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La rivelazione fra le pagine d’un libro

di Francesco Lamendola - 23/09/2013




 

In un chiaro mattino di settembre, un ragazzino si avvia di buon passo verso la biblioteca cittadina, con un’idea ben precisa nella mente.

Conosce bene quell’edificio, quel bel palazzo seicentesco che si apre in cima alla piazzetta, con il colle boscoso subito alle spalle, tanto che i rami degli abeti giungono a sfiorare i muri e le finestre del lato posteriore. Lo ha frequentato alcune volte, durante l’estate arroventata: l’estate al principio della quale ha sostenuto gli esami di terza media; ma senza mai spingersi al piano superiore, riservato agli adulti. Conosce soltanto lo scalone di marmo, l’atrio con i busti e le statue addossati alle pareti - quei busti con i baffi alla moschettiera e le gorgiere che danno loro un’aria particolarmente solenne -, e la prima metà della rampa di scale: perché la saletta riservata ai ragazzi si apre lì, sul pianerottolo, a destra di chi sale.

Anche dopo la fine degli esami, ha continuato a recarsi in quella saletta dall’arredamento moderno, facendo richiesta di libri che non sempre erano lì, a portata di mano, e immergendosi deliziosamente, per qualche ora serena, nello studio delle sue materie preferite: la geografia, la storia e l’astronomia. Ma adesso è iscritto alla prima superiore; mancano solo pochi giorni e poi affronterà la grande svolta: non ultima delle novità, il fatto che entrerà in una classe mista, esperienza che non ha più fatta dai tempi della quinta elementare, perché alle medie vigeva una divisione rigorosa tra ragazzi e ragazze e l’intero edificio scolastico era diviso in due parti non comunicanti, le classi dei primi a sinistra, quelle delle seconde a destra e, in mezzo, un preside severissimo, sempre occhiuto e vigilante.

Intanto, ha assaporato il piacere di sfogliare i libri di testo, già portati a casa da un fattorino della libreria: bei volumi dalle copertine a vivaci colori: rosa intenso l’antologia letteraria; verde chiaro la grammatica latina; nero, ma con dei triangoli e dei cerchi colorati, il testo di geometria; verde-azzurro scuro quello di biologia; e marroncino l’«Eneide», nella vecchia traduzione di Annibal Caro, ma con delle tavole illustrate all’interno. Non che quel ragazzino sia un secchione: gli piace lo studio, ma solo di alcune materie; ma gli piacciono anche le corse in bicicletta, le arrampicate sui rami degli alberi, gli scherzi e la compagnia dei cari amici d’infanzia: quando è con loro, il tempo vola, non ci sono più pensieri né tristezze: tutto diventa bello, intenso, entusiasmante.

Adesso, però, si sta dirigendo alla biblioteca con uno spirito nuovo: in questo mattino d’un settembre che ha lavato via, insieme alle prime piogge, anche l’afa dell’estate ormai trascorsa, è tutto compreso dalla solennità del gran momento che lo attende: non andrà più nella saletta dei ragazzi, ma potrà accedere, per la prima volta, al piano superiore, cioè alla sezione riservata agli adulti, dove non è mai stato e che gli incute una sorta di timore reverenziale.

Per giunta, non ci va a casaccio, ma con un piano ben definito: vuole trovare delle notizie relative a due battaglie navali che si combatterono, nel 1914, nelle vastità del Pacifico e dell’Atlantico meridionali, al largo del Sud America, all’epoca delle navi a vapore; vuol sapere e capire cosa ci facevano delle navi tedesche laggiù, così lontane dall’Europa: da dove provenivano, dov’erano dirette; e come avvenne che nel primo scontro esse sconfissero clamorosamente la marina più potente del mondo, quella britannica, per poi finire distrutte ed affondate, con quasi tutti i loro equipaggi, nel secondo (cfr. il nostro saggio «L’ultima crociera dell’ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland (novembre-dicembre 1914)», apparso sul sito del Centro Studi La Runa in data 27 dicembre 2009).

Ha cercato di saperne di più nei libri di casa, ma ha trovato poche notizie; le enciclopedie non riservano che poco spazio a quei fatti d’arme, a quell’ammiraglio dal nome secco e nitido come un colpo di carabina: Spee; e neanche nella saletta dei ragazzi, là alla biblioteca, è riuscito a saperne molto di più, per cui gli è rimasta una viva curiosità, un acuto desiderio di approfondimento, nato così, spontaneamente, nel suo animo; perché nessun professore, nessun adulto gliene aveva mai parlato o anche solo fatto cenno, e tanto meno i libri di scuola.

Età meravigliosa, quella in cui si scoprono le cose per la prima volta; in cui ci si avvicina alla soluzione di un mistero e vi si entra, come in un giardino segreto, con tutta la fragranza della scoperta; in cui tante cose, un po’ come nell’infanzia, sembrano uscire dal cono d’ombra in cui giacevano, in attesa del raggio di sole che le rivelasse in piena luce.

La geografia, per esempio: quel ragazzo ricorda ancora quel mattino d’ottobre di tre anni prima, quando, camminando per le amate strade della sua città, la mente e il cuore ancora pieni di stupore – frequentava, allora, il primo anno delle scuole medie – aveva scoperto che quella penisola lassù, ai limiti del mondo ghiacciato, dove l’Europa confina con l’Artico, si chiama Penisola di Kola; e pronunciava mentalmente il nome, strano e affascinante: «Penisola di Kola», che suonava così esotico ai suoi orecchi. E intanto pensava che cosa strana fosse quella di andarsene così in giro, per le strade, portandosi dietro questo piccolo tesoro di nuova conoscenza: la Penisola di Kola, lassù, oltre il Circolo Polare; la Penisola di Kola! Lui sapeva che cos’era, avrebbe saputo individuarla su di una carta muta, godeva ad ammirarne la verde superficie sull’atlante, disseminata di lineette azzurre che significavano “paludi”; e provava uno strano piacere a immaginare i boschi, le foreste di abeti e di betulle, le renne al pascolo.

E intanto lui era lì, camminava per le strade, guardava i portoni degli antichi palazzi, udiva lo scorrere dell’acqua sotto i ponticelli delle rogge, si mescolava alla gente ignara che non sapeva, che non conosceva il suo segreto, che non lo sospettava neanche: lui sapeva della Penisola di Kola! Fino a pochi giorni prima non sapeva neppure che esistesse, quella terra, e adesso invece lo sapeva; lo sapeva, e questa nuova informazione aveva trovato posto nell’armadio della sua memoria, accanto ad altre, vecchie e nuove; e vi sarebbe rimasta per sempre, quieta, paziente, in attesa che lui la tirasse fuori all’occorrenza. Ma intanto era così bello pensarci senza un fine preciso; non per l’interrogazione, non per fare bella figura o per condurre una ricerca; ma così, per il puro e spassionato piacere di conoscere; pensarci e accarezzarla, per così dire, come un bambino accarezza il suo giocattolo nuovo e quasi non si capacita d’averlo finalmente in mano, dopo averlo tanto desiderato quando occhieggiava dietro la vetrina del negozio, irresistibilmente bello e invitante!

Ecco, anche adesso, avviandosi con passo risoluto verso la biblioteca, quel ragazzo pensa alle battaglie di Coronel e delle Isole Falkland, delle quali sa ancora così poco, così ridicolmente poco; e vorrebbe saperne di più, molto di più: ma chissà se riuscirà a soddisfare la sua curiosità, a spegnere tutta la sua ardente sete”! Chi lo sa se riuscirà a trovare quel che cerca; se in qualche enciclopedia, in qualche libro verrà a conoscere i particolari; se potrà farsi un’idea più precisa. Lui, un ragazzino che deve ancora incominciare le scuole superiori; che non è mai stato seduto, sul banco, accanto a una ragazza; che abita in una città di provincia posta ai confini dell’Italia, con le montagne bianche di neve le cui creste sono già oltre il confine; con gli antichi palazzi carichi d’anni e di storia, solenni, silenziosi, con i mascheroni di pietra sulle porte; lui, che non immagina altre gioie all’infuori di una bella corsa in bicicletta, o di un pomeriggio trascorso con gli amici, o di una sera d’estate con il cielo spalancato innanzi e le costellazioni che brillano nel buio, evocando gli antichi miti greci: Castore e Polluce, Cefeo e il Dragone, Perseo e Andromeda.

Per far più presto, prende la ripida salita al castello e poi svolta a sinistra, infilandosi nella stradina strettissima che corre ai piedi del colle e che si chiama, appunto, Via Sottomonte: così angusta, così fiabesca, che le grondaie dei due lati si sfiorano e il sole non arriva mai a penetrarvi, tranne a mezzogiorno, nella stagione estiva; così misteriosa e vagamente inquietante, priva di negozi, di passanti, e popolata quasi solo dai piccioni che, tubando, si librano sui tetti: come se appartenesse a un altro mondo, dove il tempo si  fermato chissà quando, in un giorno lontano.

Ed ora ecco il palazzo della biblioteca; ecco gli scalini di marmo; ecco l’ingresso perennemente avvolto nella semioscurità, perché il portone è sempre accostato, con le sue statue solenni e i suoi busti enigmatici di antichi personaggi; ecco là lo scalone interno, ecco il pianerottolo a metà di esso, con la porta delle sezione per ragazzi; ecco la seconda rampa, quella mai salita prima, che sembra tanto più ampia e solenne, tanto più imponente della prima, con il tappeto rosso che l’attraversa tutta, fermato da listelli di metallo dorato al piede d’ogni gradino, e sul quale si cammina silenziosi, come in una dimensione ovattata. E poi la porta a vetri: ecco, è entrato: a sinistra, la stanza con il banco per le richieste e, al di là di esso, la misteriosa sala di lettura; a destra, una stanzetta poco illuminata, con le pareti interamente occupate dagli schedari di metallo grigio, e il cartellino con le lettere corrispondenti su ogni cassetto.

Il ragazzino legge quei cartelli, va a cercare quello con la “C” e lo apre: sfoglia i cartoncini con le indicazioni battute a macchina, attraversati da una sottile sbarra d’acciaio; non ci spera più di tanto, non s’illude di essere fortunato al primo colpo… e invece! Ecco, quasi all’inizio, trova il cartellino che fa al caso suo, che pare fatto apposta per lui: l’indicazione è quella di un libro stampato negli anni Trenta, il nome dell’autore è certamente quello d’un tedesco, dal suono quasi impronunciabile: figuriamoci, ci sono perfino due “h” consecutive (ma la “h”, diceva la maestra alle elementari, non è la letterina muta? E allora che senso ha metterne due in fila?), le pagine sono più di trecento e il titolo non lascia spazio a dubbi o malintesi: è proprio quel che cerca lui: «L’ultima crociera dell’Ammiraglio Spee. Battaglie navali di Coronel e Falkland». Col batticuore, compila la richiesta e si presenta al banco; attende in silenzio, guardandosi intorno, già quasi trasportato in un’altra dimensione; ed ecco che l’impiegato ritorna dall’archivio e gli consegna un volume dalla copertina azzurra, rilegato in brossura, con le pagine un po’ ingiallite dal tempo. Un volume che, forse, nessuno aveva mai richiesto da chissà quanto tempo e giaceva là dimenticato, accanto a mille altri, come una cosa di nessun valore: mentre lui avrebbe dato un occhio della testa per averlo avuto prima, per aver potuto leggerlo prima e spegnere, così, la sete divorante della sua passione!

Un minuto dopo è nella sala di consultazione: un grande salone rettangolare che si affaccia sulla piazzetta e la guarda dall’alto, dietro i pesanti tendaggi dei balconi; siede a un tavolo massiccio, ricoperto da una gran lastra di cristallo; gode del silenzio che vi regna, dell’atmosfera raccolta, del fatto che solo pochi lettori sono già ai loro posti di lavoro. Ammira gli stucchi alle pareti, il grandioso lampadario a goccia che pende dall’altissimo soffitto; poi si sprofonda nell’esplorazione del suo piccolo tesoro.

Sfoglia le pagine, una ad una, con immensa meraviglia, con trepidante senso di scoperta: è un diario, il diario di un ufficiale, imbarcato su una di quelle grandi, strane navi a vapore, come non se ne costruiscono più da un pezzo, con gli alti fumaioli e le torrette corazzate per i pezzi d’artiglieria; scritto con un tono fiero e patriottico, ma anche con l’accento di verità di uno che c’era, che non racconta storie di seconda mano, ma che ha visto tutto, partecipato a tutto, perfino all’ultima battaglia, quando è stato scaraventato in mare, nel gelido mare alle soglie dell’Antartico, ed è stato fra i pochi ad essere salvati. Guarda le fotografie, in bianco e nero, che arricchiscono il volume: fotografie di navi, di equipaggi, di porti lontani.

Di colpo, si ferma incantato: una di quelle fotografie, infatti, ha realmente qualcosa di fantastico, d’incredibilmente suggestivo: sembra uscita da quel film d’animazione di Karel Zeman, «La diabolica invenzione», tratto da un romanzo poco conosciuto di Jules Verne; film che ha avuto l’occasione di vedere, in televisione, proprio nell’inverno precedente. Rappresenta una nave inclinata sul fianco, con gli alberi senza vele ed un alto fumaiolo, in un mare dalle onde mosse, ai piedi d’una parete rocciosa a strapiombo, nuda, impressionante. La nave sta affondando, ma non si capisce se in seguito ad un combattimento, o a un incidente, o a che cos’altro; e la parete di nuda roccia la guarda dall’alto, gigantesca, impassibile, come se l’agitarsi degli uomini, le vicende della guerra non la riguardassero affatto, simbolo di una natura primigenia la cui durata si misura in millenni e in milioni d’anni; mentre le storie degli uomini si consumano in pochi giorni o in pochi mesi, con tutte le loro speranze e i loro timori, con le loro passioni e i loro ideali…

L’impressione che il ragazzo ne riceve è fortissima, incancellabile: quella scoperta segna una svolta nella sua vita. La prima cosa che farà, sarà quella di chiedere il libro in prestito e di far riprodurre ed ingrandire quella fotografia (ancora non esistono le fotocopie), per poi farla incorniciare ed appendere nella sua camera, sopra il tavolino. La seconda, di ricavare un analogo quadro, ma più grande, da un’altra fotografia del libro, raffigurante l’ammiraglio al centro e tutte le sue belle navi da guerra ai lati, sopra e sotto, ciascuna col suo nome, col suo fascino, con le sue memorie eroiche...