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I mali della pace?

di Luciano Fuschini - 01/02/2013



Erich Fromm nel suo “Anatomia della distruttività umana” ha sostenuto che la causa ultima delle guerre è l’aggressività innata nella specie umana, la pulsione verso la distruzione e la morte. Anche l’ultimo Freud vide nell’umanità del XX secolo  una crescente propensione verso Thanatos, l’istinto di morte, l’altro polo dialettico rispetto a Eros.
Pertanto le varie cause che storici e politologi individuano per spiegare le guerre, sarebbero niente altro che pretesti. Non le motivazioni economiche, non il controllo delle risorse, non il bisogno di fare razzìa di schiavi, non l’odio etnico o settario, non il calcolo di impadronirsi di posizioni strategiche prima che lo facciano potenziali nemici, ma l’istinto primario di sopraffazione e di esercitare la violenza è la causa vera dei conflitti.
Se questa carica aggressiva non si sfoga all’esterno, finisce con lo scaricarsi all’interno della stessa comunità, con conseguenze che possono portare alla sua dissoluzione. Oppure la compressione dell’istinto che porta a crearsi un nemico e a combatterlo, infiacchisce gli animi e corrompe i costumi. Se la violenza non è esercitata all’esterno, finisce col manifestarsi in guerra civile o a tramutarsi nell’infiacchimento della decadenza. Era quanto intendevano gli antichi romani col loro detto longae pacis patimur mala: soffriamo i mali di una (troppo) lunga pace.
Seguendo questa linea di pensiero, dovremmo concludere che i casi frequenti di follia omicida , gli scontri fra le fazioni rivali nelle competizioni calcistiche, gli atti apparentemente insensati di puro teppismo, sono la conseguenza di una pace pluridecennale.
Perfino il fenomeno del femminicidio, da non confondersi con lo stupro, essendo il femminicidio un omicidio, quasi sempre  entro le mura domestiche e attuato da compagni delle vittime, potrebbe essere interpretato in questa ottica. La carica di violenza che l’obbligo del “politicamente corretto” non permette più di sfogarsi sul nemico esterno, si rivolge contro un altro oggetto, nell’intimità stessa della casa, contro la donna muscolarmente più debole ma altrettanto aggressiva, competitiva e prevaricatrice.
Questo modo di ragionare è non solo pericoloso ma sbagliato.
Gli istinti aggressivi possono essere deviati e controllati. La pratica sportiva, la competizione fisica, è da sempre una guerra ritualizzata, un modo per sfogare l’aggressività rendendola innocua. Cos’altro è in una partita di calcio l’azione di una squadra che invade la metà campo avversaria per impadronirsene e violare la sua porta se non una guerra ritualizzata e risolta in modo simbolico?
Se l’aggressività diventa scontro con le armi, strage e sopraffazione sul nemico vinto, ci sono motivazioni economiche, politiche, interessi di gruppi sociali, che devono essere denunciati. Inoltre vediamo che i reduci dai fronti, anziché diventare persone pacifiche che hanno scaricato la loro aggressività contro un nemico esterno, sono abbastanza spesso segnati dalla violenza in modo tale da diventare psicopatici con la coazione a ripetere anche nella vita civile i comportamenti violenti dei loro traumi bellici. Del resto la guerra odierna, almeno quella condotta dalle forze armate supertecnologiche dell’Occidente, facendo largo uso di droni, robot, armi telecomandate, non è più lo scontro fisico diretto dei guerrieri di un tempo, escludendo con ciò qualunque tentativo di riscattarla in nome di una presunta istintualità che richiede di sfogarsi.
Quanto al femminicidio, qualunque tentativo di sminuirne la gravità sarebbe colpevole.
Se sommiamo alle più di cento donne uccise in un anno in Italia dai loro uomini le tante altre  che vengono ferite o pestate a sangue, abbiamo il quadro di un conflitto fra generi che si fa crescente quanto più si affievolisce il conflitto fra le generazioni.
Qui siamo in presenza non di un istinto aggressivo che non sfogandosi più contro il nemico esterno lo trova fra le mura domestiche, ma di un uomo che non ha saputo riposizionarsi adeguandosi a quella rivoluzione femminile che, piaccia o non piaccia, era inevitabile in un’epoca in cui le uniche cause dell’inferiorità sociale delle donne, la minore potenza muscolare e le frequenti gravidanze, non esistono più o non hanno più l’incidenza di un tempo. L’uomo ha reagito al nuovo protagonismo femminile o deresponsabilizzandosi e femminilizzandosi o, nei casi estremi ma sempre più frequenti, col ricorso alla regressione verso la violenza improvvisa e irriflessa.
Ci sono colpe, ci sono responsabilità che esigono la critica consapevole e l’autocritica. Non è il caso di trovare il facile capro espiatorio in una generica tendenza naturale alla violenza.