facendo appello alla nostra più schietta responsabilità. Il rischio implicito in certi rimedi è che, col pretesto di curare il malato in modo immediato, gli si taglia la testa. Piuttosto che negare la personalità che lo contraddistingue, l’uomo dovrebbe riconvertire le facoltà uniche di cui è dotato, reintroducendo nei propri orizzonti la riflessione metafisica ed escatologica e la solidarietà universale. Ciò significherebbe distogliere la coscienza, con la potenza di espressione ad essa associata, dal cieco egoismo e dalla distruttività per orientarla verso il ruolo di “Pastore dell’Essere”. Significativamente la radice “pa” rinvia al «compiere un’attività di mantenimento e protezione», oltre che a «proteggere, preservare, purificare».(17) “Pati”, in sanscrito significa “signore, maestro, padre” ed è un epiteto di Shiva quale Signore dell’universo e delle anime individuali. È anche uno dei tre princìpi di alcune importanti scuole “shaiva”; gli altri due sono: “Shakti”, l’energia dinamica, la potenza creatrice, manifestatrice o “pasha”, l’energia che lega, e “pashu”, l’anima individuata. Questi tre elementi sono un Unicum. Anche qui si riconosce all’anima individuata la facoltà della libera scelta; essa, cioè, può armonizzarsi con le leggi della Natura-Madre, volgendo l’Occhio del Cuore al “Paramatman”, oppure le può violare, provocando sofferenze a sé e a tutti gli esseri.

Alcuni pensatori contemporanei sembrano spaventati dal termine “potenza”, che associano alla gerarchia e ad altri valori tradizionali da essi ripudiati; nel tentativo di accantonarlo lo attribuiscono ad un «Dio personale pensato come Ente Superpotente, capace di creare le cose dal nulla e di annientarle [...] un Dio dispotico e violento».(18) A ben vedere, però, il termine “potenza” rimanda necessariamente alla triplice possibilità divina di manifestare, preservare, risolvere. In altri termini, la potenza è la “Shakti”-Donna: la forza che incatena e rovina, che ispira o libera. Una cosa è certa: per risvegliarsi al Mistero ineffabile, bisogna propiziarsela. Da ciò la grande, provvida lezione dello Shivaismo tantrico (sia del Nord che del Sud India) che non si oppone alla Tradizione Vedica, ma la completa, gettando un ponte di senso tra Immanifesto e Manifesto, “Purusha” e “Prakriti”, “Brahman nirguna” e “Brahman saguna”, trascendenza e immanenza, esplicitando un’evidenza logica già implicita nelle “Upanishad”.

Difendere la “persona” non equivale ad approvare l’uso distruttivo ed arbitrario che l’uomo moderno sta facendo della sua “superiorità” relativa. L’antropocentrismo oggi in voga è decisamente deplorevole, poiché legittima i peggiori soprusi, l’insensibilità, l’irrazionalità e l’egoismo di individui degenerati e monchi, ormai privi di dignità ontologica. È un’imperativo pertanto sottolineare come la superiorità alla quale qui ci si riferisce non abbia nulla a che vedere col mettersi in mostra, né vada interpretata nel senso di far valere privilegi egoistici, basati sulla sofferenza e sul dolore delle altre forme di vita. Ammonisce Lao Tzu: «[...] chi si mostra da sé non viene in luce / chi si approva da sé non cade in vista / chi si vanta da sé non ha valore / chi si gloria da sé non sale in gloria / questi davanti al tao / son come rimasugli ed escrescenze / cose che ognuno aborre».(19) La virtù superiore non sa nemmeno di esserlo e non pretende di dominare dall’alto, dall’esterno; essa piuttosto si manifesta attraverso il “non fare” ed è l’espressione spontanea di chi si penetra nell’intimo, mettendosi al servizio del bene comune, includente, oltre all’uomo, tutti gli esseri viventi.

Per i popoli Pellerossa – che i bianchi trattavano come razze inferiori o addirittura come belve nocive da sterminare – un simile stato coscienziale era connaturato. Essi non avevano bisogno di negare o affermare il valore dell’uomo e di tutti gli esseri, anche i più minuscoli, che popolavano la Terra, poiché lo vivevano pienamente. Il teocentrismo che li permeava consentiva ad ognuno di riconoscersi in tutto. L’incontro con i bianchi segnò la loro fine: la civiltà con la quale entrarono in contatto risultava loro affatto estranea, incomprensibile; si trattava, tra l’altro, di una “civiltà” in piena decadenza spirituale, ormai strappatasi dalle proprie radici, in cui la menzogna, l’ipocrisia, la presunzione e l’astrazione dalla Terra dominavano incontrastate.

Abbiamo tentato assai modestamente di spezzare una lancia in difesa della “persona” con l’intento di scongiurare due posizioni estreme: da un lato, quella che pone al centro un uomo presuntuoso e incompleto, fomite di innumeri guai e disarmonia; dall’altro, quella che nega il suo status di persona e la sua centralità relativa, nullificandolo. Entrambe equivalgono ad una condanna a morte. La prima è rappresentata dai tecnocrati-scientisti, i quali ritengono che l’anthropos, dotato di razionalità, sia legittimato, per “destino manifesto”, a sfruttare tutte le altre forme di vita e a coltivare un progetto di progresso infinito; la seconda, da quegli ecologi che livellano e uniformano il vivente in nome dell’unità biologica. Invece di negare recisamente ogni valore e realtà al concetto di “persona” o, per contro,  di magnificarne una versione distorta nell’identificazione col corpo fisico e la mente inferiore (l’individualità), ci si dovrebbe chiedere: «Quale concetto della persona si professa, quando la si denuncia come causa del nichilismo?».(20)

Riguardo agli ecologisti, interessante è evidenziare il modo in cui sono visti dai Pellerossa: «Adesso ci stanno gonfiando la testa con questo movimento ecologico. Siamo sopravvissuti a tutti gli altri, ma non so se riusciremo a superare quest’ultimo. [...] mi sono accorto che il movimento ecologico non ha alcun fondamento spirituale».(21) E ancora: «Tutti questi cosiddetti protettori della natura che vengono qua e implorano che questa terra non venga data a noi per proteggere le piante e gli animali selvatici, che loro hanno scoperto l’altro ieri [...] Questa gente non sa nemmeno di che cosa stia parlando [...] non sa davvero nulla della natura [...] Dimenticano che anche gli esseri umani vivono nella natura, cosa che noi sappiamo da sempre».(22)

Con simili citazioni non si vuole insinuare che, in un mondo in cui la cementificazione e l’inquinamento avanzano ad una velocità impressionante, l’ecologia sia priva di un suo valore provvidenziale, ma si tenta di ricondurla nel proprio alveo, ridimensionandone le pretese quasi religiose di dare una risposta a tutto. L’ecologia, in particolare quella che si autodefinisce “profonda”, corre il rischio di ricalcare le impronte del peggior scientismo: non solo fallisce nel suo assurdo tentativo di azzerare il paradigma antropocentrico, ma, sebbene animata dall’intento di riportare la Terra all’armonia naturale, inevitabilmente lo ripropone, se possibile in forma ancor più subdola, senza correggerlo.

Incomprensibilmente, Paolo Scroccaro, filosofo ed ecologista, sebbene sia consapevole di quanto sarebbe devastante per l’Occidente (e non solo) abbattere il concetto di persona, insiste ad invocarne la distruzione. Nello scritto contro l’antropocentrismo in precedenza menzionato, egli riporta le seguenti riflessioni: «(...) “persona” è un termine-chiave nell’antropologia culturale e nella psicologia, nella giurisprudenza e nella sociologia, nella filosofia e nella teologia. Se per assurdo abolissimo persona insieme con tutti i concetti che nel corso dei secoli gli sono stati connessi, se per un istante riducessimo al nulla quella struttura di significato morale, fisico, giuridico, segnalata dal Lalande, ci proibiremmo di comprendere la stessa logica profonda della storia dell’occidente».(23) E poco dopo: «È evidente che concetti come “persona” o come “essere senziente” servono a ingenerare separazioni che conservano come punto di riferimento privilegiato l’essere umano: scorie antropocentriche, appunto, come tali impossibilitate a fondare un’etica universale del rispetto».(24)

Per contro Edgar Morin non riterrebbe auspicabile simile abolizione: «Per salvarsi occorre avere un approccio dialettico, nel tentativo di tenere insieme idee che sulla carta si oppongono. Non credo alla rivoluzione che fa tabula rasa del passato, producendo spesso realtà peggiori di quelle che ha voluto trasformare».(25) Il noto studioso francese parla assai opportunamente di «approccio dialettico»; si tratta infatti di discriminare tra le varie chiavi di lettura dei concetti di persona o di antropocentrismo e non di rigettarli drasticamente. 

Al processo di spersonalizzazione e di rimpicciolimento dell’uomo concorre altresì la notevole diffusione in Occidente di certe dottrine impersonaliste mal comprese provenienti dall’Oriente. Sottolineiamo: mal comprese. Pensiamo in particolare al Buddhismo, con le sue dottrine della vacuità (“shunyatva”) e della non realtà dell’io empirico o, secondo alcuni oltranzisti, persino del Sé (anatman”), e all’“Advaita Vedanta” che, pur affermando il valore e la presenza assoluti del Sé, non chiarisce il trait d’union tra Immanifesto e Manifesto. Se si riduce l’uomo ad un aggregato illusorio di fenomeni e il mondo manifesto ad un miraggio o ad una mera espressione di ignoranza, qualsiasi assiologia viene annullata, soprattutto agli occhi di un occidentale figlio della “morte di dio”. E nemmeno si può spiegare in che modo dalla nullità-vacuità della condizione umana sia dato aspirare allo svelamento del Supremo Bene.  Non riconoscere alcun soggetto sperimentatore della transitorietà (“anicca”), né alcun soggetto ultimo, o Sfondo, o Realtà effabile-ineffabile, cosciente di Sé, in un qualche modo immanente nell’uomo, equivale a destituire l’ente di ogni valore, privandolo della possibilità di tendere al Risveglio. Una volta che l’esistenza e persino l’Essere siano ridotti ad un puro nulla, “chi” potrebbe mai distaccarsi dall’identificazione nell’apparenza, “chi” si sentirebbe vocato a risolvere le cause della sofferenza (“dukkha”) e, ancora, “chi” elaborerebbe con autorevolezza una dottrina finalizzata al raggiungimento del vuoto assoluto?(26)

Di norma le dottrine dianzi citate andrebbero considerate sullo sfondo spirituale e culturale in cui si sono sviluppate; l’atmosfera che le ha prodotte, infatti, conferisce loro dei significati che restano altrimenti incomprensibili, ne smussa le asperità e aiuta, ispirando balzi intuitivi, a superarne i vicoli ciechi. L’humus profondo dell’India era ed è tantrico e ciò offre la possibilità a chi si dedica con totalità alla trascendenza di non abbandonare l’immanenza, realizzando nell’intimo quella Non-dualità, paradossale in ottica razionale, che nessuna Scuola, per quanto raffinata, potrà mai esaurire.

A questo punto si potranno meglio comprendere le conclusive riflessioni di Corbin: «[...] noi scorgiamo nell’impersonalismo, nello smarrimento, nell’annullamento o alienazione della persona, la causa e al tempo stesso l’effetto del nichilismo».(27) E più avanti: «Dunque, non è annientandosi per fusione nella divintà, o nella collettività che ne è la laicizzazione illusoria, non è abbandonando ciò che lo definisce come persona e lo pone nell’essere, ma è, al contrario, realizzando ciò che ha più di personale e di più profondo che l’uomo adempie la sua funzione essenziale, che è funzione teofanica: esprimere Dio, essere il teoforo, il portatore-di-Dio».(28)

Gli assunti corbinani non ci appaiono in contrasto con la tradizione sapienziale dell’India, capace più di ogni altra di accogliere e sintetizzare le tre prospettive teologiche fondamentali: della Differenza, dell’Identità nella Differenza e della Identità assoluta. All’interno del “Sanatana-dharma” il fine ultimo non viene considerato una fuga, ma un’ascesa di pienezza in pienezza. I quattro stadi di vita (“ashrama”) vanno compiuti e interiorizzati, non rifiutati; è soltanto l’Uomo completo, il Macrantropo, il “Mahapurusha” oltre i due princìpi, il cui nocciolo è l’“Atman”-Sole, a potersi risvegliare all’Anima Suprema, il “Paramatman” onnipervadente, trascendente e immanente ad un tempo. L’uomo quale anima individuata non è una “parte” o un “frammento”(29) del Tutto (tali termini sono estranei alla riflessione metafisica poiché implicano la nozione della quantità), bensì una “scintilla” in cui è insita la perfetta qualità del Fuoco; egli perciò è “imago Dei”: punto di sintesi e di congiunzione, “pontifex”. In lui, quando spiritualmente risvegliato, coesistono tutte le possibilità esistenziali. Del resto, chi altri potrebbe, volgendo lo sguardo al basso, prendersi cura del mondo, permettendogli di essere quel che è? Il fulcro della “persona” è la divintà autoconsapevole; per questa ragione, screditare senza alcun discernimento il concetto di “persona” significa rinchiudere se stessi, e per estensione l’intera vita cosmica, nella prigione della più oscura impotenza.

Soltanto considerando l’altezza sublime del nostro retaggio possiamo squarciare il velo dell’ottenebramento e scorgere l’abisso di abiezione in cui l’uomo si è precipitato per sua stessa volontà.

 
 

Note

 

1) Cfr. Giovanni Semerano, “Le origini della cultura europea”, vol II, Leo s. Olschki Edit., Fi 2007.

2) Cfr. “Glossario Sanscrito”, a c. del Gruppo Kevala, Ediz. Asram Vidya, Roma 2011.

3) Cfr. Marius Schneider, “Il significato della musica”, Rusconi, Mi 1970, p. 35.

4) Kamalakar Mishra, “Tantra – Lo Sivaismo del Kasmir”, Laksmi ediz., Sv 2012, pp. 156, 157.

5) Jean-Marc Vivenza, “Dizionario guénoniano”, Ediz. Arkeios, Roma 2007, p. 312.

6) Maryla Falk, “Il mito psicologico dell’India antica”, Adelphi, Mi 1986, pp. 227-249.

7) C. Ranzoli, “Dizionario di scienze filosofiche”, Hoepli, Mi 1943.

8) Abhinavagupta, “Essenza dei Tantra (Tantrasara)”, a c. di Raniero Gnoli, Boringhieri, To 1979, pp. 43, 44.

9) Kamalakar Mishra, op. cit., si veda il capit. n. 6, “Il problema del male”.

10) “Kularnava Tantra – La Via dell’Estasi”, 18, ediz. Vidyananda, Assisi 2005.

11) Rappresentativo ci sembra il recente film di Lars Von Trier, “Melancholia”: una vera e propria apologia del nulla. Benché vi compaiano immagini di intensa bellezza, esso ci parla di un uomo svuotato di senso e quindi di forza e dignità. Prevale l’immagine della donna sull’uomo; il secondo non si rivela nemmeno capace di proteggere i suoi cari nel momento estremo. In questa sfumatura ravvisiamo l’ennesimo segno dei tempi: invece di comprendere che il maschile e il femminile sono momenti inseparabili nella libera volontà del Senza Superiore, come lo Shivaismo del Kashmir insegna, si insiste a privilegiare l’uno o l’altro, alimentando una contrapposizione ed una incompletezza irriducibili.

12) Paolo Scroccaro, “Antropocentrismo – Le radici della violenza contro uomini, natura e animali”, in Quaderno n. 11 (gennaio-febbraio 2012) dell’Associazione Eco-Filosofica di Tv. Ci troviamo perfettamente concordi col prof. Scroccaro nell’auspicare un «ridimensionamento del protagonismo umano», nel concepire la nobiltà umana come un «mettersi al servizio della grande parentela cosmica» e nell’invocare la necessità di «riattivare il rispetto per tutti gli esseri, anche non umani», ma non conveniamo con lui laddove rifiuta ogni valore al concetto di persona e identifica nell’antropocentrismo tout court le radici dei mali che ci affliggono.

13) Henry Corbin, “Il paradosso del monoteismo”, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 132.

14) Ibidem, p. 133.

15) Ibidem, pp. 133, 134.

16) Nikolaj Berdjaev, “Pensieri controcorrente”, La Casa di Matriona ediz., Mi 2007, pp. 126, 127.

17) Cfr. Franco Rendich, “Dizionario etimologico comparato delle lingue classiche indoeuropee”, Palombi editori, Roma 2010.

18) P. Scroccaro, art. cit.

19) Lao Tse, “La regola celeste (Tao Te Ching)”, 24,  a c. di Alberto Castellani, Sansoni, Fi 1954.

20) Henry Corbin, op. cit. p. 134.

21) Stan Steiner, “Uomo bianco scomparirai”, Jaca Book, Mi 1978, pp. 289, 290.

22) Ibidem, pp. 128, 129.

23) Andrea Milano, “Persona in teologia”, Ed. Dehoniane, Roma 1996, p. 15, in P. Scroccaro, art. cit.

24) P. Scroccaro, art. cit.

25) Da un’intervista di Fabio Gambaro in Eucrazia del 20.03.2012.

26) Non tutti i buddhisti sono concordi con tale volgarizzazione nichilista del Buddhismo; per esempio, Christmas Humphreys nel suo “Dizionario Buddhista” (Astrolabio-Ubaldini, Roma 1981) scrive, alla voce “nirvana” o, in pali, “nibbana”: «[...] è la cessazione dell’esistenza, ossia dell’esistenza che conosciamo; il raggiungimento dell’Essere (distinto dal divenire); l’unione con la Realtà assoluta. Il Buddha lo definisce “non-nato, non-originato, non-creato, non-formato”, in contrasto con il mondo fenomenico, nato, originato, creato e formato»

27) Op. cit. p. 134.

28) Ibidem, p. 151.

29) Si veda: P. Scroccaro, art. cit.