“Sovrano interiore” e “visione del mondo” nel pensiero stoico di Marco Aurelio
di Stefano Arcella - 24/07/2006
Uno degli aspetti più tipici del pensiero stoico di Marco Aurelio è la concezione dell’egemonikòn che, letteralmente significa “l’egemonico”, ossia “ la facoltà alla quale spetta il sovrano dominio”. Il senso di questo vocabolo, sfugge, però, ad un inquadramento razionalistico, comprendendo una pluralità di sfumature semantiche che coglieremo nell’analizzare gli aforismi dell’imperatore-filosofo, quali si leggono nei suoi Ricordi.
Egli espone anzitutto (II, 2) la sua concezione della tripartizione dell’essere umano, quale unità articolata in corpo, principio spirante (pnéuma) e “facoltà sovrana”. Un precedente di tale concezione può cogliersi nella teoria di Posidonio secondo il quale la vera essenza dell’uomo è il puro logos, il suo divino “demone”, termine adoperato anche da Marco Aurelio. Posidonio, però, rimase fedele alla tesi stoica tradizionale secondo la quale l’anima è una sostanza unitaria “pneumatica” - ossia il logos ed il pnéuma sono tutt’uno – mentre in Plutarco troviamo, per la prima volta, la separazione sostanziale fra noùs e psyché, secondo una rielaborazione platonizzante di Posidonio.
Il filosofo romano, essendo in età avanzata, è consapevole di essere prossimo alla morte ed invita se stesso (ma anche il suo lettore) a “disprezzare la carne” essendo questa soggetta alla legge della trasformazione della materia (VII, 9 ss.). Subentra, poi, un senso di calma e distaccata contemplazione nei confronti del pnéuma, il principio spirante, “un soffio che non è mai lo stesso, ma che in ogni istante viene emesso e riassorbito ancora”. Questa concezione della caducità e mutevolezza del corpo e del principio spirante, riflette, come si evince da altri passi, una visione dinamica dell’unità del Tutto; ogni cosa proviene dal Logos, dalla mente divina e tutte le cose sono quindi fra loro in un rapporto di reciproca interazione che non è di tipo meccanicistico, avendo tale connessione un carattere finalistico, poiché la mente divina ordinatrice dispone tutto in funzione della conservazione e della continuità dell’Universo.
Resta, dunque, l’egemonikòn, la facoltà alla quale spetta il dominio, la quale, per contro, è stabile e solida o, comunque, ha la possibilità di esserlo. Ciò non è detto in modo esplicito, ma è chiaro per il contrasto che Marco Aurelio pone fra le prime due facoltà da disprezzare e la terza da valorizzare. La concezione dell’egemonikòn al di sopra del pnéuma dell’anima animale corrisponde alle tendenze della cultura del tempo; infatti, la ritroviamo nel pensiero di due Gnostici, contemporanei dell’imperatore: Basilide e suo figlio Isidoro. Essa deriva dalla concezione orientale – che è presente, forse, anche nei Misteri Mitriaci secondo la lettura di R. Merkelbach – secondo la quale l’anima, nella sua discesa attraverso le sfere dei pianeti, si aggreghi degli elementi che sono estranei alla sua vera natura. Tale concezione non rientra negli orizzonti di Marco Aurelio, ma non può escludersi che essa sia penetrata nello stoicismo già tempo prima e la ritroveremo, inoltre, in Clemente Alessandrino.
E’, pertanto, inammissibile ed inaccettabile, per Marco Aurelio, che questo “sovrano interiore” sia asservito agli impulsi ed alle tendenze del corpo, poiché in tal caso, esso si ridurrebbe ad un fantoccio “mosso da impulsi contrari al bene comune”, quest’ultimo da intendersi in una duplice accezione: come bene comune ai vari elementi costitutivi dell’essere umano ed anche come bene comune agli uomini, poiché sullo sfondo, è sempre presente la visione unitaria, organica e dinamica del Tutto cosmico e la concezione dell’uomo come cittadino dell’oikuméne. Alla esortazione a mantenere desto e vigile il sovrano interiore e salda la sua supremazia, si aggiunge, immediatamente, quella ad abbandonare i lamenti “contro il destino presente o deprecazioni ostili contro l’avvenire”.
Nel suo pensiero cogliamo quindi un nesso strettissimo fra il sovrano dominio dell’egemonikòn e la serena accettazione del proprio destino, quali che siano gli eventi che ci accadono nella vita. Questo atteggiamento composto e virile ha il suo fondamento nella visione stoica del mondo di cui parlavamo poc’anzi e la cui influenza su Marco Aurelio è messa in rilievo da Max Pohlenz. Le opere degli Dei sono tutte dovute alla prònoia, ossia alla provvidenza della mente divina universale; le opere della fortuna non sono in contrasto con la “coordinazione e connessione” di eventi governati dalla prònoia. Il mondo, pertanto, essendo retto dalla prònoia, da questa intelligenza divina finalisitca, non subisce danno, né nel suo insieme, né nelle sue parti; esso è sempre orientato verso il proprio vantaggio come totalità, perché nel corso delle sue trasformazioni – che comportano mutamenti non solo dei composti ma anche dei singoli elementi – si mantiene sempre nell’esistenza e ciò che è bene per il tutto è bene anche per le singole parti. In altri termini, la natura e l’universo intero non si distruggono ma si trasformano in una prospettiva di continuità dell’Essere. L’istanza prioritaria è quella della Totalità, soltanto nell’ambito della quale le singole cose ed i singoli eventi assumono un loro senso. Di qui la necessità di mostrare gratitudine agli Dei “dal profondo del cuore” per tutto ciò che ci accade “qualunque cosa sia”.
Un pensiero siffatto, se calato nella concretezza della vita quotidiana, ha un impatto dirompente ed innovatore rispetto alla mentalità comune; esso sta a significare che anche eventi in apparenza sgraditi o luttuosi vanno accolti con gratitudine poiché tutto accade secondo un senso ed una logica di trasformazione e quindi di arricchimento personale e di elevazione interiore. Volendo poi applicare questa visione della Totalità ad eventi naturali recentissimi - quali lo tsunami dell’Oceano Indiano del 26 dicembre 2004 col suo esito cruento e catastrofico, i cicloni che in questi ultimi mesi hanno investito gli Stati Uniti e l’America centrale – essi acquistano un loro senso solo se collocati nella logica sovrumana dei grandi organismi viventi – la terra (coi suoi ritmi ed il suo respiro, le sue trasformazioni), l’atmosfera terrestre, le influenze cosmiche – tutto essendo riconducibile ad un finalismo insito nella mente divina universale che i Greci chiamavano Logos e che Marco Aurelio preferisce chiamare noùs. I riferimenti a recenti catastrofi naturali non sono casuali; la speculazione filosofica stoica va vivificata recuperandola ed attualizzandola come chiave di lettura degli eventi del mondo contemporaneo, per cogliere il senso delle singole vicende in una visione unitaria ed organica.
Grande tema – non solo filosofico ma anche di ordine più profondo, di carattere “misterico” – è il comprendere ed il conoscere la vera natura dell’egemonikòn, di questa facoltà sovrana in virtù della quale è possibile elevarsi a quella visione della Totalità di cui sopra. La lettura più accreditata è quella secondo cui egli accenna alla mente “la facoltà divina nell’uomo” già presente nel pensiero platonico. Questa “mente”, a ben vedere, non è riducibile alla razionalità, pur comprendendola in sé, poiché ha un più ampio contenuto che lascia scorgere l’essenza di un principio cosciente, di un Io inteso come identità profonda, come chiarezza consapevole, come calma autocoscienza che domina e dirige la stessa sfera del mentale, lo stesso flusso dei pensieri. Egli asserisce che la facoltà sovrana “non produce mai turbamento a se stessa” (VII, 16) e le attribuisce la dote di “bastare a se stessa” (VII, 28), ossia un’autosufficienza che sussiste sempre che la sua condotta sia giusta, cioè conforme alla natura dell’uomo. Il filosofo stoico le attribuisce, inoltre, la capacità della calma e dell’autodominio di fronte al dolore del corpo ed agli affanni dell’anima.
I doveri che l’egemonikòn è chiamato ad adempiere sono tre: il bene comune da perseguire (quindi il rifiuto dell’egocentrismo e dell’egoismo); il non cedere agli istinti corporei, ai moti del sentimento e dell’impulso irrefrenabile che sono di carattere animale; il dovere di non dare l’assenso senza riflettere prima di decidere e di agire, per evitare di essere tratti in inganno. In questo passo si definisce un vero e proprio contenuto morale, di linea di condotta, per cui la facoltà sovrana non si riduce ad una astratta capacità speculativa ma si sostanzia in uno stile di vita solidaristico (bene comune) e coniugato col senso della “retta azione” (per adoperare un termine della spiritualità buddista) ossia un’azione compenetrata di chiara motivazione e di intima, ponderata riflessione onde sventare le insidie degli uomini. In altri termini, l’amore per gli altri presuppone la cura e l’amore per se stessi, non potendosi dare agli altri ciò che in se stessi non si ha.
L’egemonikòn è paragonato ad un’acropoli inespugnabile (VII, 48); esso, infatti, è capace di raccogliersi in se medesimo, di decidere e di agire col proprio volere. L’acropoli interiore è, dunque, libera da passioni (un concetto ribadito in IX,7) laddove esorta l’uomo a “spegnere ogni desiderio troppo violento” e a mantenere indipendente la facoltà sovrana, la quale “regge ciascun individuo con particolare dominio” (VIII, 56); si tratta di un punto importante, perché nelle culture arcaiche l’uomo si percepiva meno come coscienza individuale e più come coscienza comunitaria e impersonale (di gens, di famiglia, di populus), mentre il sovrano interiore degli Stoici romani in età imperiale riflette un processo di individuazione che è tipico di una cultura più moderna, tutta imperniata sul senso della soggettività e sulla progressiva frammentazione dei grandi aggregati arcaici. Gli Stoici romani parlano all’uomo di un mondo già moderno e gli rivolgono un messaggio adatto alla sua condizione reale, da cui partire per un processo di elevazione.
Questo “sovrano” è quello che stabilisce la natura degli eventi che nulla sanno sul loro conto e nulla dimostrano, monito che sta ad indicare che il male non sta nei fatti ma nel modo in cui noi li valutiamo e ci poniamo rispetto ad essi. L’egemonikòn può quindi cadere in erronee rappresentazioni quando smarrisce la propria naturale chiarezza e si lascia dominare dagli impulsi e dalle passioni, pericolo ribadito in altri aforismi (X, 20). La componente inferiore dell’uomo, quella animale, difficilmente si adegua al dominio dell’egemonikòn; essa, per sua natura, è sfuggente ed in apparenza incoercibile. Di qui l’invito di Marco Aurelio “corri presso la facoltà tua sovrana, presso quella dell’universo, presso quella di costui” (IX, 22). L’egemonikòn è concepito come un foro interiore, uno spazio interno in cui trovare rifugio e, in analogia, tale rifugio può trovarsi nell’egemonikòn universale. La correlazione fra i due princìpi ha una netta somiglianza con quella vedica e delle Upanishad fra àtman e bràhman, fra scintilla divina individuale e principio spirituale universale.
La configurazione del sovrano interiore quale “acropoli” e “rifugio” non deve indurci a credere che quella stoica sia una posizione isolazionistica, poiché il filosofo esorta il lettore a compenetrarsi nell’interiorità altrui, così come gli altri devono fare egualmente nei nostri confronti. “Cerca di penetrare nella facoltà sovrana di ciascuno e di concedere a ognuno di penetrare nella tua” (VIII, 61). La visione organica ed unitaria del mondo e del cosmo implica un sentimento di solidarietà e di unione spirituale con tutti gli esseri, il che, però, non esclude, ma anzi postula una visione serenamente ed aristocraticamente pessimistica del prossimo, proprio perché ci si adopera per comprenderlo e per conoscerlo.
“Penetra pure – scrive Marco Aurelio – entro le loro facoltà sovrane e vedrai che razza di giudici tu paventi; che razza poi di giudici della loro interiorità” (IX, 18). Il pensiero stoico di Marco Aurelio è tutto centrato sul problema della libertà interiore e sulla necessità del dominio dell’egemonikòn sugli aspetti inferiori della natura umana. Questo principio sovrano è concepito come forza interiore cosciente e dominatrice, capacità di calmo autodominio, di equanimità e di distacco. Verso gli altri esseri vi è apertura altruistica ma anche limpida e distaccata valutazione dei limiti e della fragilità della natura umana. “Non sperare nella Repubblica di Platone! – scrive Marco Aurelio – Accontentati di fare un passo avanti, anche breve!” (IV,29). Il compito spirituale che il filosofo affida all’uomo è quello di rivolgere ogni cura ad onorare particolarmente la facoltà sovrana “quell’elemento divino che in te ha sede”, improntare tutto il presente al senso della pietas, della religiosità secondo il costume degli antenati ed al sentimento della giustizia e della rettitudine, affidando l’avvenire alla prònoia, con fiducia nella benevolenza degli déi.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Per l’approfondimento del pensiero di Marco Aurelio ci siamo basati sui suoi Ricordi, con introduzione di Max Pohlenz e con commento analitico di Marcello Zanatta, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1997.
Per una visione generale dello stoicismo greco e romano, si segnala al lettore l’opera di Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, voll. I- II, Ed. La Nuova Italia, Firenze, 1959. Per il rapporto con la Gnosi del II sec. d.C. cfr. Testi Gnostici (a cura di L. Moraldi), Ed. UTET, Torino, 1992.
Tratto, col cortese consenso dell'Autore, da La Cittadella n. 19, Messina, luglio-settembre 2005.