C’è più di un filo rosso che lega un dandy anni Venti, anticipatore del dissoluto postmoderno, a una leggenda del folklore mediterraneo del Seicento. Un’immagine per cominciare, mefistotelica e vermiglia, l’autoritratto del proteiforme Jean Cocteau scelto da Claudio Risé per la copertina della sua ultima fatica letteraria sul burlador de Sevilla. Due fieri narcisisti, tronfio il primo, Jean Cocteau, nel definirsi «una menzogna che dice sempre la verità», tronfio il secondo nel gloriarsi del «tutta Siviglia mi chiama l’ingannatore». «Più indagavo e più vedevo Don Giovanni, il delinearsi di una creatura diabolica. Più lo conoscevo e più ci vedevo la rappresentazione scarlatta che Cocteau diede di sé quando ancora i capelli li aveva tutti. E sfumavano, evocando le fiamme dell’inferno, come un demone senza volto, come Don Giovanni».
Dopo vent’anni di immersione nella psicologia maschile Risé racconta a Tempi che «era venuto il momento di confrontarsi con il precursore del moderno consumatore sessuale e del seduttore seriale. Che compare nella leggenda spagnola che il teologo seicentesco Tirso da Molina volle raccontare ne El Burlador de Sevilla y Convidado de pietra, per mettere in guardia il secolo appena uscito dalla Controriforma, cui Don Giovanni si ribella. Egli nega il codice morale su cui l’Europa aveva costruito la propria identità nel corso del Medioevo, e «annuncia già il codice erotico del 700, la crudeltà della Rivoluzione francese, del marchese De Sade, la freddezza burocratica e aritmetica degli Stati nazionali».
«Dopo anni passati a mostrare percorsi simbolici che aiutassero il maschio a riconoscere la propria identità positiva, sarebbe stato disonesto non confrontarsi con questa grande ombra del maschile che è Don Giovanni. Una figura di enorme modernità. Un’ombra interna a ciascuno di noi». Così, anno 2006, a maschi selvatici, amanti felici, e padri assenti, si affianca nelle librerie Don Giovanni, l’ingannatore. Trappola mortale per donne d’ingegno (Frassinelli, pagg. 159, euro 16), «l’interprete del consumo sessuale moderno, colui che proclama quella rivolta contro Dio Padre che si affermerà nei secoli successivi, e dà il via a quella celebrazione dell’uomo come misura di ogni cosa, non bisognoso di nulla al di fuori di sé».
L’eterna lotta contro il padre
Uno stupro veloce, nel buio: né cuore né anima per non lasciare niente di sé. Smentendo le forzature di chi l’ha confuso con Casanova (che lo disprezzava), o le bizzarre interpretazioni che la letteratura psicanalitica ha per anni dato della sua figura, a Don Giovanni le donne non interessano. Non sono il fine, bensì il mezzo per arrivare all’uomo cui appartengono. «Sia nel caso di donna Anna, figlia del commendatore, che di donna Elvira, consacrata a Dio, che di Zerlina, promessa sposa, possedere le donne che appartengono ad altri uomini, entrare in competizione con le leggi del mondo maschile: questa è la sola ragione che Don Giovanni conosce. E nel moltiplicarsi sfrenato delle violenze su questi modelli femminili, nell’intento puntuale di violazione della legge del padre che dà loro protezione, si evince bene, il riflesso di una lotta personale contro il padre divino».
E’ annunciata, racconta Risé, fin dalla prima scena del libretto di Lorenzo Da Ponte per Mozart, quando Don Giovanni uccide il padre di Anna, quel famoso convitato di pietra che nell’ultima scena tornerà dalla tomba per gettare lo stupratore di sua figlia nella bocca del diavolo. Lo intuiamo nel burlador di Tirso da Molina, che al proprio padre indirizzerà ingiurie e auguri di morte. Lo cogliamo definitivamente nella sequenza raccontata da Molière, dell’incontro col mendicante, schernito perché prega Dio e che Don Giovanni cerca di convincere a bestemmiare in cambio di un Luigi d’oro. Quale paladino di libertà, verrebbe da chiedere ai tanti che si ostinano a cantarlo come tale, Don Giovanni è «tutto fuorché un uomo libero, schiavo com’è della propria pulsione trasgressiva e del suo intento parricida».
A chi poi ha ironicamente ravvisato negli scandali recenti l’ombra di un Don Giovanni, o una risposta «maschile, italiana e romana» di certi esponenti di An (è il sense of humor di Beppe Grillo), Risé precisa che di maschile in vallettopoli «non c’è nulla. Posto che è del tutto evidente nelle paginate sulle intercettazioni l’aspetto manipolatorio di chi cerca di deviare l’attenzione dalle miserie del governo, non è certo virilità quella di colui che viola la legge maschile – l’innata disposizione alla tutela della donna o di chi è più debole – per il proprio profitto. Questo è, invece, narcisismo. Sul piano narcisista sì, le seduzioni di Don Giovanni, oggi si ripropongono e dilagano. L’alternativa tra codice del rispetto dell’altro e del dono (col suo contenuto sacrificale), e alimentazione dell’interesse personale, è la stessa che si propone decine di volte in una sola giornata, ad ogni uomo e ad ogni donna, tra il cedere al narcisismo distruttivo di Don Giovanni, piuttosto che mendicare la capacità di servizio e amore per il prossimo di Parsifal».
Don Giovanni non è solo
«A Lanciano tutte lo volevano, ma soprattutto una: quella di maggior ingegno…». La storia ha regalato a Don Giovanni mille volti, ma senza mai scalfirne la più intima essenza, la stessa ravvisata da Risé nell’identikit dello stupratore di Lanciano (un brutto caso di cronaca dello scorso anno, in provincia di Chieti): «Prima ancora di essere un sedotto/seduttore, è un amante del caos. Un nemico assoluto dell’ordine, la lotta al quale è la sua vera passione». A volte solitario, ma anche accompagnato da una corte di aiutanti, che oggi hanno smesso i panni dei servi seicenteschi, e vestono ora quelli degli amici del capo branco di Lanciano, ora quelli di chi è solito lasciarsi affascinare da false promesse di soluzione immediata, gratuita e indolore di ogni difficoltà. Tuttavia non è mai scomparso, perché è un «aspetto dell’ombra di ogni uomo». Che trova terreno in quella che Risé definisce «una sessualità molto moderna, seriale, impersonale, da dark room di scambisti».
Dove la vita sta tutta chiusa in una provetta, il papà è il prodotto in saldo in un supermercato del seme, e le coppie scoppiate aprono le porte a Don Giovanni sperando di uscire dalla depressione. Sembrerebbe che non vi sia via d’uscita. «Eppure, scriveva proprio Mozart a suo padre nella sua ultima lettera del 1785, è il pensiero incessante della fine che “consente di indirizzare la vita: ci sono atti che non si possono compiere, desideri che ripugna soddisfare, fedeltà da non infrangere”. Il confronto con Don Giovanni fu per Mozart, come può essere per ogni uomo, un potente confronto con la propria non onnipotenza, e con l’importanza della prospettiva della morte. «La consapevolezza della propria fine è la grande forza di indirizzo dell’esistenza, e contiene un sapere di significato trascendente. Per questo essa è così impopolare nell’epoca della tarda modernità, che si culla in fantasie di onnipotenza».
Sarà donna Elvira, nel libretto di Da Ponte, a raccogliere in una sola parola la chiave della salvezza per chiunque cada nella trappola di Don Giovanni e nelle sue regole: cuore. «Solo il cuore, e qualcuno che richiami alle esigenze del cuore, distrugge il programma mentale, intellettuale, demoniaco che oggi reca il marchio dell’indifferenza, quello di Don Giovanni».