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Pessimismo, irrazionalismo, disperazione sono la via obbligata al cristianesimo?

di Francesco Lamendola - 10/05/2013


 


 

Si suole parlare di esistenzialismo ateo e di esistenzialismo cristiano: quello di Sartre e Camus contro quello di Gabriel Marcel e di Berdjaev.

Ogni definizione vale quello che valgono le etichette, e noi non staremo qui a discuterla: tanto varrebbe discutere sul sesso degli angeli. Piuttosto ci sembra interessante partire da una riflessione sul cosiddetto esistenzialismo cristiano, per vedere se i suoi presupposti filosofici siano la via necessaria per giungere al cristianesimo.

Partiamo dall’esistenzialismo tout-court, senz’altra specificazione. Esso sostiene che la persona umana si caratterizza innanzitutto per l’esercizio della libertà, vista, quest’ultima, come irriducibile a qualsivoglia principio d’ordine, sia esso immanente o trascendente. Però la libertà si esplica per mezzo di una scelta di un atto e ciò, a giudizio degli esistenzialisti, rende “inutili” e vacui tutti i momenti dell’esistenza in cui la libertà non si esercita, anzi, giunge a disgregare e dissolvere l’unità della persona. Infine, la libertà arriva ad essere una maledizione, così come una maledizione sono gli altri, che limitano da ogni lato la mia libertà: «l’inferno sono gli altri, dice Sartre».

Di qui si giunge, inevitabilmente, al più cupo pessimismo: un pessimismo che, dell’esistenzialismo di Kierkegaard, ha conservato solo la “pars destruens”: l’angoscia come condizione tipica dell’uomo, lo scacco davanti ad essa, il senso di fragilità, di precarietà, di smarrimento della coscienza davanti a una realtà incomprensibile e apparentemente assurda; ma non la “pars costruens”, ossia il salto nella fede, il paradosso della fede, l’aspirazione alla ricomposizione del conflitto e la cristiana speranza fondata sulla Lieta Novella dell’amore divino.

È vero che anche in Kierkegaard, proprio in quanto pensatore luterano – che pure va molto oltre Lutero e il suo desolante pessimismo antropologico - permane una marcata propensione a vedere l’uomo come povera creatura impotente e incapace di collaborare alla propria redenzione; anche in lui è Dio che fa tutto, che viene incontro all’uomo e che lo tocca, salvandolo, con il dono gratuito della grazia. – senza ch’egli mai sappia se tale dono gli verrà elargito o meno, perché indipendente dai suoi meriti, che sono comunque insufficienti.

In Kierkegaard, tuttavia, c’è una nobile aspirazione a trascendere la condizione disperante dell’uomo caduto nelle tenebre del peccato, ad uscirne per trovare la pienezza esistenziale nel’abbraccio di Dio, a deporre in lui la propria debolezza, fiduciosamente, sapendo che il paradosso della croce è proprio quello di accettare di perdersi, per potersi ritrovare. Invece negli esistenzialisti moderni questa aspirazione non c’è, l’uomo è chiuso in se stesso, nel circolo stregato e asfittico della propria finitezza, assurdamente prigioniero della propria libertà, di cui non sa che farsene, perché ogni volta che sceglie qualcosa, si priva di essa e cade nell’auto-annullamento, dato che la scelta coincide con il diventare altro da quel che egli è, dunque diventare nulla.

Per Sartre, il nulla è ontologicamente legato all’essere, e l’essere della coscienza è la coscienza del nulla, perché quando la coscienza pensa qualcosa, si protende verso qualcosa, diventa altro da sé e dunque si annulla: diviene l’in-sé, tutto quel essa non è, gli oggetti che abbraccia. La coscienza è l’essere per sé: ma questo essere per sé le sfugge continuamente, perché, per estrinsecarsi, essa si fa quel che non è, esce da sé e si annulla. L’uomo, dunque, è perennemente fuori di se stesso, annaspa in un Limbo che lo costringe a una perpetua inautenticità, ad una eterna frustrazione, quella di non essere mai veramente libero, anche se la libertà, o proprio perché la libertà, è la sua condizione ontologica essenziale.

Il risultato di tale contraddizione è la nausea esistenziale: l’uomo è nauseato dalle cose che lo circondano, anche dalle più belle, perché lo afferrano e lo trasportano fuori di sé, in una dimensione che non è quella della coscienza; se, poi, la coscienza si raccoglie in se stessa, allora si annulla, non avendo alcun oggetto con cui determinarsi e in cui riconoscersi.

Pessimismo, irrazionalismo, disperazione sono la condizione “normale” dell’uomo; da qui al “salto” nella fede, in un cristianesimo che plachi l’angoscia esistenziale e combatta la nausea con la certezza in un senso superiore della vita umana, garantito dalla promessa divina, il passo, volendo, è breve: ed è ciò che hanno fatto Karl Barth, Léon Chestov e gli esponenti della “Philosophie de l’esprit”, fra i quali Gabriel Marcel, convertitosi al cattolicesimo nel 1929.

Ora, la domanda che ci poniamo è la seguente: è necessario disperare completamente dell’uomo, per giungere al cristianesimo? È necessario condividere il più totale pessimismo antropologico e trasferire ogni ansia di redenzione in qualcosa che sta radicalmente fuori di lui? Oppure è possibile arrivare al cristianesimo vedendo l’uomo come una creatura bensì decaduta, ma non per questo annientata, non per questo spregevole, non per questo del tutto impotente: come una creatura fatta a immagine di Dio e, dunque, in se stessa buona, anzi eccellente, benché ferita dal Peccato originale, e dunque capace di realizzarsi pienamente in Dio, collaborando con Lui alla propria redenzione e attuando in se stessa le proprie potenzialità positive, ossia portando al massimo grado l’eccellenza della propria umanità?

In altre parole: la via della croce va intesa come un riconoscimento dell’assoluta impotenza umana, della sua radicale insufficienza, perfino della assurdità della sua condizione nel mondo, e perciò anche della mancanza di senso del reale; oppure come un riconoscimento della inevitabilità della sofferenza, ma anche come la maniera in cui il male può essere trasformato in bene e la natura, la natura tutta, non solo quella umana, può essere redenta e collaborare essa medesima alla propria redenzione, nel quadro di un progetto amorevole fondato su Dio?

Gli esistenzialisti cristiani, un po’ come certi spiriti torturati dalla coscienza della propria indomabile concupiscenza (da Sant’Agostino a Léon Bloy), giungono a Dio attraverso la totale svalutazione dell’uomo: e pongono un Dio che fa tutto, mentre l’uomo non è capace di far niente, neanche di tendere la mano con la quale Lui li possa salvare. La loro sembra essere una reazione alla presunzione dell’uomo che vuol fare da solo, che vuol salvarsi da solo, che vuol prendere su di sé la responsabilità del mondo intero, perfezionandolo secondo i dettami della ragione; salvo poi precipitare nello sconforto davanti ai propri ripetuti fallimenti: il grande abbaglio del pensiero illuminista, i cui prodromi si manifestano già nell’Umanesimo e nella Rivoluzione scientifica del XVII secolo.

Certo, è un modo anche questo di giungere al cristianesimo: ma è il modo migliore, è il modo giusto? Per arrivare a riconoscere che solo Dio può tutto e che l’uomo, senza Dio, è l’ombra e l’aborto di se stesso, bisogna perciò calunniare la natura umana, calunniare la creazione tutta, e ritenere che l’uomo e il mondo, in se stessi, siano qualcosa di sbagliato e di malvagio, qualcosa di irrimediabilmente insensato, dimenticando che l’uomo e il mondo sono creature di Dio e, dunque, pervase da quel soffio, da quella luce, da quell’amore che da Lui s’irradiano e che conferiscono senso e dignità anche alla creatura più umile, anche all’ente più fragile e provvisorio?

Si tratta di vedere in modo equilibrato la condizione umana e il posto dell’uomo nel mondo, senza sopravvalutarne l’autonomia, ma anche senza negarla e disprezzarla, perché ciò equivarrebbe a negare o disprezzare la libertà e, dunque, a dichiarare fallimentare la creazione e il progetto divino da cui essa trae origine: il che sarebbe una contraddizione in termini. Dio non può essere né così goffo, né così impotente da aver creato un mondo che Egli solo può redimere, senza che questo collabori con Lui: sarebbe come dire che lo ha creato male, e che lo ha creato invano. Se il mondo fosse radicalmente insensato, se l’uomo fosse radicalmente cattivo, allora Dio non sarebbe più Dio: sarebbe un Dio malvagio; sarebbe il Diavolo.

La questione è stata riassunta con l’abituale chiarezza concettuale dal filosofo personalista Luigi Stefanini (L. Stefanini, «L’esistenzialismo», in: A.A. V.V., «Eresie del secolo», Assisi, Edizioni pro Civitate Christiana, 1954, pp. 84-87):

 

«[Gli esistenzialisti cristiani] hanno accettato il pessimismo, l’irrazionalismo, la disperazione , tutto ciò che costituisce l’esito fallimentare dell’esistenzialismo ateo, allo scopo di poter offrire, a tanto disastro, una riparazione religiosa.  Dove l’esistenzialismo ateo finiva, cioè al nulla del’uomo, essi ricominciavano per riempire questo vuoto col tutto di Dio. Essi scontavano l’esperienza luterana di Kierkegaard,  pere cui l’uomo altro non è che peccato e nulla può fare, nell’approfondire la sua persona e nell’esercitare la propria libertà, che mettersi in opposizione con Dio: sicché l’incontro dell’uomo con Dio avviene, per Kierkegaard, non già in seguito a una elevazione dell’uomo a Dio, con tutte le risorse positive della sua volontà e del suo pensiero, ma per uno scontro drammatico, per una collisione dell’umano e del divino, ciò che costituirebbe, secondo il teologo danese, il paradosso essenziale dell’esperienza cristiana. Non molto diversamente, Karl Barth, il teologo svizzero, attuale divulgatore dell’ispirazione kierkegaardiana nel mondo calvinista e luterano del nord, scava nell’uomo quanto più a fondo possibile per sottrargli ogni pregio, ogni virtù positiva, riducendolo al di qua della linea del nulla e della morte, affinché possa intervenire il divino a “invaderlo” e “requisirlo” con la fede e la grazia. Così Léon Chestov […] considera la ragione come la conseguenza del peccato originale dell’uomo e pretende che il riscatto religioso avvenga con la negazione della scienza, di ogni ordine legale e morale del mondo, andando verso l’irrazionale, l’impossibile, l’assurdo, che dovrebbero essere, appunto, le condizioni stesse in cui vive Dio. Anche Marcel, nei drammi del primo periodo, che sono stati detti “notturni”, ama accentuare tutti i motivi di tragica sconnessione dell’ordine terreno, per far emergere l’invocazione dalla disperazione, la speranza dall’irreparabile rovina di tutte le possibilità umane.[…]

Si tratta di vituperare l’uomo, per trarre da questo vituperio l’inno di lode al Creatore: di annullare la Creatura, affinché emerga la sovranità assorbente e risolvente della sovrannatura. Non è questo il buon metodo che la sapienza cristiana, custodita dal magistero di Roma, ha tramandato a noi. Invece di annullare le risorse dell’esistente creato, bisogna esercitarle nella loro rettitudine fino al limite estremo delle loro possibilità, per ricavare dallo stesso approfondimento dei valor umani il senso del limite dell’umano e l’appello a un compimento dell’uomo che dall’uomo non può derivare. La natura non è da “tollere”, ma da guarire, da redimere, da “perficere”. La via non è quella dello “svuotamento”, che Mastro Eckhart ha insegnato ai mistici del nord, ma quella della sovracostruzione, dell’innalzamento dell’uomo, della storia, della civiltà, su se stesse, con la capitalizzazione dei meriti e delle opere che Dio ha concesso all’uomo di trarre da se medesimo e dalla propria libertà, affinché sia affrettato l’incontro dell’uomo con Dio e sia reso fecondo nella natura il soccorso della grazia. Togliere qualche cosa alla perfezione delle creature è contestare la perfezione della virtù creatrice; contestare le virtù proprie delle cose è infirmare la bontà divina […]

In “Homo viator”, una delle sue opere redenti, G. Marcel scrive che la nostra generazione vede perseguita con straordinaria tenacia un’opera di sovversione sistematica, che non incide soltanto sui dati della rivelazione o sui principi consacrati della tradizione, ma sulla natura stessa dell’uomo e delle cose. Avviene perciò che, infettato dal contagio d’un mondo malefico, il cristiano stesso sia tentato ai giorni nostri di mettere l’accento sulla miseria e l’abiezione del mondo abbandonato a se stesso, per far meglio risaltare la virtù redentrice delle forze sovrannaturali che lo inquietano dall’alto e al’interno di se stesso. Ma con ciò lo spirito rischia di essere indotto a portare sulle cose un giudizio negativo che nel suo principio può essere sacrilego e che in ogni caso contribuisce fatalmente alla sconsacrazione progressiva del mondo umano, del mondo senz’altro,. “Bisogna riconoscere, mi sembra, che esiste un cristianesimo eretico,  senza dubbio, ma irrecusabile che, con la prevalenza accordata al piano escatologico, può affievolire o estinguere nelle anime k’amore della vita, cioè quello che chiamerei il senso etico-lirico della famiglia umana.  Molte anime, in ci fermentano ancora i germi del giansenismo, cedono senza dubbio alla tentazione di rinnegare l’umano e disertare la terra, forse senza avvantaggiarsi affatto, da tale loro disposizione, nei loro rapporti col cielo”.»

 

Noi non sapremmo dire, come invece ne sembra convinto Gabriel Marcel – e, con lui, Luigi Stefanini – se un siffatto cristianesimo, pessimista e “giansenista”, sia davvero un cristianesimo eretico; ci limitiamo a constatare che esso è sempre esistito, accanto a quello più ottimista, che trova in molte parabole e dialoghi del Vangelo, oltre che nel «Cantico delle creature» di Francesco d’Assisi, accenti di ammirazione e di lode per le creature e per la natura tutta, vista come il riflesso della perfezione e dello splendore divini.

Allo stesso modo, non sapremmo decidere – non è compito nostro - se l’unica maniera “giusta” di arrivare al Vangelo sia quella serena e ottimista, convinta dell’intima bontà del creato e fiduciosa nella capacità dell’uomo di protendersi efficacemente verso Dio, e se l’altra sia irrimediabilmente “sbagliata”. Forse è preferibile pensare che esistano numerose strade per arrivare alla Verità, sempre; e che ogni uomo deve costruire da sé la propria strada, certo con l’aiuto soprannaturale, ma seguendo un percorso che non è mai uguale a quello di nessun altro. Nel caso specifico, forse è più giusto pensare che la rivelazione della croce, come passaggio obbligato per arrivare a Dio, si possa intendere sia come riconoscimento dell’impotenza umana e della vanità dei progetti fondati sulla pretesa dell’autosufficienza, e dunque dallo scacco della sconfitta e dall’amarezza della disillusione nelle proprie forze, sia dalla operosa collaborazione con il piano di salvezza divino e con la volontà di portare alla massima perfezione le facoltà propriamente umane, la volontà prima di tutte, come adeguato trampolino per spiccare il balzo verso una verità più alta e una pienezza più soddisfacente, che egli, da solo, non è in grado di raggiungere.

Certo è che un giudizio interamente negativo sulla natura - e non soltanto su quella umana -, non corrisponde allo spirito del cristianesimo e reintroduce l’opposizione manichea fra un Bene celeste e un Male terreno, due polarità alternative e irriducibili l’una all’altra. Chi svaluta radicalmente la natura non può dirsi, pertanto, cristiano e chi pensa di poter giungere a Dio denigrando il mondo non Gli rende il dovuto onore, ma, forse inconsapevolmente, Lo bestemmia e Lo offende. Il malinteso di questo “cristianesimo”, radicalmente pessimista, è che esso confonde il piano del relativo e quello dell’assoluto, attribuendo al mondo una negatività che ha senso solo se confrontata con la perfezione celeste (e qui, forse, Stefanini ha frainteso Meister Ekhart). Il “mondo”, come è chiamato nel quarto Vangelo, è sinonimo di “male” solo se inteso come negazione del piano divino di salvezza: non in se stesso, non in quanto tale; pertanto la sua imperfezione è relativa, non assoluta. Umanamente parlando, quindi, non si può giungere a Dio se non passando attraverso la croce, cioè attraverso la negazione del “mondo”: ma questo non significa che il mondo in se stesso sia male, né significa che si debba cercare la croce o corteggiare il dolore con spirito masochista.

La croce si presenta all’uomo perché la sofferenza è ineliminabile dalla vita umana; e così l’ingiustizia, l’abbandono, la malattia e il supremo scandalo della morte, che pare annullare le cose più care e togliere significato all’intera esistenza. Il cristianesimo, allora, insegna all’uomo a portare la propria croce nel modo giusto, che è quello di Cristo: accettandola come invito divino a cooperare alla propria salvezza, perché solo così, solo vivendo in tal modo la sofferenza, è possibile trasformare il male in bene, l’assurdità in significato ricco e salvifico.

Se all’uomo non venisse richiesta questa cooperazione, il male non potrebbe essere trasformato in bene, né l’assurdo in significato; e lo scandalo degli innocenti che soffrono, lo scandalo della morte che annulla e pareggia ogni cosa con la sua falce affilata, resterebbero. Ma il cristianesimo ha una parola di vita da dire all’uomo, non di morte: e questa parola è che la natura può e deve essere redenta, e che all’uomo stesso è chiesta la sua attiva partecipazione alla redenzione, mediante la volontà, il sacrificio, la capacità di uscire dall’”io” cieco e narcisista, per dire “tu” e aprirsi al mistero dell’altro.

Ma, per aprirsi veramente al mistero dell’altro, bisogna aprirsi all’amore dell’Altro, che è sempre, a differenza di quello, assolutamente gratuito e assolutamente incondizionato: ed è qui che l’uomo ha bisogno di trovare un sostegno alla propria debolezza, alla propria insufficienza. L’amore dell’altro e per l’altro non è mai perfetto, è sempre insufficiente o inadeguato, è sempre velato di tristezza e costantemente minacciato dalla precarietà, dalla possibilità tremenda di annullarsi o da quella, ancor più tremenda, di trasformarsi nel suo contrario. Solo nell’Altro, esso diviene pieno e perfetto…