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Il passato che non passa

di Fiorenza Licitra - 31/07/2013



«I vostri antichi signori, o piuttosto i re dei vostri padri, erano degli ingrati», rammenta donna Blanca – cristiana spagnola discendente da El Cid – ad Aben-Hamet, nobile musulmano suo innamorato. «Che importa»,  risponde lui, «dal momento che hanno conosciuto la disgrazia!». Il Moro replica a tono, ma senza il rimpianto dei vinti e tanto meno, l’inspiegabile acrimonia dei vincitori. E’ in pace, lui; la pace, calma e raccolta, che fa seguito a ogni autentica sconfitta.
Da questo spunto letterario – “Le avventure dell’ultimo degli Abenceragi” di Chateaubriand – parte la riflessione sulla notizia del compleanno di Priebke che in questi giorni infiamma la polemica: da una parte, la maggioranza democratica e gravemente offesa per il fatto che un “criminale di guerra” – nonché un uomo –possa addirittura festeggiare (pure se privatamente) i suoi cento anni; dall’altra, i soliti allocchi sempre pronti ad abboccare ai tranelli dell’indignazione, i quali, sotto casa di Priebke, osano esporre striscioni con tanto di “Auguri, Capitano!”, completando il gioco e concedendo legittimità ai timori di certe calandre. Niente di nuovo sotto il sole, dunque: se non fossimo nel 2013, a quasi settant’anni di distanza dall’episodio delle Fosse Ardeatine, sembrerebbe proprio di trovarsi nell’immediatezza della vicenda.
Paolo Giachini, avvocato di Priebke, seppur con termini poco urbani, ha dichiarato di fregarsene del clamore scandalistico sollevato dai media, e tra tutti gli starnazzii sembra l’unico ad avere ragione; non contento, ha poi aggiunto che è il suo assistito a essere perseguitato. E’ vero, lo è, dagli uni che, risentiti, partecipano a un eterno “giorno della rivalsa”, e dagli altri, invischiati nella nostalgia più tetra.
Il punto della questione, tuttavia, non è domandarsi se Priebke meriti o meno di festeggiare il compleanno come un individuo qualsiasi, ma capire fino a quando si protrarrà lo “scandalo della memoria dei vinti”, fino a quando durerà il tabù del raccontare, e quindi, dello scrivere, gli eventi per quello che sono stati nella loro interezza e, se è possibile, realtà. E ancora fino a quando i cosiddetti “vinti” si sentiranno vilipesi, soggiogati, derisi e, insomma, perdenti.
La guerra civile non è avvenuta solo nei campi di battaglia, in trincea o sull’Appennino; purtroppo accade tutt’ora, è tremendamente in voga, senza però essere attuale: è nei divieti a scoppio ritardato, negli ammonimenti dei politicanti o di chi per loro e, infine, nelle provocazioni e nei tafferugli che sono ad essi perfettamente corrispondenti. Bisogna però uscire dalle parti opposte, da quelle acquisite e da quelle comunque sofferte quasi sulla propria pelle, non  per tradirle com’è uso e costume italico, ma per smettere dei panni che ormai sono striminziti.
E’ manicheo, il tempo del vinto/vincitore, sottoposto inesorabilmente a una visione unilaterale e, molto peggio, monolitica della storia. E’ innaturale e comunque faziosa, questa falsa ripetizione delle ire altrui, delle vite degli altri, pure se sono nostri avi.
Qui, è bene comprenderlo, si tratta non soltanto di una questione di rispettivi torti e di ovvie ragioni, ma anche di concedersi finalmente “lo scorrere del tempo”, del passato che passa, per la conquista di una storia personale e di uno spazio vitale, che siano propri e quindi irripetibili.
Non può esistere perdono senza reciprocità, ma ciò implica quell’accettazione di nietzschiana memoria. Che lo sappiano, questi “postumi anodini” e che, a maggiore ragione dell’età conseguita dai loro padri, non cadano nel ridicolo solo per un pavloviano riflesso storico.