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Il principio del piacere è lo scopo della vita?

di Francesco Lamendola - 25/09/2013



 

La cultura filosofica oggi dominante, essendo in larga misura di ispirazione psicanalitica freudiana, oppure utilitaristica in senso anglosassone, e, più in generale, neo-umanista e neo-illuminista, tende anche ad essere, per ciò stesso, edonista: tende, cioè, a porre il principio del piacere come scopo della vita umana.

Le basi teoretiche di questa identificazione sono ben note: se la natura è “bene”, mentre la civiltà è “male” (tanto è vero che produce ingiustizie sociali e nevrosi individuali e collettive), allora il principio del piacere, che è quanto di più naturale esista nella natura umana, deve essere salutato e coltivato come il mezzo per uscire dalle strettoie della civiltà e dalle ambasce della nevrosi, onde riconquistare l’equilibrio psichico e il benessere esistenziale.

Ciò che si oppone al principio del piacere, è male in se stesso; ciò che lo favorisce, è bene: questo sostengono, esplicitamente o, più spesso, implicitamente, la grande maggioranza dei pensatori contemporanei, sia dall’alto delle severe cattedre universitarie, sia dalle meno severe, ma non certo meno efficaci cattedre della comunicazione di massa, rappresentate dai salotti televisivi, dalle rubriche delle riviste settimanali di larga tiratura, dalle platee mediatiche in genere.

E tuttavia, si sono mai chiesti, questi signori, se il principio del piacere possa costituire davvero il senso e lo scopo della vita umana; se sopra di esso possano poggiare le speranze, i bisogni, le aspirazioni di milioni di esseri umani; se una sana pedagogia possa farne la propria base, se la società contemporanea possa trovare in esso l’elemento di coesione di cui necessita, travagliata com’è dall’azione dissolvente d’innumerevoli forze centrifughe?

Il principio del piacere, se assecondato e lusingato oltre misura, anzi, addirittura sollecitato in modo artificiale, affinché possa meglio servire la macchina consumista, rischia di imprigionare l’uomo nella peggiore delle carceri: quella di un io chiuso in se stesso, ottusamente proteso alla soddisfazione di sempre nuovi “bisogni” e sempre più incurante dell’altro, dei suoi diritti, del suo bisogno di riconoscimento, di affetto, di benevolenza; nel carcere dell’io che non vede altro che specchi, specchi ovunque che riflettono la sua immagine e che celano costantemente l’immagine dell’altro, il suo volto, il suo sguardo.

Da un simile carcere non può nascere che il silenzio, il silenzio assordante di una comunicazione impossibile: perché là dove l’io sa dire soltanto “io”, e mai “tu”, non vi è più bisogno di parole, di scambio, di dialogo, ma regna soltanto il mercimonio delle cose, la corsa ad arraffare, a impadronirsi delle cose prima dell’altro – e a farlo, magari, non per autentica necessità, ma proprio per infliggere all’altro la ferita dell’umiliazione, dell’invidia, dell’esclusione.

Fra le voci che si sono levate, nel corso del Novecento, contro questo circolo vizioso dell’io chiuso in se stesso, spicca quella del filosofo del linguaggio Eugen Rosenstock-Huessy, ebreo tedesco convertito al cristianesimo e poi emigrato in America (1888-1973), quasi sconosciuto in Italia, ma ben noto nei Paesi di lingua tedesca e soprattutto negli Stati Uniti; il suo pensiero filosofico e pedagogico, impregnato di istanze spirituali e religiose e caratterizzato dal continuo, appassionato richiamo evangelico alla legge fondamentale: «Ama il prossimo tuo come te stesso», rappresenta una seria e articolata alternativa sia allo storicismo, sia all’idealismo e al positivismo dominanti nella cultura contemporanea.

La sua idea fondamentale è che, per attuare pienamente le possibilità dell’uomo e per realizzare una società armoniosa, è necessario liberarsi dal pregiudizio razionalista, che tende ad appiattire la natura umana su una sola dimensione, quella del “logos”, e aprirlo a tutte le sue potenzialità e a tutti i suoi autentici bisogni: che sono fondati sul riconoscimento dell’altro e sulla consapevolezza che l’uomo moderno, malato di egotismo e solipsismo, può guarire solo al prezzo di gettare dei ponti verso i suoi simili e imparando a dire non più “lui”, ma “tu”.

In questo senso, egli è stato, prima di lasciare la Germania in preda al totalitarismo nazista, e accanto a pensatori e teologi come Martin Buber, Karl Barth e Franz Rosenzweig, un punto di riferimento per quanti nutrivano una visione profondamente spirituale della vita e non erano disposti ad ascoltare le sirene di quelle filosofie e di quelle ideologie che promettevano di costruire l’uomo nuovo sulle macerie della sua intima umanità, alienandolo da se stesso e dalla propria pienezza esistenziale.

Egli non fu solo un pensatore, ma un formidabile organizzatore e un trascinante uomo d’azione: i campi di lavoro da lui ideati e realizzati, nei quali trovavano accoglienza i giovani studenti della borghesia, così come i figli della classe operaia e di quella contadina, furono un esperimento pedagogico di alto valore civile e morale; la sua lezione, inoltre, è stata accolta e trasmessa da alcuni intelligenti e volonterosi discepoli, che si sono sforzati, e si sforzano tuttora, di tener vive le istanze da cui muoveva la sua concezione dell’uomo e del fatto educativo.

Fra tali discepoli possiamo ricordare il tedesco Walter Hartmann, autore di un libro che, benché tradotto in italiano, non ha fatto breccia nel muro di gomma di un certo provincialismo culturale nostrano e che meriterebbe di essere maggiormente conosciuto, ripreso, riletto e discusso, sia tra quanti si interessano di filosofia, sia tra i cultori del pensiero pedagogico, per la ricchezza e la vivacità degli spunti che contiene e per la fecondità della riflessione e della discussione che essi possono aprire e sollecitare.

In particolare, Hartmann si sofferma sul problema dell’edonismo contemporaneo e muove un attacco alla psicanalisi: non tanto a Freud, quanto ai suoi seguaci ed epigoni, ai quali rimprovera di avere ridotto il principio del piacere a scopo di vita e di avere, così, negato e rimosso le istanze profonde dell’anima verso la realizzazione dell’uomo integrale; cosa tanto più deplorevole, in quanto tale filosofia era stata propagandata da pensatori, come Marcuse, i quali hanno fatto della battaglia contro «l’uomo a una dimensione» quasi la loro missione; senza rendersi conto, però, che essi stavano solo sostituendo a una dimensione esclusiva, quella economica, un’altra dimensione esclusiva, quella edonistica.

Ci piace riportare il passaggio chiave della sua riflessione (da: W. Hartmann, «Uomini in un’epoca senza linguaggio»; titolo originale: «Menschen in Sprachloser Zeit», Stuttgart, Kreuz Verlag, 1973; traduzione dal tedesco di Giorgio Mion, Brescia, La Scuola Editrice, 1979, pp. 104-106):

 

«”Quando si arrivò a conoscere il meccanismo della nevrosi – disse Freud – si trovò che l’uomo diventa nevrotico perché non riesce a sopportare tutte le rinunce che la società gli impone in vista dei suoi ideali culturali e si concluse che eliminare o diminuire di molto queste richieste equivale a ritornare alla possibilità di felicità”.

Naturalmente l’ascetico Sigmund Freud non era l’uomo da difendere una diminuzione unilaterale delle esigenze culturali in favore del principio del piacere. Com’è noto egli suggerì di moderare già nel bambino l’innato desiderio del piacere con il cosiddetto “principio della realtà”. Ciò tuttavia non impedì che un’educazione cosiddetta progressista propagandasse appunto questa diminuzione delle esigenze culturali in favore di qualsiasi stravaganza nel’espressione linguistica e nel comportamento dei bambini. Né ha impedito a Herbert Marcuse di smascherare il principio della realtà di Freud, in quanto principio di piacere, come illusorio per il presente. Dal momento che le macchine ci liberano sempre più dalla costrizione di un lavoro opprimente e dalla sottomissione a un dominio irrazionale, non sono più giustificate neppure culturalmente le rinunce che la società ci ha finora imposto e che anche Freud considerava indispensabili per il divenire dell’Io. è invece giunto il tempo in cui “la dimensione estetico-erotica… prende coscienza di sé”, in cui “le limitazioni di gioia e di libertà imposte dal principio della realtà” non devono più essere prese come definitive, il tempo in cui l’uomo arriverà finalmente a una felice armonia con i suoi desideri istintivi, preconsci”. […]

L’aspetto miserabile di tutto ciò consiste nella limitazione imposta a se stessa dalla psicologia,  che lascia da parte l’anima, la nega, la riduce  a una cosa naturale. Marcuse giunge così alla grottesca conclusione che la salvezza dell’uomo va cercata là dove il suo Io entra in sintonia con i suoi istinti preconsci. Ma a che tendono questi istinti? Per cercare una risposta possiamo ora ritornare a Freud. Egli dice: Gli istinti rappresentano le richieste del corpo  alla vita del’anima”.  Sotto l’impulso di questi istinti preconsci “l’Io tende al piacere e vuole evitare il dispiacere”. Ciò significa, ed è questo che a noi ora interessa soprattutto, che l’Io è libidinoso. Sotto la spinta di questa libidine, che gli giunge da sorgenti somatiche, esso tende al piacere per il piacere. Orientati verso il principio del piacere, gli uomini rispondono con il loro comportamento pratico anche alla domanda del “senso e dello scopo della loro vita” e fanno così vedere “che cosa pretendono dalla vitae che cosa vogliono in essa raggiungere”. Questa risposta, dice Freud nel suo famoso trattato “Das Unbehagen in der Kultur” del 1930 è facilmente intuibile; “essi tendono alla felicità, vogliono essere felici e rimanere tali”.  Questa tensione ha due aspetti, uno scopo positivo e un altro negativo; essa vuole da una parte l’assenza del dolore e della sofferenza, dall’altra l’esperienza di forti sensazioni di piacere”.  Freud può dunque riassumere così il suo pensiero: “Come si vede, è semplicemente il programma del principio del piacere. Che costituisce lo scopo della vita.  Questo principio domina fin dall’inizio l’attività dell’apparato psichico; sulla sua utilità non ci può essere alcun dubbio, eppure…”.

Eppure con le frasi che seguono Freud versa tanta acqua nel vino dei suoi moderni adepti, da H. Marcuse fino ad A. S. Neill, che desta meraviglia vederli così allegri.  Freud continua: “eppure il suo (dell’apparato psichico) programma (del principio del piacere)  è in lotta con tutto il mondo, sia con il macrocosmo che con il microcosmo. Non è per nulla attuabile; tutte le istituzioni dell’universo gli si oppongono; vorremmo dire che l’intenzione dell’uomo di “essere felice”  non figura nel progetto della “creazione”.

Si poterebbe dunque concludere che l’apparato psichico riceve dal principio del piacere un programma in ultima analisi sbagliato. A questo proposito mi sembra estremamente sorprendente e degno di nota il fatto che Freud per descrivere la “lotta” del principio del piacere “con tutto il mondo”, non soltanto si serve di una terminologia teologica, ma anche formula una frase sostanzialmente teologica; naturalmente una frase, contro la quale qualsiasi teologo cristiano deve opporsi decisamente, perché contiene un’enorme eresia dal carattere chiaramente manicheo. Ma la nostra sorpresa nel sentire Freud parlare in termini teologici del problema della felicità umana può durare soltanto finché non ci accorgiamo che il suo punto di partenza, cioè la formulazione del principio del piacere, segna esattamente il punto in cui una sociologia sbagliata s’incontra con una teologi sbagliata. Chi considera l’uomo come un essere determinato dalla tendenza verso il piacere per amore del piacere, non può – se è onesto e coerente con Freud – arrivare a concludere che a questo uomo siano destinate nel piano della creazione felicità e salvezza. Posto questo punto di partenza, attese così euforiche possono essere accarezzate soltanto da pensatori di modesta levatura.»

 

Freud, dunque nel “disagio della civiltà” vedeva, a differenza di tanti suoi pretesi discepoli, l’esito necessario del conflitto tra istinti e norme sociali; ma ammetteva che, sia pure a prezzo di essere infelice, l’uomo deve inchinarsi a queste ultime, perché, se facesse altrimenti, sarebbe travolto dalle pulsioni omicide, incestuose e, in genere, violente e antisociali, che sgorgano dall’inconscio.

D’altra parte, non si può dire che i suoi discepoli contemporanei siano del tutto incoerenti, come invece sembra pensare Hartmann; perché essi concordano con l’analisi del loro maestro per quanto riguarda la struttura fondamentale della personalità (di anima, certo, non si abbassano a parlare) e si limitano a rimuovere l’ultima diga che il loro maestro ancora si ostinava ad opporre al dilagare del principio del piacere: il timore dell’autodistruzione; in fondo, come aveva fatto Hobbes con la sua concezione dello Stato-Leviatano, unico rimedio alla lotta all’ultimo sangue di tutti contro tutti.

Ma l’errore, e questo Hartmann non manca di rilevarlo, sta alla radice: è nella psicologia freudiana (che poi s’improvvisa, niente di meno, teologia), ossia nella pretesa che il principio del piacere, che pure esiste e fa parte della natura umana, sia anche lo scopo supremo della vita. E qui il passo è lungo davvero, né Freud – e tanto meno i suoi epigoni – si prende la briga di dimostrarlo.

In altre parole: una cosa è dire che, nell’uomo, vi sono degli istinti, delle pulsioni naturali che tendono al piacere, disordinatamente e con qualsiasi mezzo; un’altra cosa, e ben diversa, teorizzare che ciò sia lo scopo della sua vita. Il fatto che siano naturali, non implica che siano anche buone…