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Un mondo di differenze

di Eduardo Zarelli - 28/07/2007

Fonte: diorama.it

Eduardo Zarelli a colloquio con Giuseppe Giaccio,

autore di Pluriverso. La politica nell’era della globalizzazione, Settimo Sigillo, Roma 2005, pagg. 183, euro 18,50.

 

D)    Il titolo stesso del tuo libro, Pluriverso, si pone criticamente con la vulgata egemone, universalistica ed uniformante, dei cantori della globalizzazione. Cosa intendi concettualmente con tale termine?

 

 

R) Voglio dire che lo spazio politico è uno spazio plurale (un pluriverso, appunto, non un universo) nel quale debbono poter coesistere modi differenti di concepire la vita e il mondo. Questa idea, che ad alcuni può sembrare persino ovvia, oggi non lo è più tanto, e perciò andava riaffermata con forza. Oggi si tende piuttosto a sottolineare la dialettica noi/loro allo scopo di escludere quanti non sono percepiti come “nostri”. Questo accade su vari versanti: liberal-conservatore (si pensi all’ampia diffusione e al favore che hanno incontrato gli studi di Samuel Huntington e la trilogia dell’odio xenofobo anti-musulmano della Fallaci); cattolico (l’insistenza sulle radici cristiane dell’Europa), ma anche laico (l’indiscutibilità e insindacabilità delle conquiste del pensiero laico).  

 

 

D) La civilizzazione occidentale è una razionalizzazione della politica per mezzo di una democrazia procedurale, che neutralizza la partecipazione in amministrazione formale della cosa pubblica. Tu evochi conflittualmente, in controtendenza, una dimensione alta del “politico”, con una responsabilità etica e di servizio per il “bene comune”. Quale prospettiva realistica ha una tale riflessione politica?  

 

R) Dalla Rivoluzione francese in poi, abbiamo conosciuto esperienze di democrazia liberale, o procedurale che dir si voglia, ed esperienze di democrazia cosiddetta popolare. Queste ultime sono finite in un vicolo cieco, su ciò vi è un consenso pressoché unanime. Tuttavia le democrazie liberali non stanno molto meglio. Il fatto che siano sopravvissute al loro nemico storico induce gli osservatori più superficiali, cioè la stragrande maggioranza, a cullarsi nell’illusione della vittoria, ma gli studiosi più attenti sanno che vi sono sfide enormi che attendono al varco le liberaldemocrazie, sfide per le quali esse, probabilmente, non sono attrezzate nel modo migliore. Robert Dahl, uno degli analisti più accreditati della forma politica democratica, ha sottolineato molto bene questo punto. Personalmente, penso che la democrazia liberale abbia già dato tutto quello che poteva dare, nel bene e nel male. Di qui l’esigenza di ripensare profondamente la democrazia. Su questa strada disponiamo già di diversi spunti interessanti. Ulderico Bernardi parla di una democrazia delle culture, Raimon Panikkar di democrazia delle persone. Il Mauss, in Francia, ha evidenziato, introducendo la tematica del reddito di cittadinanza, l’importanza di una partecipazione effettiva e il più possibile allargata dei cittadini. Alain de Benoist ha riflettuto sull’esigenza di disporre di un vero federalismo e sulla sovranità intesa nel senso di Althusius. È realistico tutto questo? Bisogna vedere cosa si intende per realismo. Ho molta considerazione e stima per questo filone del pensiero politico. Il suo nucleo di verità è l’idea che nella realtà è presente una res dura, un nocciolo, di cui occorre tenere conto e che niente e nessuno può sciogliere o stravolgere. Chi tenta di farlo si condanna al fallimento, allo scacco. Il problema è che molti sedicenti realisti tendono a ritenere che questa res dura coincida con lo status quo, in tal modo svilendo il realismo a esaltazione dell’esistente. Hannah Arendt ci ricorda però che è realistico anche attendersi dei “miracoli” in ambito politico. La dimensione del “miracolo” è anzi del tutto fisiologica nella vita activa, cioè in politica. Credo che un autentico pensiero realistico non possa prescindere da questa lezione della Arendt.  

 

 

D) Mario Tronti coglie acutamente il trasformismo ideologico della globalizzazione quando lo descrive come un fenomeno economicamente di destra, culturalmente di sinistra, politicamente di centro. Tu ti poni su una strada simile, ma originalmente prospetti uno scenario post-liberale più che antiliberale. Cosa intendi in merito e quale profilo culturale e sociale ha tale intuizione?

 

R) Le categorie puramente negative e reattive (antiliberalismo, anticomunismo, antifascismo, antiglobalizzazione, e così via) hanno la catena misurata, ci fanno restare prigionieri di ciò che pure, a parole, critichiamo e di cui vorremmo liberarci. Mi ha sempre colpito un’osservazione contenuta ne La Ribellione delle masse di Ortega y Gasset, saggio uscito nel 1930, quando il fascismo era alle soglie degli “anni del consenso”, come ebbe a definirli Renzo De Felice. Ebbene, in un contesto che sembrava così favorevole e promettente, il pensatore spagnolo scrive che il fascismo avrebbe perso il confronto col liberalismo perché, essendo solo “antiliberale”, era incapace di digerirlo. Il liberalismo, osserva Ortega, ha avuto storicamente le sue ragioni di cui ci siamo nutriti, e bisogna riconoscergliele; ma non ha avuto tutte le ragioni, come invece ci si vuole far credere, e quelle che non ha bisogna togliergliele. Lo scenario post-liberale è appunto quello dell’avvenuta digestione del liberalismo; è la presa d’atto che anche la sua parola, come tutte le parole storiche, non è eterna; che non è una “religione della libertà”, ma l’incarnazione di un particolare tipo di libertà, quella del borghese che vuole liberarsi da ogni impaccio di tipo trascendente o immanente per poter modellare il mondo, la vita e gli uomini a proprio piacimento. Questa libertà è ormai giunta al capolinea, il pianeta terra non è più in grado di sopportarla, e dobbiamo cercarne un’altra, più rispettosa della complessità e della ricchezza del vivente.

 

 

D) Tra i contestatori più recenti del modello liberal-democratico, ti riconosci nel richiamo “sovranista”, con il conseguente seguito di rivendicazione sociale in ambito statale e nazionale o a modelli di federalismo e democrazia integrale, come tessuto relazionale di un autogoverno comunitario?

 

R) Mi sento certamente più vicino alla seconda delle alternative indicate nella domanda. Il sovranismo lo reputo interessante soprattutto nella pars destruens del suo discorso, vale a dire nella sua critica della globalizzazione liberale e di una democrazia ridotta a elemento di facciata, a ripetizione sempre più stanca di vecchie liturgie. La parte propositiva, invece, finisce nelle secche della nostalgia di uno stato sovrano che è irrimediabilmente alle nostre spalle e che è illusorio pensare di rivitalizzare.

 

 

D) Quando evochi modelli di partecipazione politica in opposizione ai modelli rappresentativi sottendi una critica filosofica e antropologica all’individualismo utilitaristico. Ti rifai a modelli olistici? La crisi di cittadinanza può rianimarsi nel sentimento di appartenenza identitaria e territoriale?

 

R) Confesso che quando sento parlare di modelli divento un po’ diffidente, forse a causa della lettura di Canetti, il quale sosteneva che i modelli sono da un lato inevitabili, e dall’altro rischiano di risultare paralizzanti, ponendoci davanti agli occhi una perfezione irraggiungibile. Detto questo, aggiungo che anche il pensiero olistico ha, come il realismo, una sua parte di verità che consiste, al livello antropologico, nel considerare l’uomo non come un ente a sé stante, un atomo, ma come parte di un tutto, di una trama che lo comprende. Quest’idea, se non viene fraintesa come accade in certi ambienti del radicalismo (ad esempio, quello di destra che sfocia nel razzismo o quello ecologista che fa del mondo un museo, un intoccabile parco naturale), può certamente aiutarci nell’opera di “rianimazione”, spingendoci ad avere cura della realtà in cui viviamo – del territorio, dei luoghi, del paesaggio – a non considerarci padroni del mondo, autorizzati a qualsiasi rimaneggiamento o manipolazione.

 

 

D) Il pluriculturalismo è un richiamo politeista e identitario in contrasto con l’omogeneizzazione e l’integrazione culturale. Forse che riconoscendo l’“altro da sé” si riscopre anche se stessi? In tal senso, pensi che il relativismo culturale sia da intendersi anche sul piano morale come “relativismo etico?”

 

R) Il relativismo culturale ha avuto quantomeno il merito di aver richiamato l’attenzione sull’altro da sé. Storicamente, esso nasce proprio come reazione a concezioni universalistiche che comportavano una certa svalutazione dell’altro. Il relativismo culturale implica poi necessariamente anche un relativismo etico, ma la tesi che cerco di illustrare nel libro, rifacendomi a varie fonti (un passo del biblico libro di Giobbe e alcuni scritti di de Benoist e Cacciari), non è definibile come relativistica. De Benoist scrive senza possibilità di equivoco che il relativismo è una posizione insostenibile. Il relativismo è, in sostanza, una rinuncia alla ricerca della verità. Il pensiero oggettivo difeso da de Benoist nel saggio sui diritti umani e il sapere congetturale di cui parla Cacciari si muovono invece in direzione di una tale ricerca destinata, peraltro, a non finire mai.  

 

 

D) Nel tuo libro, arrivi a contestare anche il dogma stesso della modernità, cioè la fondatezza giusnaturalistica dei “diritti dell’uomo”. Ma quale scelta è possibile tra la dignità umana che si declina tramite la libertà individuale e l’imposizione arbitraria di una volontà sociale o politica? È ricomponibile il divorzio moderno tra pubblico e privato?

 

R) Non parlerei di una ricomposizione, quanto piuttosto di un riequilibrio; attualmente, assistiamo a un evidente sbilanciamento verso il privato. Quanto poi alla dignità umana, mi basta, e avanza, sapere che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Non avverto perciò, a livello individuale, alcuna esigenza di ricorrere alla dottrina dei diritti dell’uomo per affermarla. Nel libro cerco anzi di mostrare come tale dottrina rischi seriamente di negare tale dignità, nella misura in cui la riduce a quella del borghese moderno, occidentale. Da un punto di vista più generale, condivido la tesi, ricavabile sia dagli scritti di de Benoist che da quelli di Cacciari, che il terreno più propizio per l’affermazione dei diritti non sia quello della morale, ma quello della politica – di una politica intesa nel senso del pluriverso, cioè della valorizzazione delle culture umane e della loro interazione. Penso altresì che dovremmo cominciare a interrogarci anche sui doveri e sul senso di responsabilità, due cose molto bistrattate, senza le quali, tuttavia, nessuna civile convivenza è possibile. Prima vengono i doveri, poi i diritti; su ciò, Simone Weil ha scritto pagine importanti che andrebbero lette e meditate in questi nostri tempi “zapateristi”.

 

 

D) Tu ritieni inutilizzabili le categorie di destra e sinistra. Ma non è anche questo un segno della neutralizzazione del conflitto politico? Altrimenti, quali sono i confini ideologici di quel territorio originale in cui far fiorire nuove sintesi di pensiero?

 

R) Non sostengo che i concetti di destra e sinistra sono inutilizzabili; basta, d’altronde, accendere il televisore o leggere il giornale per constatare che sono continuamente utilizzati. Chi si riconosce nello scenario della fine della storia, che fa da sfondo al discorso della globalizzazione, continua ad usarli. In tale ottica, la politica consiste nello gestire i traffici economici, finanziari, umani e culturali del mondo globalizzato con dosi variabili di liberalismo: la destra spinge in direzione del liberismo, del “Vangelo Reagan-Thatcher”, la sinistra propone un liberalismo con tinte più “sociali” e “istituzionali”. Il problema è che tutto questo è, a mio parere, sempre meno rappresentativo delle vere poste in gioco: un crescita insensata e fine a se stessa che sta distruggendo l’ambiente, l’immigrazione, la convivenza in società multiculturali, la democrazia ridotta a vuoto rito, e via elencando. È questo il possibile brodo di coltura delle nuove sintesi.

 

 

D) Appurato che l’esistente non è “il migliore dei mondi possibili”, tu non ti accodi all’utopismo per il quale “un altro mondo è possibile”. Piuttosto ti richiami, con Carl Schmitt, a quel meraviglioso verso che apre la seconda parte del Faust di Goethe: “Anche stanotte tu/vegliasti, o Terra”. C’è quindi per te un destino ulteriore alla volontà di potenza della civilizzazione occidentale?

 

R) Destino mi pare un termine troppo impegnativo. Oltre a trarre da Schmitt la citazione del Faust, “rubo” a Nietzsche un brano del Rigveda: “Vi sono ancora tante aurore che devono risplendere”. Finché sulla terra vi saranno uomini – bisogna, infatti, cominciare a mettere in conto l’eventualità di un loro scomparsa, dal momento che, grazie alle biotecnologie, sarà un giorno tecnicamente possibile manipolare il patrimonio genetico umano, fino a ricavarne esseri che si farebbe fatica a definire uomini e tale eventualità è stata già realizzata, a livello per ora solo letterario, in un bel romanzo di Michel Houellebecq, Le particelle elementari – finché, dicevo, ci saranno uomini, saranno sempre immaginabili delle aurore, dei destini ulteriori, perché, come scrive la Arendt, l’uomo “è un inizio e un iniziatore”.   

 

Giuseppe Giaccio, Pluriverso. La politica nell’era della globalizzazione, Settimo Sigillo, Roma 2005, pagg. 183, euro 18,50.

 

 

 

 

Nel giro di pochi decenni, siamo passati dal “tutto è politica” al “tutto è amministrazione”; dalla fede nella politica come strumento privilegiato di cambiamenti epocali alla fede nel mercato visto quale paradigma insostituibile e unico di regolazione sociale; dalla retorica dell’azione politica esemplare che capovolge in un sol colpo le sorti di un popolo e di una nazione alla retorica della gestione aziendalistica del paese. Fra queste due visioni non c’è, in fondo, molta differenza. In entrambe, la politica è qualcosa di transeunte, un mezzo al servizio di un progetto che si presenta, e si legittima, come progetto di emancipazione. Raggiunta quest’ultima, la politica deperisce, non ha più senso.

Questo libro nasce da presupposti molto diversi. Anzitutto, dalla persuasione che il “politico” sia una dimensione permanente dell’uomo di cui, perciò, non ci si può sbarazzare a proprio piacimento. Inoltre, dalla convinzione che lo spazio politico è un “pluriverso”, cioè un luogo dove si dispiegano differenti visioni del mondo e dello stare insieme. Di qui la critica e il rifiuto di ogni discorso che abbia la pretesa di ingabbiare il divenire storico in rigide coordinate che dovrebbero condurci al termine della storia, con l’apoteosi finale della globalizzazione neoliberale.

Nei diversi capitoli del libro si possono scorgere altrettanti scandagli lanciati in varie direzioni dell’attuale panorama filosofico, sociologico e politico, alla ricerca delle tracce di un possibile nomos futuro. Il filo rosso che li unisce è l’idea che i giochi non siano ancora fatti, che ci sia ancora spazio per chi vuole costruire un mondo più degno dell’uomo. Perché, come si legge nel Riveda, “vi sono ancora tante aurore che devono risplendere”.

 

 

 

INDICE. Premessa. I. Globalizzazione. II. Rivoluzione. III. Democrazia e referendum. IV. Multiculturalismo e differenze. V. Immigrazione. VI. Diritti dell’uomo. VII. Destra e sinistra.

Conclusione.

 

 

 

Giuseppe Giaccio. Dottore in giurisprudenza, traduttore. Collabora alle riviste di cultura politica “Trasgressioni” e “Diorama letterario”. Ha al suo attivo la traduzione – dal francese, dallo spagnolo e dall’inglese – di numerosi testi di carattere perlopiù politico, filosofico e teologico.