I Nuer e noi*
di Massimo Fini - 25/07/2006
Partiamo dalle cose più divertenti. Noi paghiamo della gente perché ci comandi. Un masochismo abbastanza impressionante che, come notava Jacques Necker nel 1792, «dovrebbe lasciare stupiti gli uomini capaci di riflessione»1. Noi diamo invece la cosa per pacifica, scontata e non ci pensiamo più. Ma farebbe inorridire o sbellicare dalle risa un Nuer.
I Nuer sono un popolo nilotico che vive nelle paludi e nelle vaste savane dell'odierno Sudan meridionale, là dove il grande fiume africano riceve gli affluenti Sobat e Bahr el Ghazal. Un Nuer non solo non paga nessuno perché lo comandi, ma non tollera ordini da chicchessia. I Nuer infatti non hanno capi e nemmeno rappresentanti. «E impossibile vivere fra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino. Il
1 J. Necker, Du pouvoir exécutif dans les grandes Etats, 1792, pp. 20-22.
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Nuer è il prodotto di un'educazione dura ed egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza... Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza... Ogni Nuer considera di valere quanto il suo vicino». Così li descrive l'antropologo inglese Evans-Pritchard che, negli anni trenta, visse fra loro a lungo e li studiò2. Una bella lezioncina. I Nuer, su un territorio
2 E.E. Evans-Pritchard, I Nuer: un'anarchia ordinata, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 244. I Nuer hanno vissuto così per secoli. Oggi, con la costituzione del Sudan in Stato indipendente (1956), la pretesa governativa di islamizzare le popolazioni meridionali, animiste, l'aleggiare dell'Occidente che vende a questa gente armi moderne, che han trasformato in guerre en-demiche e devastanti le scaramucce di un tempo (fra i Nuer e i vicini Dinka, i soli con cui per secoli hanno avuto contatti, le cose erano molto semplici, lineari e regolate secondo convenzioni reciprocamente accettate: i Nuer, guerrieri, razziavano i Dinka e i Dinka, più subdoli, rubavano ai Nuer e anche questo faceva parte dell'equilibrio e dell'ecologia locali), Occidente da cui provengono anche le pestilenziali Ong con le loro pie intenzioni di "educare e scolarizzare" gli indigeni e di "aprirli al mondo esterno", la cultura e le tradizioni Nuer sono state messe in grave pericolo. Tuttavia, nonostante tutto, i Nuer continuano a vivere - guerra a parte - come hanno sempre vissuto e i più refrattari a ogni ordinamento statuale, sia pur larvato, e a ogni "educazione" si sono rifugiati in regioni ancor più remote e inaccessibili tali da metterli al riparo dai rompico-glioni. Vetwork uk 2003, The Dinka and Nuer. Agro-pastoralists of Southern Sudan, http://www.eldis.org/pastoralism/cape/gallery.
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vasto e con una popolazione sufficientemente numerosa (circa 200 mila individui) da richiedere una qualche organizzazione sociale, sono riusciti a mettere insieme uguaglianza e libertà, due poli apparentemente inconciliabili su cui i figli dell'Illuminismo, i liberali e i marxisti, si accapigliano da un paio di secoli facendo elaborazioni raffinatissime con cui hanno riempito intere biblioteche ma senza cavare un ragno dal buco. Perché democrazia liberale, socialdemocrazia e la cosiddetta "democrazia popolare" o socialista non sono mai state in grado di coniugare libertà e uguaglianza, riuscendo piuttosto, quasi sempre, nell'impresa di mortificare entrambe.
Per i Nuer l'unione di uguaglianza e libertà individuale non è frutto di teorizzazioni, non è un'ideologia, è una pratica e un modo di essere. Un miracolo? O, quantomeno, un'eccezione? Fino a un certo punto: si tratta infatti di una di quelle "società acefale", di quelle "anarchie ordinate" nient'affatto rare nel Continente Nero prima della dominazione musulmana con le sue leggi religiose incompatibili con la libertà e, soprattutto, prima che arrivassimo noi con la nostra democrazia teorica, in salsa liberale o marxista, funzionale alla nostra economia, che ha completamente distrutto l'equilibrio su cui si sostenevano le popolazioni africane e l'Africa stessa.
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Si obbietterà che con i Nuer, come con altri popoli che noi chiamiamo "primitivi", che oggi non esistono più o che se pur resistono lo fanno in enclaves remote, poco appetibili e sempre più ristrette, siamo proprio all'alba del mondo quando l'uomo conservava intatta la sua vitalità, era in grado di difendersi da sé e non aveva ancora delegato la violenza al monopolio dello Stato. Perché se si offende un Nuer, o anche solo la sua mucca, ci si becca un colpo di zagaglia o, se è di buon umore, di clava, questo è certo. Ecco perché Evans-Pritchard parla di "democrazia fondata sulla violenza" che a noi suona come una blasfema contraddizione in termini. E invece è proprio la possibilità della reazione individuale, o di clan, a limitare, in quelle comunità, la violenza e il sopruso. Ogni Nuer ha un senso profondo della propria dignità e non tollera che sia in alcun modo intaccata. Perché i Nuer pensano, proprio come Locke, uno dei padri spirituali del liberalismo e della democrazia, che gli uomini nascono, per natura, liberi, indipendenti e uguali. Ecco perché non accettano che ci sia qualcuno che li comandi. Boccone che, per la verità, è sempre stato difficile da mandar giù se il pensiero orientale ma anche occidentale si è dovuto inventare, per molti secoli, l'origine divina o semidivina del re, dell'imperatore, o di chi per lui, perché una cosa del genere, altrimenti inconcepibile, potesse es-
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sere accettata. Solo un'origine divina poteva legittimare il comando3.
In Occidente questa favola ha funzionato, e anche piuttosto bene (tutte le testimonianze concordano nell'affermare che la credenza, da parte del popolo, nella sacralità del re e quindi nella sua legittimità al comando era pressoché assoluta)4, più o meno fino alla Rivoluzione francese. Poi, di fronte al razionalismo avanzante, non tenne più. Dio sarebbe morto nella coscienza degli uomini - come proclamò Nietzsche - qualche decennio più tardi, per l'intanto si cominciò col decapitare i suoi rappresentanti in terra. Bisognava inventarsi una nuova favola. Fu chiamata democrazia, riprendendo il termine («governo del popolo») da un esperimento che era stato fatto ad Atene nel vi e v secolo avanti Cristo.
La legittimità del potere democratico non è diversa da quella del potere regale o carismatico o tradizionale o di qualsiasi altro tipo. Nel
3 In epoche più antiche, tribali, il re non comanda gli uomini, comanda, o cerca di farlo, le forze magiche e invisibili della natura. È spesso costretto a fare il re dagli altri, di cui è al servizio, vive un'esistenza limitata, in uno spazio circoscritto da cui non può uscire, e se si dimostra inefficiente viene messo a morte. B. de Jouvenel, Del potere, Milano, Sugarco, 1991, pp. 84-85.
4 Fini, La Ragione aveva Torto?, cit., pp. 145-161; A. de Tocqueville, L'Antico regime e la Rivoluzione, Milano, Rizzoli, 1981, pp. 156-157.
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senso che non esiste. Scrive Flaubert ne L'educazione sentimentale: «Ma nessun potere è legittimo, nonostante i loro sempiterni principi. Ma, siccome principio significa origine, bisogna riferirsi sempre a una rivoluzione, a un atto violento, a un fatto transitorio. Così il principio del nostro è la sovranità nazionale, intesa nella forma parlamentare... Ma in che cosa mai la sovranità nazionale sarebbe più sacra del diritto divino? Sono finzioni, l'una e l'altra»5. Anche Stuart Mill, uno dei padri della liberaldemocra-zia, conviene: «Il potere stesso è illegittimo, il miglior governo non ha più diritti del peggiore»6.
Nessun potere politico è di per sé legittimo per la semplice ragione che si deve rifare a un punto di partenza concettuale che è, per forza di cose, del tutto arbitrario. Quel che conta, come ha chiarito magistralmente Max Weber, è che il potere sia creduto legittimo da coloro che vi sono sottoposti, o, quantomeno, da una buona parte, per assicurare una certa stabilità al sistema e al potere stesso7. La legittimità è un'illusione condivisa. Niente di male, di grave o di anormale in ciò. Non solo perché, come dice
5 G. Flaubert, L'educazione sentimentale, Milano, Feltrinelli,
2002, p. 174.
6 J. Stuart Mill, Saggio sulla libertà, Est, Milano, II Saggiato
re, 1981, p. 20.
7 Weber, Economia e società, cit., i, p. 208.
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Huizinga, «anche le illusioni fanno parte della realtà», ma perché spesso, se non addirittura sempre, sono proprio le illusioni a muovere il mondo. Si pensi, per esempio, alle cosiddette «tre grandi religioni monoteiste», le quali non solo pretendono che ci sia un Dio e unico, il loro, ma che costui si occupi in particolare di un infinitesimo luogo dell'immenso universo e che, all'interno di un'umanità creata, chissà perché, a sua immagine e somiglianzà, abbia scelto alcuni popoli o razze o individui per una straordinaria missione salvifica. Questo Dio sarebbe inoltre, per imperscrutabili motivi, buono, anche se poi ogni teodicea si trova di fronte all'irresolubile busillis di come da un Dio buono e onnipotente nasca il Male. Ma non è questo un problema che ci riguardi qui. Era solo per dire come le illusioni, le proiezioni psichiche e anche le credenze più stravaganti, fra cui c'è quella che esista un potere legittimo, abbiano funzionato e funzionino magnificamente.
Questa credenza di legittimità la democrazia liberale, come ogni sistema di potere duraturo, l'ha avuta, anche se non ha mai raggiunto i livelli della regalità di diritto divino, e sostanzialmente la conserva. Ma due secoli di esercizio del potere l'hanno fortemente indebolita. Proprio mentre si espande mondialmente sotto la spinta delle élites dominanti, politiche ed eco-nomiche, che sono quelle che da questo tipo di
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regime traggono i maggiori vantaggi, là dov'è nata, in Occidente, la democrazia liberale comincia a suscitare dei dubbi. Sono alcuni decenni, si dice, che la democrazia è in crisi. Ed è significativo che negli Stati Uniti, paese leader del modello, e proprio da uno dei ceppi del pensiero liberale, dal Partito repubblicano, sia nato trent'anni fa il movimento dei Libertarians che si propone di abbattere lo Stato, e quindi lo Stato democratico, perché accusa la liberalde-mocrazia di aver tradito le sue premesse, poiché invece di esaltare l'individuo lo opprime, soffocandolo in una fittissima rete di leggi, di norme, di regole, di divieti, di proibizioni.
Ma attacchi estremi come quello dei Libertarians sono ancora molto marginali. In genere fra gli studiosi e gli intellettuali la critica alla democrazia si limita a qualche aspetto particolare (la sempre minor partecipazione, l'assenteismo elettorale, il diffuso disgusto per la classe politica, eccetera) oppure a rimpiangere una mitica "età dell'oro" democratica, come fa il recentissimo Postdemocrazia di Colin Crouch8, ma nessuno mette in discussione radicale il modello. In quanto al cittadino comune, sente, vede, che non conta nulla, proprio nel momento in cui gli si dice che è titolare, sia pure pro quota, del potere, ma i dubbi, se li ha, se li tiene per sé. Per-
8 C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.
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che nessuno oggi, in Occidente, osa dichiararsi apertamente antidemocratico. Si rischia, democraticamente, la galera.
Che la democrazia, con le sue convinzioni dell'esistenza di «principi eterni», di «diritti naturali e universali», di un «ordine naturale necessario», di «un solo ideale universale»9, con la sua concezione astratta dell'uomo e con la sua enfatizzazione della "volontà popolare" o anche solo della volontà della maggioranza, contenesse in sé germi di illiberalismo, di oppressione e di totalitarismo, lo si sa da tempo. Il giacobini-smo nasce dalle idee democratiche della Rivoluzione francese. E queste idee furono esportate in Europa non con le buone maniere ma con la violenza, sulla punta delle baionette delle armate napoleoniche. Nel 1952 Jacob Talmon pubblicò un libro, ai tempi famoso, intitolato Le origini della democrazia totalitaria10, che si riferiva oltre che all'esperienza giacobina a quella del "socialismo reale" allora in atto da poco più di trent'anni.
Ma giacobinismo e bolscevismo sono la declinazione roussoviana, continentale (Mellory, Ma-bly, Helvétius, d'Holbach, Condorcet, Diderot
9 J. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna, E Mulino, 2000, pp. 27-41.
10 L'edizione originale dell'opera di Talmon è The Origins of Totalitarian Democracy, Seeker & Warburg, 1952.
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e, appunto, Rousseau - i philosophes) della democrazia che, assolutizzando "la volontà popolare", o "la volontà generale" come Rousseau la chiama, e facendola interprete del destino della Nazione se non dell'umanità intera, finisce per considerare "devianti" tutte le minoranze e per eliminarle.
La democrazia liberale, che non ha un'origine continentale ma anglosassone, ed è quindi, in partenza, meno teorica e più pragmatica, aveva pensato di mettersi al riparo da questi pericoli tutelando le minoranze dalla "tirannia della maggioranza". Si potrebbe anzi dire che la libe-raldemocrazia si struttura proprio per difendere le minoranze dalla maggioranza o dalle maggioranze, che hanno minor bisogno di tutela perché sanno benissimo difendersi da sole. In ogni caso ritiene essenziale questa dialettica fra maggioranza e minoranze. Giovanni Sartori spiega che la democrazia liberale si afferma sulla base del «principio che la differenziazione e non l'uniformità costituisce il lievito e il più vitale alimento degli Stati»11. È quindi sorprendente, e inquietante, che oggi la liberaldemocrazia non concepisca più niente al di fuori di se stessa e pretenda di omologare e di piegare l'intero pianeta al proprio modello. Ciò che non tollera, o dice di non tollerare, in casa propria, vale a dire
11 Sartori, Democrazia e definizioni, cit., p. 173.
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l'uniformità e l'eliminazione delle diversità e delle differenze, lo impone al mondo.
Una strana parabola la sua. Nata sulla spinta di un sano pragmatismo si è trasformata in un'ideologia radicale. Commette gli stessi, tragici, errori del comunismo diventando, come quello, un universalismo che, in quanto tale, non può che farsi totalitario. Ma va anche più in là. Si comporta come una religione. A differenza delle Potenze di un tempo (ah, i tempi felici in cui c'erano ancora le Potenze e non le Superpotenze), che si limitavano a conquistare territori, la liberaldemocrazia vuole conquistare le anime, vuole convertire, vuole che tutti, nel vasto e variegato mondo, si sentano sinceramente democratici. E ritiene che questo sia il destino naturale e ineludibile dell'umanità.
Ma anche se non è per nulla un buon segno che la democrazia o, meglio, le democrazie si propongano in modo totalitario verso l'esterno, verso Stati, nazioni e popoli che si sono dati un assetto di vita diverso, e pretendano per sé, in quanto democrazie, singolari privilegi sul piano internazionale (per esempio si arroghino il diritto di fare la guerra, chiamandola con diverso nome, negato agli altri, di aggredire preventivamente e legittimamente gli Stati non democratici, di possedere sterminati arsenali di «armi di distruzione di massa» proibite invece, chissà perché, agli altri, anche "in modica quantità"),
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ciò non significa, naturalmente, che siano totalitarie o oppressive al proprio interno. Anzi, la giustificazione che la democrazia si dà per legittimare la propria attuale aggressività è proprio di essere, a differenza di tutti gli altri, un sistema di libertà.
*tratto da Sudditi, Marsilio