Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Che cosa possiamo dire a colui (o a colei) che ci ha inflitto un male così grande?

Che cosa possiamo dire a colui (o a colei) che ci ha inflitto un male così grande?

di Francesco Lamendola - 05/08/2013




 

Enea, sceso nell’Averno con la guida della Sibilla cumana, nella foresta dei suicidi incontra Didone, la donna che lo aveva tanto amato e che si era tolta la vita, disperata, allorché lui, insensibile alle sue preghiere, aveva deciso di partire dall’ospitale Cartagine e drizzare le vele verso l’Italia, secondo il volere degli dèi.

Adesso, vedendola, Enea è sopraffatto dalla commozione e, forse, dai rimorsi: cerca di fermarla, vorrebbe parlarle, vorrebbe spiegarle: le dichiara che a malincuore si era allontanato da lei, per obbedire a una volontà più grande della sua, e la scongiura di restare, di fermarsi, di ascoltarlo; ma lei, dopo avergli lanciato un unico, torvo sguardo, si allontana sdegnosa e si affretta in cerca dell’ombra del primo marito, Sicheo, sulle cui ceneri aveva giurato eterna fedeltà, per poi rompere la promessa quando si era innamorata del principe troiano: non senza una occulta manovra delle due divinità, Venere e Giunone, entrambe interessate, ma per motivi diversi, a servirsi della bella e generosa regina onde offrire al naufrago Enea un porto amico in cui ripararsi.

Didone, dunque, non restituisce a Enea neppure una parola; tace e fissa altrove gli occhi ardenti; tutta la sua pena, tutta la sua amarezza, tutto il suo disprezzo sono in quello sguardo corrucciato; a Enea non resta altro che piangere a sua volta e restare da solo, trattenere le frasi che avrebbe voluto dirle per lenire il suo dolore, rimangiarsi le proprie lacrime ormai vane. Qui egli appare finalmente uomo, mentre nel libro quarto, il grande libro dell’amore e della morte di Didone, era apparso freddo e un po’ disumano nel congedarla: il minimo che si possa dire è che non aveva saputo trovare nemmeno le parole per addolcirle la sofferenza del distacco, per lasciarle almeno un grato ricordo del loro amore e dei giorni e delle notti passati insieme, l’uno nelle braccia dell’altra.

Eppure Enea è sempre lo stesso, è sempre il “pius”, l’uomo del Fato, che non appartiene a se stesso, ma al destino; che non può disporre nemmeno dei propri sentimenti, perché tutto deve all’avvenire della sua gente; che, nella sua triplice dedizione alla famiglia, alla patria e agli dèi, non ha tempo da dedicare a se stesso, non ha tempo per misurare la propria immensa solitudine: quasi più sacerdote che guerriero, sempre in ansiosa interrogazione dei celesti a mezzo di sogni, cerimonie, responsi, egli è l’eroe perplesso di un’epoca nuova, così diversa da quella antica, basata sulla “iustitia” e già come presaga di quella cristiana, che sarà invece fondata sulla “caritas”.

E anche Didone, anche lei è sempre se stessa: era se stessa quando, pazza d’amore e di dolore, dapprima supplicava l’eroe troiano di non partire, poi, decisa a morire, lanciava contro di lui le più terribili maledizioni; e lo è anche ora che, davanti al pianto e alle parole accorate di lui, gli volge le spalle e si allontana silenziosa e scura in volta. Certo lo ama ancora, altrimenti si fermerebbe ad ascoltarlo e, forse, gli darebbe un pegno di pace; invece proprio in quello sdegno, in quel corruccio noi possiamo intravedere, così chiaramente come se fosse apertamente manifestato, l’amore disperato che, suo malgrado, ancora la lega a lui. Perché Didone non è certo una donna che ami alla leggera: se si è abbandonata all’amore di Enea, dimenticando la memoria di Sicheo, lo ha fatto con tutta la sua passione di donna, con tutta la sua generosità di donna, con tutta la sua ricca, sensibile, commovente femminilità; e un amore così non finisce mai, neanche con la morte. Questa estrema ripulsa di Didone è, pertanto, l’ammissione che l’amore di lei per Enea non è finito, non si è spento come fredda cenere al consumarsi della fiamma, ma è ancor vivo e straziante, al punti che, per non tradirlo, per non tradire il proprio segreto, ella non sa fare altro che allontanarsi, mordendosi le labbra.

Però i due non si parlano; o meglio, lei si rifiuta di parlare, perfino di ascoltare; così come lui, a suo tempo, aveva rifiutato di ascoltare, di consolarla. Che cosa potrebbero dirsi? Che cosa potrebbe dire lei, la donna buona e generosa che si è data tutta intera, anima e corpo, all’amore del principe troiano, ed è stata così mal ripagata? Quali parole potrebbe pronunciare all’uomo che, pur non volendo, le ha aperto una così straziante ferita, la ha gettata in un così profonda abisso di disperazione, spingendola a odiare la luce del giorno e por fine ai suoi giorni?

La poesia di Didone, in questo episodio del sesto libro dell’«Eneide», raggiunge una potenza drammatica di straordinaria intensità (456-73):

 

«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo

Venerat exstinctam ferroque extrema  secutam?

Funeris heu tibi causa fuit? Per sidera iuro,

per superos et si qua fides tellure sub ima est,

invitus, regina, tuo de litore cessi.

Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,

per loca senta situ cogunt noctemque profundam,

imperiis egere suis; nec credere quivi

hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.

Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro.

Quem fugis? Extremum fato, quod te adloquor, hoc est.

Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem

Lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.

Illa solo fixos oculos aversa tenebat,

nec magis incepto voltum sermone movetur,

quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.

Tandem corripuit sese atque inimica refugit

In nemus umbriferum…»

 

Infatti. Non ci sono parole, non esistono parole possibili, umanamente parlando, che la vittima di un amore infelice, che ha sofferta tutto quanto un’anima può soffrire nell’inferno del dolore e della disperazione, possa rivolgere a colui o colei che, sia pure non volendo, è stato la causa di quello strazio immedicabile.

Umanamente parlando: perché quel che è impossibile all’uomo, è possibile a Dio; ma la religione degli antichi non era cosiffatta da poter offrire un autentico conforto, una autentica riparazione alle anime disperate: e Virgilio, con la sua straordinaria sensibilità per le anime offese e sanguinanti, è il travagliato testimone di questa impossibilità e, al tempo stesso, il coraggioso precursore di un’altra dimensione dello spirito, di uno slancio dell’anima verso altre altezze e verso un altro rapporto con il divino, che non nullifichi, ma valorizzi al massimo il significato dell’umano soffrire.

Vale la pena di riportare, per la loro straordinaria finezza, le osservazioni del filologo classico Gino Funaioli a proposito dell’atteggiamento di Didone verso Enea nel loro incontro nel regno dei morti (G. Funaioli, «L’Oltretomba nell’Eneide di Virgilio», Firenze, Sandron Editore, 1924; cit. in: Virgilio, «Eneide» a cura di Athos Sivieri, Messina, Casa Editrice G. D’Anna,  1969, pp. 309-13):

 

«...Ella erra senza meta nella grande selva, “com’uom che va né sa dove riesca”: non un particolare determinante, che la rimpicciolirebbe scemando l’illusione; un’aia di mistero l’accompagna. ”Errabàt silvà in magnà”: par che la selva, in quelle vocali lunghe e aperte, si slarghi interinata, che nella sua ampiezza non ci sia un angolo di posa per colei che vaga. A sommo il petto l’irrequieta porta una ferita, in cui si riflette l’anima. Il brusco ristar di Enea è la scossa violenta, il sussulto pietrificante d’una intuizione, innanzi ancora che d’un riconoscimento: un presentir dubitoso fa che gli occhi dell’anima precorran quelli del corpo. Un istante d’incertezze atroci tien dietro all’intuizione, intensamente drammatico. […] Enea eleva su alto la donna, la vede troneggiare nell’ideale trasfigurazione: non la donna scorge più in lei, ma il simbolo della passione amorosa che si strugge fino a consumarsi. Sembra troppo moderna siffatta interpretazione, per un eroe da epopea? Ma non è l’unica volta che I personaggi virgiliani conoscono squisitezza del sentire, né l’espressione offende la compostezza epica. La legge d’amore, che già soccombé sulla terra, torna a riaffermarsi nei campi del pianto per bocca di colui che la violò: la “poetica moralità” dell’incontro di Enea con Didone è questa; la trionfante reazione della natura riconsacra l’umanità del’eroe virgiliano […]

La donna è sorda alle proteste, alla recriminazioni: un atteggiamento indistinto, inafferrabile di fiero disdegno comincia a delinearsi ai nostri occhi attraverso la viva azione: non è fuga né una mossa qualsiasi; ma già sente e vede la fuga, l’amante in trepidazione, e col fremito delle sue viscere anela “fermati; non involarti allo sguardo mio” […] E ancora una rivendicazione dei diritti d’un giorno sul cuore di lei, un’ascosa e lacrimosa rievocazione di quell’amore che li unì: “quem fugis?”, “chi fuggi, lo sai? Sai chi è che ti parla?” Di mettere innanzi il suo io, non ardisce egli che fuggì da lei; ben altra coscienza e franchezza poté ella gridare a lui un giorno: “mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te…” E, in ultimo, l’animo proteso verso l’infinito nel tempo, dov’è gelido e notte: “ora l’addio è per sempre” […]. Ed ella? Ella, che pur riempiendo la scena di sé e giganteggiando sempre più alla nostra fantasia, ci è apparsa finora come un’ombra evanescente, tutta ravvolta nel nimbo della sua idealizzazione, ella d’un tratto balza fuori dai suoi velami, come scolpita nel masso, in uno di quegli atteggiamenti di stupenda eloquenza che non si dimenticano più: è la, eretta sul piedestallo della sua grandezza; uno sguardo bieco, e poi gli occhi rigidi e fissi al suolo, le spalle rivolte, impassibile il volto, impietrita nella sua fissità. […] Ella è muta: tale Aiace al cospetto di Ulisse nell’al di là omerico. Ci sono dei moti dentro di noi, a esprimere i quali nessuna parola è adeguata: la voce di un’anima, quale emana dall’aspetto di Didone, non può essere che il silenzio, l’ignudo pensiero senza veste vocale. Presa per Enea, essa aveva lottato nel segreto della propria coscienza contro l’invadente amore, per la fede promessa al cenere di Sicheo, il defunto marito, e aveva vinto riluttanze e rimorsi; aveva gioito e patito, minacciato, scongiurato, maledetto; giunta infine ad una eroica rassegnazione, erasi immolata: ed ora ale suppliche di colui al quale die’ in olocausto l’onore, la vita, tutto, ella oppone l’orgoglio del disdegno e del non far motto. E poi da lui si dispicca via, con mossa istantanea: “tandem corripuit sese”…»

 

Con il suo straordinario acume e con la sua squisita sensibilità, il Funaioli ha colto anche le ragioni di quell’apparente sussiego con cui Enea si rivolge a Didone, che tanto fastidio dà agli orecchi di un lettore moderno, a cominciare dal fatto che egli la chiama “regina”. Altro che regina! La donna che si è amata e che ci ha amati, anche a distanza di tempo, perfino in una situazione assolutamente eccezionale, come quella che si verifica nell’Oltretomba virgiliano, nessuno, oggi, oserebbe chiamarla con il titolo o con la qualifica formali: per nome, soltanto per nome si può chiamare una donna alla quale ci abbia legati un grande amore. Ma Enea chiama Didone “regina”, mentre tenta di trattenerla: non è per freddezza, non è per distacco, non è per una svista di Virgilio, per una sua distrazione o per un inspiegabile accidente: è perché Enea, adesso, non la vede più come donna, ma come ideale di donna, come donna trasfigurata dall’amore e dal dolore; trasfigurata dal suo stesso suicidio, avvolta nei veli di un ideale sublime e quasi irraggiungibile.

Tutto giusto. Ma come non ha potuto vedere, il pur acuto Funaioli, che questo modo di rivolgersi a lei, da pare di Enea, e sia pure dettato da ragioni di rispetto e quasi di religiosa sottomissione, anzi, proprio per questo, costituiva, per l’anima infelice di lei, una ulteriore, insopportabile ferita, un rinnovato oltraggio? Ché una donna innamorata, da donna vuole essere trattata, non messa su un piedistallo, non ammirata da lontano; e, se non lo è stata quando era pronta a donarsi tutta intera al suo uomo, meno ancora accetterà di essere trattata in altro modo dopo che la separazione si è consumata, dopo che lo strazio dell’anima è sceso a cauterizzare nel fuoco della sofferenza il suo amore non corrisposto, o non corrisposto come ella ardentemente anelava. Che errore, da parte di Enea, chiamarla “regina”, perfino nella selva oscura dei suicidi! Davvero quest’uomo non capisce nulla della psicologia femminile: non sa trovare le parole giuste quando la deve lasciare, non sa trovarle neppure adesso, che l’ha ritrovata in circostanze tanto drammatiche e in un luogo tanto inaccessibile: non più persona viva, ma ombra nel regno dei morti, e morta per amor suo, per la disperazione in cui egli l’ha gettata!

È giusto, dunque, che Didone non gli risponda, che distolga gli occhi da lui, che gli volti le spalle e si allontani, lasciandolo solo e sconsolato, a masticare l’amaro sapore del rimorso e delle sue lacrime ormai inutili? Ma qui non è questione di giustizia, bensì di impossibilità. Didone non riesce a perdonare Enea, perché non ha smesso di amarlo: ma di amarlo come donna, non come anima ormai distaccata e pacificata. E ciò per la buona ragione che, nella mentalità degli antichi, l’Oltretomba altro non era che una copia sbiadita del mondo dei vivi: una copia sbiadita il regno dei giusti, i Campi Elisi che pure verdeggiano di erbe e fiori e si offrono alle aure serene, sia i campi del pianto, ove vagano le anime infelici che soffrirono e morirono travolte dalle passioni. Non c’è superamento della condizione umana, dunque, neppure dopo la morte; e la complessa filosofia orfico-pitagorica che Virgilio pone a sostegno dell’impalcatura concettuale del suo Oltretomba, con la reincarnazione delle anime che sembra rifarsi al platonico mito di Er, non sposta i termini della questione. Le anime dell’aldilà non sono più sagge, non sono pacificate, non sanno leggere in se stesse più e meglio di quanto seppero fare in vita: portano seco le stesse passioni irrisolte, gli stessi cocenti dolori, le stesse aggrovigliate contraddizioni.

Didone, dunque, non parla ad Enea perché non lo ha perdonato; e non lo ha perdonati perché non ha mai smesso di amarlo, pur odiandolo e maledicendolo; e dalle fiamme di quell’amore e di quell’odio ella è ancora avvolta, se le porta dietro fin nel mondo dei morti, ne è tuttora schiava e straziata. Se gli parlasse, vorrebbe dire che ha ritrovato la pace; ma ella non l’ha trovata: è inquieta, si aggira nella selva come un’anima in pena: ella è un’anima in pena, nel senso letterale e inestinguibile del termine; e da quella pena vorrebbe liberarsi, ma non può: è la sua eterna condanna, la ragione della sua perpetua angoscia e del suo cupo smarrimento, appena attenuato dall’ansiosa ricerca dell’ombra del primo marito, Sicheo.

Ma dunque, per riuscire a perdonare chi ci ha ferito, dobbiamo anche smettere di amarlo? No; ma certo dobbiamo imparare ad amarlo in un altro modo, su un altro piano; e dobbiamo ricominciare ad amare noi stessi e a perdonare noi stessi. Ad amarci nonostante i nostro errori e le nostre debolezze, e a perdonarci per aver amato chi non meritava il nostro amore, chi non lo ha compreso, chi non lo ha apprezzato per quel che valeva. Solo se smettiamo di disprezzarci per aver offerto il nostro amore a chi non ne era degno, a chi ci ha inferto una terribile ferita, giocando con i nostri più profondi sentimenti, potremo riuscire anche a perdonarlo: e solo così facendo riusciremo a ritrovare la nostra pace. Chi non riesce a perdonare, in fondo non ha perdonato se stesso; e la pace rimane lontana da lui.

Questo era difficile da accettare per un pagano, ma lo è già di meno per un cristiano; perché il cristiano sa che la debolezza fa parte della natura umana, e, senza crogiolarsi in essa e senza farsene un comodo alibi, nondimeno egli riesce a perdonarsi e, di conseguenza, anche a perdonare gli altri; e, se non vi riesce con le sue sole forze, può riuscirvi con l’aiuto che scende dall’alto, con l’aiuto che gli giunge allorché egli sia abbastanza forte e abbastanza umile da domandarlo.

I pagani non possedevano questa forza, perché fondavano ogni loro progetto sulle proprie forze; e, se pure chiedevano l’aiuto degli dèi, sapevano che essi erano capricciosi e volubili, non di rado crudeli, e che lo avrebbero concesso solo se ne avessero avuto voglia o convenienza: essi per loro non erano come un padre o una  madre, ma distanti, beati nella loro inaccessibilità, non toccati dalle umane miserie – e impotenti essi pure davanti al Fato.

Per questo il “pius Aeneas” alza un altare e offre un olocausto ad ogni proda sconosciuta che raggiunge, ad ogni sosta del suo interminabile viaggio; per questo interroga le sorti, innalza preghiere, invoca gli déi: perché li sente lontani, mentre vorrebbe sentirli vicini; perché li sente indifferenti, mentre vorrebbe sentirli partecipi; perché il paganesimo antico non gli basta più, non lo appaga, non lo acquieta, ed egli bussa e ribussa alle porte di un altro aldilà, ove ci sia posto per la compassione, per la dolcezza e per l’amore e non solo per la fredda giustizia e per i voleri imperscrutabili d’un incomprensibile Fato.