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L'Italia torna agli anni '50, tra biciclette in strada e boom di giovani emigranti

di Luca Aterini - 10/05/2013


La ripresa passa per la manifattura di qualità: le risorse ci sono, manca la volontà politica

 

 

Giovane, intraprendente e con una buona preparazione, magari la laurea in tasca: l'identikit del migrante italiano è oggi molto lontana dall'immagine dei disperati migranti dell'Italia rurale del dopo-guerra che, seguiti da valige legate con lo spago e povere cose dentro, partivano verso terre straniere per trovare di che nutrire sé stessi e le proprie famiglie. Non sono però nemmeno quei ragazzi «cresciuti col mito dell'Erasmus», come ha dichiarato di essere stato il premier Enrico Letta, che givano il Vecchio continente per pura sete di conoscenza ed esperienze. I giovani di oggi lasciano dall'Italia perché, ancora una volta, affamati di lavoro.

Partono con amarezza, destinazione prediletta la Germania. «Secondo Reiner Klingholz - scrive il Sole24Ore - dell'Istituto di Berlino per la popolazione e lo sviluppo, buona parte dei nuovi arrivati tornerà al Paese di origine non appena la situazione economica migliorerà». Nel 2012, la Germania ha visto sbarcare sul proprio territorio più di 1 milione di immigrati, una crescita del 13% rispetto all'anno prima: è il più massiccio flusso migratorio da vent'anni, per il Paese. I migranti arrivano dai Paesi dell'est Europa, ma soprattutto dai Piigs del sud, ossia Portogallo, Spagna, Grecia e infine Italia. In un solo anno, dal Bel Paese se ne sono andati in Germania in 42mila (su 78mila emigranti totali), addirittura il 40% in più rispetto al 2011.

Sono ragazzi e giovani adulti che se ne vanno dall'Italia, un Paese invecchiato e che vedono in profondo declino. Per chi sente giustamente come un diritto quello di tentare a sfrecciare sull'autostrada della propria vita, provarci in un Paese dove le vendite delle biciclette hanno superato quelle delle automobili pur diminuendo dell'8,2% (come illustrano i dati di Confindustria Ancma) viene vissuta come una partenza col freno a mano tirato.

La parabola della mobilità sembra calzare a pennello come quella del Paese. Nel 2012 il traffico stradale è diminuito del 34% in Italia, le bici si vendono più delle auto, ma non è (solo) la conversione ecologista degli italiani che avanza. Forse se avessimo avuto più biciclette e meno ingiustizia economico-sociale negli anni dello scialo e del debito, ora avremmo più ragazzi che vanno al lavoro in bicicletta in un'Itala più giusta e meno inquinata. Invece ora è decrescita infelice: non è una scelta volontaria, ma viene subita come una sconfitta, e un simbolo della disuguaglianza che accelera. Non è un caso se, mentre la Fiat di Marchionne annuncia (ieri) investimenti nel lontano Brasile per 5,7 miliardi di euro - che prevedono la creazione in loco di 7.700 nuovi posti di lavoro diretti e di altri 12 mila indiretti - l'extralusso Lamborghini possa permettersi di ampliare il proprio stabilimento di Sant'Agata Bolognese, e mettere in cantiere l'arrivo di altri 60 dipendenti. Come non è un caso che la Lamborghini sia ormai sotto il controllo della tedesca Audi.

Tra biciclette e migranti, in un quadro che in questo ricorda quello degli anni '50, in Italia ci stiamo accorgendo ora a quanto sia valso il modello di sviluppo inadeguato che abbiamo seguito in questi decenni, su quali fragili basi si sia innalzato il nostro arricchimento. Ma non è troppo tardi: come negli anni '50, possiamo e dobbiamo pretendere una nuova fase di sviluppo, stavolta sostenibile. Fondata sulla manifattura di qualità, che ha fatto la fortuna della Germania e che proprio laggiù sta attirando i nostri talenti, anche se nel nostro Paese mantiene radici profonde.

Per mettere a frutto quell'enorme risorsa di capitale umano che oggi si trova costretta alla fuga all'estero occorre pensare a come sviluppare tessuto economico nazionale verso produzioni a più alto valore aggiunto, efficienti nell'utilizzo di risorse per essere competitive sul piano internazionale e sostenibili su quello ecologico. Una politica industriale degna di questo nome, che non abbia paura di essere tacciata di dirigismo, visto che anche nel "miracolo tedesco" della democristiana Merkel ci sono molte delle intoccabili politiche socialdemocratiche che mitigano le differenza sociali che da noi sono diventate baratro.

Le risorse per quest'inversione di rotta ci sono, si possono trovare anche indirizzando meglio quella spesa pubblica che ora viene colpita dall'ideologia dell'austerità, ma rappresenta invece uno straordinario volano per lo sviluppo. Come ricorda l'economista Gustavo Piga, citando lo studio di tre ricercatori italiani pubblicato sull'American economic review «Quanto spreco negli acquisti di beni e servizi potrebbe essere eliminato nel portare "il peggiore al livello del migliore? [...] Se tutte le stazioni appaltanti dovessero pagare gli stessi prezzi della decima migliore su cento, la spesa scenderebbe del 21% [...] Dato che le spese di beni e servizi sono l'8% del PIL, se gli acquisti ricompresi nel nostro campione fossero rappresentativi di tutti gli acquisti di beni e servizi, i risparmi andrebbero dall'1,6% al 2,1% di PIL". A cui andrebbero sommati gli sprechi non tanto dovuti ai prezzi ma alle eccessive quantità acquistate. 3% di PIL? Certamente. 50 miliardi di euro. Risparmi. Da usare per farci spesa vera». Con fatica, dunque, ma alcune risorse si possono trovare anche in casa nostra, senza aspettare l'Europa. La risorsa più scarsa di tutte, però, sembra essere la volontà politica di agire.