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Le cose ci divengono estranee e minacciose quando non ne amiamo l’anima, ma la superficie

di Francesco Lamendola - 31/07/2013



 

Accade che il paese, in cui siamo nati e vissuti, improvvisamente ci divenga estraneo, soffocante; che un caro amico ci diventi indifferente o addirittura molesto; che la collezione di francobolli o la pratica del pattinaggio, che allietavano le nostre giornate, d’un tratto non ci dicano più nulla: e che le abbandoniamo, così, senza neppure un’ombra di rimpianto.

Non si sa bene perché si verifichino tali disaffezioni, tali disgusti; ma è così. E la cosa più interessante, per certi aspetti perfino sconcertante, è che non accadono a quel tipo di persone, viziate e capricciose, da cui ci si potrebbe aspettare incostanza e ingratitudine, ma, proprio al contrario, da persone che possiedono una maturità complessiva molto maggiore.

È un fatto che la nausea del mondo, o, quanto meno, il senso di estraneità e di alienazione nei confronti di esso, di solito coglie non le persone distratte e superficiali, ma proprio quelle che possiedono una sensibilità profonda e non lo guardano in maniera distaccata e utilitaristica, ma con una intensa partecipazione emotiva ed affettiva.

Come si spiega questo apparente paradosso? Forse si spiega così: le persone molto sensibili amano la bellezza; e la bellezza è una grazia, ma può essere anche una trappola. È una trappola quando ci aiuta ad andare oltre la superficie e prepara il nostro incontro con l’anima delle persone, delle cose e dei luoghi; diventa una trappola quando ci cattura e ci imprigiona nel cerchio stregato della sua finitezza, nel vicolo cieco della sua materialità. E questo accade alle persone sensibili, se in esse non vi è, accanto alla sensibilità, una certa capacità di filtrare la materialità della bellezza e di accostarsi, con stupefatta trepidazione, al mistero ineffabile dell’anima.

Ogni persona, ogni cosa, ogni luogo possiedono un’anima; e quel che essi attendono da noi non è che diventiamo degli adoratori della loro bellezza esteriore, ma che collaboriamo a redimerle attraverso il disvelamento della loro essenza spirituale. È troppo facile innamorarsi della bellezza materiale: tutti ne sono capaci; anche quanti hanno un’anima volgare, anche i perfetti egoisti, anche i superficiali e gli immaturi. E una bella donna, per esempio, che possieda anche un’anima profonda, o che almeno possieda la nostalgia della propria perfetta spiritualità, in realtà non vuole essere ammirata e desiderata per quello che tante altre donne possiedono, ma che è un dono della natura e non una conquista personale; ma per ciò che sfugge all’occhio distratto e all’ammirazione frettolosa, perché si cela nelle profondità dell’essere e si lascia scorgere solo da chi è dotato di elevate qualità morali.

Così, come del resto pensava anche Platone, la bellezza dei corpi può divenire una via d’accesso alla bellezza spirituale e, da quest’ultima, può guidarci fino alle soglie del Bello in sé, che coincide con il Bene e con il Vero; ma, se noi non sappiamo partire da essa per compiere un salto di qualità, restiamo invischiati nella dimensione inferiore della brama e del timore (la brama di possedere quei corpi e il timore di perderli), né sappiamo fare nulla di buono per l’anima che in quei corpi è racchiusa e che da noi attendeva qualcosa di più e di diverso che la semplice adorazione o il banale desiderio sensuale: attendeva, forse, un aiuto e un appoggio alla propria evoluzione e alla propria redenzione.

Gli spiriti “laici” e “razionali” insorgeranno davanti a quest’ultima affermazione: di quale mai  redenzione avranno bisogno, le cose? Le cose, essi dicono, sono autosufficienti, sono piene di “coseità”: non derivano da un principio esterno e, pertanto, vanno bene così come sono; qualunque intervento non potrebbe essere che peggiorativo.

È significativo che a ragionare così siano, sovente, proprio i campioni della manipolazione delle cose: tutti coloro i quali, animati da una mentalità neo-positivistica, pensano che la natura, quanto meno, debba essere “corretta” a favore dell’uomo; per non parlare delle cose artificiali, che essi manipolano incessantemente, sempre al fine di rendersi la vita più comoda. Sono quelle persone che, quando vanno ad abitare in un nuovo appartamento, per prima cosa si mettono a buttar giù muri, a cambiare le piastrelle, a installare enormi stufe di maiolica: niente di quel che c’era prima sembra andar bene, per esse: eppure la casa l’avevano vista, era loro piaciuta; però ad, adesso che ci devono abitare, non si accontentano di meno che una radicale ristrutturazione, al punto che il precedente inquilino non riconoscerebbe più la propria casa.

Ma, a parte ciò, le cose attendono di essere rendente proprio dalla loro “coseità”: sono imprigionate in essa come diamanti nella roccia, e anelano a qualcosa o qualcuno che le aiuti a spezzare le pareti del carcere e a trovare il respiro, l’aria e la luce, divenendo così quello che devono divenire, rese perfette dal trascendimento del puro dato materiale. Per quanto belle esse siano “al naturale”, tale bellezza è poca cosa in confronto a quella che raggiungono allorché rompono il bozzolo in cui sono avvolte e risplendono in tutto il loro essere. E se questo accade per le cose, ad esempio per una gemma estratta dalle viscere della terra, pulita, lavorata e indossata da una trepidante fanciulla, a maggior ragione è vero per gli esseri umani, che non possono accontentarsi del proprio dato biologico, ma devono lavorare su se stessi per passare dalla condizione di “individui” a quella di persone, nel senso più completo e armonioso della parola.

Nel mondo moderno, peraltro, la bellezza è quasi universalmente identificata con la bellezza dei corpi e le persone capaci di andare oltre la dimensione materiale – che pure non va disprezzata, ma, anzi, deve essere accolta come un dono prezioso – sembrano essere sempre meno numerose; ovunque imperversano, infatti, il ricatto della giovinezza, l’obbligo della salute, il dovere dell’erotismo (spesso, peraltro, con risultati grotteschi o patetici, comunque di segno opposto a quello desiderato).

Ribadiamo il concetto: non c’è nulla di sbagliato nel rendere il giusto omaggio alla bellezza dei corpi, purché non si tratti di una resa a discrezione nei confronti della tirannia che essa è in grado di esercitare sulle anime deboli. Ma la sensibilità nei confronti della bellezza deve andare di pari passo con la virilità del sentire e del pensare, perché solo esercitando quest’ultima si previene la tirannia della bellezza e si trasforma la bellezza medesima nella prodigiosa porta d’accesso al mistero delle anime che quei corpi racchiudono.

È, questa forma di distinzione fra l’anima e il corpo, la premessa di una ennesima versione del dualismo, che tanto affligge – si dice - la cultura occidentale? Può darsi. Ma solo se ci si ostina a ragionare in termini oppositivi ed esclusivi, vedendo l’anima e il corpo come due realtà opposte e antitetiche; perché quando ci si è innalzati sopra la dimensione della materia, che è quella del relativo, si scopre che le antinomie sono solo apparenti e che il corpo non è l’opposto dell’anima, ma solamente il suo lato visibile. In altre parole: i corpi esistono, non sono illusione; né la loro bellezza è una illusione dei sensi; ma che i corpi siano fatti di materia, intesa come un principio separato e contrapposto allo spirito, questa sì è una illusione: la stessa illusione che tanto ci angustia quando pensiamo che, con la morte, i corpi si dissolveranno e la vita si spegnerà con essi, totalmente e irrevocabilmente.

Ecco perché bisogna imparare ad amare la bellezza dei corpi, senza però restarne invischiati, ma proiettandosi oltre di essa: verso la bellezza perfetta che i corpi lasciano solo intravedere (quando non la occultano addirittura), che è quella dell’anima. Vi sono infatti dei corpi che, pur essendo belli, non brillano, non risplendono, ma sono di una bellezza opaca, che non lascia intravedere nulla: sono i corpi di chi è povero di anima e ricco solo di un ego distorto e ipertrofico. Vi è qualcosa di necrofilo nel desiderio che si accende verso tali corpi.

Se non riusciamo a compiere un vero salto di qualità; se rimaniamo attaccati alla sensualità delle cose, prigionieri ed ostaggi di esse, allora le cose si rivoltano contro di noi, diventano estranee e minacciose; appaiono incomprensibili, come quando si fissa un oggetto familiare da una distanza minima finché, a un tratto, non lo si riconosce più ed esso ci diventa incomprensibile.

Si prenda la poesia del brasiliano Carlos Drummond De Andrade (1902-87), «Notturno oppresso», tradotta in italiano da Giuseppe Ungaretti (da: A.A.V.V., «Iperione. Antologia di scrittori italiani e stranieri», Milano, Casa Editrice La Prora, 1950, pp. 704-05):

 

«NOTTURNO OPPRESSO

 

L’acqua cade nella cassa con una forza,

con un dolore! La casa non dorme, è stupefatta.

Permangono i mobili incarcerati

nella loro povera materia, ma l’acqua si diparte,

 

l’acqua protesta. L’intera notte essa bagna

con il suo fiato feroce, col suo gridìo.

E sui nostri corpi si fa voluminoso un lago nero di non so quale infuso.

 

Ma non è paura d’una morte d’affogato,

l’orrore dell’acqua che picchia i nostri specchi

e raggiunge gli scrigni, i libri, arriva alla gola.

È il sentimento d’una cosa selvaggia,

 

sinistra, irreparabile, lamentevole.

Oh! Precipitiamoci nello spesso fiume

che abbatté l’ultima parete

tra le scarpe, croci, e i pesci ciechi del tempo.»

 

Ecco come una banale perdita d’acqua in una casa possa trasformarsi in un incubo pauroso e alimentare tutta una serie di fantasmi, di inquietudini, di allucinazioni; ecco come gli oggetti noti possano rivoltarsi contro di noi, e la loro familiarità trasformarsi in estraneità incomprensibile e beffarda, o persino ostile; ecco come il mondo che credevamo di conoscere perfettamente cambi volto da un’ora all’altra, da un momento all’altro, lasciandoci sbigottiti e oppressi, come naufraghi gettati da un fortunale sulla spiaggia di un’isola sconosciuta e terribile.

La nausea è il sentimento che domina l’uomo moderno, da quando egli si è illuso di averne compreso il mistero; allorché ha creduto che basti possedere le cose, che basti manipolarle e goderne materialmente, per sentirsi signore e padrone del mondo. Invece il mistero delle cose è irriducibile; e il mistero della loro bellezza, è un ulteriore mistero, un mistero nel mistero, davanti al quale bisogna avvicinarsi con umiltà, ma anche con sguardo limpido e cuore puro. Se non vi è umiltà, se lo sguardo non è limpido e il cuore non è puro, il mistero non si rivela all’uomo e la bellezza delle cose diventa la sua maledizione; la sua, e anche la loro.

In questo senso, crediamo, Platone parlava del corpo come del carcere o anche come della tomba dell’anima: non in nome di un implacabile dualismo, che suoni come una imprecazione contro la bellezza dei corpi, ma come la scoperta che le cose giacciono imprigionate in se stesse fino a quando non le sappiamo vedere e accostare con amore puro, cioè riconoscendo il grande mistero dell’anima che si cela in loro.

I veri dualisti non sono colori i quali riconoscono questo mistero che si cela dietro le cose, lo accettano e si inchinano davanti ad esso; ma i seguaci di un naturalismo che, con l’aria di voler rivendicare la “dignità” del mondo, lo mutila di ciò che gli è essenziale: il richiamo alla trascendenza, alla dimensione ulteriore che si è soliti denominare “anima”; e introduce, così, un elemento di squilibrio, di disarmonia, di bruttezza.

La bellezza autentica delle cose non è alla loro superficie, ma nel legame fra ciò che di esse appare anche a uno sguardo distratto e ciò che si nasconde e richiede, invece, una capacità di penetrazione e di spiritualizzazione: cosa, questa, riservata solo alle anime capaci di elevarsi oltre la contingenza.