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Sanremo è lo specchio dei nostri peggiori vizi

di Francesco Lamendola - 06/02/2013

 

Dalla musica allo spettacolo, dallo spettacolo alla volgarità, dalla volgarità alla pornografia: questa è la trista parabola ultracinquantennale del Festival di Sanremo, che ancora qualcuno si ostina a considerare un evento di carattere artistico, mentre da decenni non è divenuto che lo specchio della spettacolarizzazione esasperata e del pauroso involgarimento della società italiana.

Che cosa c’entra più Sanremo con la buona musica, se tutto, a cominciare dai presentatori e dalle vallette, ormai di gran lunga più pubblicizzati e sempre più registicamente dominanti, non è che un inno alla spettacolarizzazione cialtrona; se si parla maggiormente delle mutande, o dell’assenza di mutande, di una delle vallette, che non della bontà delle canzoni; se i cantanti stessi, e specialmente le cantanti, fanno a gara nel trasformare una esibizione canora in una passerella di look sexy, esibendo i dettagli più ammiccanti del loro abbigliamento intimo e del loro corpo, e ostentando ogni sorta di provocazione sessuale?

Pareva che la palma della volgarità dovesse rimanere alla (allora) trentottenne Anna Oxa, che nel 1999 si presenta a cantare con i pantaloni talmente bassi in vita, da scoprire generosamente non solo l’ombelico, ma anche il tanga mozzafiato, per non parlare dei capelli bionici e delle creme translucide che le fanno letteralmente scintillare viso, spalle e braccia; ma ecco che, in un crescendo senza respiro, dieci anni dopo la sessantunenne Patty Pravo lascia tutti ammutoliti davanti alla sua camicia nude look, che non concede proprio niente all’immaginazione del pubblico.

Così abbiamo perso del tutto il senso della buona musica leggera: trionfa lo spettacolo, trionfano le mutandine a vista o l’assenza di mutandine, trionfano i pettegolezzi e le futilità che niente hanno a che fare con il mondo della canzone. La stampa e la televisione dedicano scarsi commenti alla qualità della musica e dei testi e invece si diffondono, oltre ogni limite della decenza e del buon gusto, a rimestare nel ciarpame del gossip più frivolo e insulso, mentre stuoli di sedicenti opinionisti, nei salotti televisivi, in cambio del canone che noi paghiamo, ci ammanniscono interminabili discettazioni non sulle doti dei cantanti e sulla bellezza e incisività dei brani ascoltati, ma sui retroscena piccanti, sui tatuaggi nascosti nei recessi più sensuali dell’epidermide delle partecipanti, sugli scandaletti e sulle pseudo-trasgressioni di giovani promesse o di vip stagionati, legati magari all’ultima edizione dell’«Isola dei Famosi» o della «Fattoria», ai capricci di qualche vecchia gloria che non si rassegna al declino o di qualche giovane rampante, che vorrebbe prendere la scorciatoia per far parlare di sé a qualunque costo.

Il tutto ha un aspetto sempre più sconfortante, sempre più becero e pagliaccesco, sempre più offensivo per la dignità e l’intelligenza non solo dei veri artisti, che devono sottoporsi a tali giochi umilianti, ma anche per quelle del pubblico. Ogni tanto ci scappa qualche buona canzone, ma a dispetto del baraccone mediatico e delle subdole manovre delle case discografiche le quali, dietro le quinte, brigano per piazzare i loro cavalli da corsa, con l’aiuto di giurie compiacenti o forse un po’ troppo distratte e con la tacita o esplicita approvazione di un pubblico sempre meno esigente in fatto di buon gusto e cultura musicale. Un pubblico sempre più annoiato e disattento e, quindi, sempre più smanioso di ingredienti extra-musicali, che possano ravvivare la scena e rende digeribile il vecchio minestrone sanremese, divenuto ormai simile a una pappa scaldata e riscaldata troppe volte perché conservi ancora un minimo di sapore autentico e genuino.

Ma in fondo, perché negarlo, gli Italiano ricevono quel che si meritano: come nel caso della cattiva amministrazione, della cattiva sanità, della cattiva scuola, della cattiva imprenditoria e della cattiva politica, ricevono della musica mediocre, condita con tanta volgarità e pornografia, senza protestare e, forse, perfino divertendosi: a che scopo indignarsi, allora; a che scopo protestare e chiedere un maggiore rispetto per la dignità del pubblico? Se Sanremo si ostina a perpetuarsi e diventa uno spettacolo sempre più triviale, in fondo significa che va bene così.

Non vogliamo fare del facile moralismo, né scomodare il fantasma di Luigi Tenco per puntare il dito contro le giurie stupide o ignoranti, che bocciano le canzoni profonde e innovative e mandano in finale quelle insipide o melense: riconosciamo che i cantautori hanno fatto un grossolano errore di calcolo, allorché pensarono che Sanremo si potesse trasformare in una occasione per fare della musica leggera una cosa seria. Anche la tanto sbandierata vittoria di Sergio Endrigo, nel 1968, va letta come il pianto del coccodrillo dei giurati l’anno dopo la tragica morte di Tenco, un obolo pagato ai buoni – e fasulli - proponimenti degli organizzatori di Sanremo di cambiare stile e aprirsi all’ascolto e alla valorizzazione dei giovani di talento; e poi tutto è tornato come prima, nello stile più gattopardesco, con la massima disinvoltura e il massimo cinismo.

La verità è che Sanremo non può essere molto di più di uno specchio del gusto musicale medio degli Italiani e della propensione dell’Italiano medio a lasciarsi imbonire da spettacoli mediocri, ma sapidi e ammiccanti: non si sono fatti incantare, gli Italiani, per quattro lustri, dalle clownesche esibizioni di un sedicente salvatore della patria, il quale, con carta e penna in mano, ha sottoscritto un grottesco “contratto” televisivo con gli elettori, promettendo mirabolanti azioni di governo e impegnandosi a non ricandidarsi, se non le avesse realizzate? E non vediamo questo stesso personaggio ripresentarsi, imperterrito, senz’ombra di vergogna o di pudore, a chiedere la fiducia degli elettori per governare ancora il Paese, come se quelle promesse le avesse mantenute o, peggio, come se lui venisse dalla Luna, e non avesse invece governato per dieci anni buoni, disponendo di una maggioranza parlamentare fortissima, quale mai si era vista nella storia italiana, se non nella lontana epoca d’oro della Democrazia Cristiana? La verità è che gli Italiani brontolano, ma poi tornano a votare per i politici più impresentabili, per quelli stessi che li hanno maggiormente presi in giro, per quelli stessi che li hanno offesi con la loro arroganza, con la loro ribalderia, con gli scandali a ripetizione, con l’ostentazione dei loro privilegi; e questo mentre ai cittadini si chiedono sacrifici durissimi, di cui nessuno – tranne i tecnocrati che si sono autopromossi a miracolosi taumaturghi – riescono a vedere i  tanto vantati effetti positivi.

Allo stesso modo, gli Italiani si lamentano della cattiva amministrazione, delle fantascientifiche astruserie della burocrazia, delle sue macroscopiche inefficienze e dei suoi cronici, intollerabili ritardi; restano disgustati davanti allo spettacolo desolante delle ruberie, delle mazzette, dello sperpero privato di pubblico denaro, del fatto che l’amministrazione comunale di una delle maggiori città del Paese non sia capace neanche di assicurare il normale smaltimento dei rifiuti; ma poi tornano a votare per quegli amministratori, li rieleggono una volta dopo l’altra, una legislatura dopo l’altra: non ricordano più, hanno dimenticato e perdonato, basta che qualcuno non tocchi la loro squadra del cuore e non disturbi il campionato di calcio.

Gli Italiani si lamentano anche della mala sanità, della scuola in frantumi, dell’università da Terzo Mondo, dei trasporti allucinanti, delle tasse vampiresche, delle pensioni ridicolmente basse, dello scempio edilizio, dell’illegalità dilagante, della delinquenza imperversante, dell’immigrazione selvaggia; ma poi vanno avanti stoicamente, non chiedono il rendiconto ai sindaci e alle giunte, non lo chiedono ai parlamentari: si accontentano di altre promesse menzognere, di altri slogan da anni Cinquanta, di altre chiacchiere senza costrutto; e vanno avanti così.

Ebbene, la stessa cosa avviene nei confronti di eventi come il festival di Sanremo: sempre si dice che lo spettacolo è scadente, che le frivolezze non dovrebbero soverchiare la sostanza musicale, che bisognerebbe riformare la competizione di sana pianta, oppure cancellarla e tirarci sopra un rigo; ma poi sempre si torna ad aspettarlo, a guardarlo, a votarlo, a divorare gli squallidi giornaletti che intorno ad esso confezionano le solite cronache di ordinaria insulsaggine, a digerire ore e ore di logorroici programmi televisivi che disquisiscono sulla tintura dei capelli della cantante tale o sulla biancheria in vista della cantante talaltra.

La minestra è sempre quella, scaldata e riscaldata, eppure piace ancora, nonostante i brontolii e nonostante le promesse di emendarla degli aspetti più pacchiani e inutilmente spenderecci; di non invitare più degli ospiti stranieri che si fanno strapare per dire quattro fesserie in inglese, perché nemmeno si prendono il disturbo di pronunciare quelle quattro parole in italiano; ma poi si ricasca sempre nelle stesse formule, nelle solite banalità, nel solito sperpero di denaro che nemmeno serve a fornire una opportunità ai giovani cantanti di talento, ma finanzia il baraccone dei soliti noti, premia la superficialità, incentiva lo stile frivolo e cialtrone.

Qui come in ogni altro settore della vita sociale – nella pubblica amministrazione, nell’università, nella scuola, nell’editoria, nella stampa - non si incoraggiano le innovazioni, non si fa posto ha chi porta idee nuove, non si scommette sul futuro: si vuole andare sul sicuro. E così come le banche sono disposte a prestare il denaro solo a chi può dare garanzie tali che corrispondono, in pratica, al non averne bisogno (ma intanto speculano allegramente con i nostri risparmi, con i nostri sudati salari e con le nostre modeste pensioni e concedono ai propri manager, magari pasticcioni e poco limpidi, stipendi favolosi, sempre con i nostri soldi), ma non sono disposte a correre il minimo rischio per finanziare un onesto cittadino che vorrebbe aprire un chiosco di giornali, una bottega di tabaccaio, o semplicemente comprarsi la casa per non dover continuare a pagare la spesa improduttiva dell’affitto; allo stesso modo le case discografiche e le giurie delle competizioni canore, come quella di Sanremo, sono disposte a dare fiducia e a premiare le cose già viste, banali e scontate, quelle che accarezzano la pigrizia mentale e, sovente, anche l’ipocrisia del pubblico; ma assai difficilmente le idee veramente nuove (non quelle falsamente innovative, non il penoso conformismo dell’anticonformismo), gli stili veramente autentici, i discorsi musicali che potrebbero aprire nuove strade e sentieri mai battuti.

È sempre lo stesso meccanismo: niente scommessa sul futuro; niente disponibilità al rischio imprenditoriale; pertinace determinazione a tenersi sempre sul sicuro, a puntare al profitto garantito; nessuno spazio nei confronti dei giovani, ma difesa a oltranza da parte di una gerontocrazia ciecamente arroccata nei propri privilegi; niente investimenti nella ricerca, nella novità, nell’esplorazione di strade ancora intentate; in breve: nessun coraggio concettuale, nessuna disponibilità a mettersi in discussione da parte delle classi dirigenti (o piuttosto dominanti), e questo in un mondo che cambia sempre più in fretta e che richiederebbe, al contrario, capacità di continua innovazione, propensione al rischio, ricerca incessante di vie nuove.

E allora avanti così, con la volgarità e la pornografia al posto della buona musica; con i pettegolezzi provinciali sulle cose più insulse ed esteriori; con i presentatori e le vallette che si prendono compensi stratosferici per accentrare su di sé i riflettori, invece di porsi al servizio delle proposte musicali e di favorire un clima di serio ascolto della buona musica. Avanti con le buffonate indecenti, come quella del finto disoccupato che fa l’atto di gettarsi dal balcone del teatro Ariston e si fa salvare in diretta dall’ineffabile e intramontabile Pippo Baudo, versione avanspettacolo degli ineffabili e intramontabili uomini politici della Prima e, ormai, anche della Seconda Repubblica: sempiterni, inamovibili, imbalsamati sulle loro poltrone, insostituibili salvatori della Patria e immarcescibili cariatidi d’un teatrino permanente che cambia le luci dei riflettori e qualche po’ di coreografia, ma  che, nella sostanza delle cose, non cambia mai.

E la responsabilità è nostra. Noi accettiamo, perdoniamo e dimentichiamo volentieri i calciatori  miliardari che truccano scandalosamente le partite, per guadagnare ancora più soldi; gli amministratori disonesti che vanno in crociera con il denaro pubblico, non paghi dei loro generosissimi stipendi; i manager e i banchieri incompetenti o peggio, che si beccano stipendi miliardari mentre le loro aziende o le loro banche vanno in fallimento, e trascinano con sé, nel naufragio, posti di lavoro e risparmi degli onesti cittadini. E così accettiamo, perdoniamo e comprendiamo, indulgenti, i vezzi, le moine e i caprici dei divi del teleschermo, dei presentatori senza idee e senza buon gusto, delle vallette con le cosce lunghe ma il cervello di gallina e lo stile delle scimmie, i cantanti e le cantanti senza voce, senza ritmo, senza sostanza, ma con le scollature procaci, il ventre scoperto e il perizoma in bella vista. Non li fischiamo, non li cacciamo, non li sommergiamo di frutta marcia: li sopportiamo, li accettiamo e finiamo per trovarli perfino simpatici. Dunque, siamo degni di loro ed essi lo sono di noi.

Anche su queste cose si può misurare il declino di una società, la crisi morale che ci attanaglia, le pessime abitudini delle quali siamo diventati schiavi, le colpevoli indulgenze che, tutte sommate insieme, ci stanno trascinando verso l’abisso: come il grande transatlantico che va a urtare negli scogli per l’inconcepibile imperizia e marioleria d’un capitano senza professionalità e senza onore...