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L’uomo, per Hobbes, non cerca amici, ma si avvinghia ai suoi simili per mero interesse

di Francesco Lamendola - 04/10/2013


 


 

Come sarebbe l’uomo, per natura, nei confronti dei suoi simili: rispettoso, benevolo e collaborativo, oppure egoista, opportunista, cinico?

Questa domanda ha tormentato per secoli i filosofi occidentali: da Aristotele, che vedeva nell’uomo un animale eminentemente sociale, a Sartre, che vedeva nell’altro uomo l’inferno di ciascuno; e fra questi due estremi di ottimismo e pessimismo, come un pendolo, continuamente hanno oscillato le opinioni, su e giù, senza pace.

Che si tratti di una domanda fondamentalmente mal posta; che non abbia senso domandarsi come “sarebbe” l’uomo allo stato di natura, perché di tale stato, ammesso che esista o sia esistito, noi nulla sappiamo e, quindi, nulla possiamo dire; che tutto ciò che possiamo dire dell’uomo sia relativo al suo vivere in società, e che il fatto di vivere in questa o in quella società esercita, palesemente, una influenza grandissima, per non dire decisiva, su di lui, sui suoi pensieri, sui suoi sentimenti, sulle sue azioni: tutto questo è stato pressoché ignorato, forse perché troppo semplice, da filosofi convinti che la realtà debba essere per forza qualcosa di terribilmente complicato (anche se loro e loro soltanto, si capisce, ne posseggono, a certe condizioni, la chiave).

Rousseau e la sua scuola, in particolare, si sono intestarditi a voler veder nella “bontà” originaria della natura – un concetto che essi soltanto sembrano aver compreso pienamente – la prova, si fa per dire, della bontà originaria dell’uomo, o almeno la prova della sua “innocenza”; il che, secondo loro, si accompagnava anche a una condizione di “felicità”, riversando tutte le colpe della cattiveria umana sulla civiltà che, alterando i processi naturali, corrompe l’uomo e lo rende il nemico di se stesso e dei suoi simili.

L’ottimismo antropologico d Rousseau affonda le proprie radici in quello dei giusnaturalisti di un secolo prima – Altusio, Grozio e Pufendorf -, i quali avevano affermato, invero senza prendersi la briga di dimostrarlo, che l’uomo nasce libero per natura e che la sua libertà si esplica nel diritto naturale secondo ragione, che precede qualunque diritto positivo. Il loro scopo era essenzialmente pratico, fornire un sostegno teorico alla necessità di realizzare una convivenza pacifica fra gli uomini, in un secolo di guerre feroci e di cieca sottomissione dell’individuo alle pretese dello Stato; perciò era quasi inevitabile che postulassero la natura ragionevole dell’uomo e che la dichiarassero in accordo con le leggi di natura.

Eppure vi fu un pensatore europeo che, pur mirando a un obiettivo analogo al loro – promuovere la pacifica e civile convivenza degli uomini all’interno della società – non era disposto a concedere, con Aristotele, che l’uomo sia un animale “naturalmente” socievole; ma che percorse la strada opposta, partendo da un radicale pessimismo antropologico, per dare più forza alla sua richiesta di uno Stato assoluto, unico rimedio alla distruttività dei singoli individui, impegnati in una perenne e sistematica lotta reciproca, in un eterno «bellum omnium contra omnes», perché «homo homini lupus», l’uomo è come un lupo nei confronti dell’uomo. È la stessa strada percorsa da Machiavelli prima di lui, solo tracciata con maggiore sistematicità e, se possibile, con spregiudicatezza anche maggiore: lo Stato Leviatano che il filosofo inglese auspica, capace – come il mostro biblico del libro di Giobbe – di incutere paura e rispetto della legge, non è che la versione aggiornata e impersonale del Principe, teorizzato dal segretario fiorentino.

Le idee di Hobbes circa la realtà dello stato di natura dell’uomo, ben diverse da quelle degli altri giusnaturalisti, sono esposte con chiarezza nel «De cive», che avrebbe dovuto essere la terza sezione del suo sistema di sapere filosofico «Elementorum philosophiae»; ma che, invece, egli scrisse per prima, anonima, nel 1642; mentre la prima e la seconda parte, rispettivamente il «De corpore» e il «De homine», apparvero solo nel 1655 e nel 1658. A sua volta, il «De cive» consta di tre sezioni: «La libertà», «Il potere» e «La religione». Ed è nella prima di esse che Hobbes sostiene come il diritto naturale degli uomini sia un diritto “a tutto”, nel senso che ciascuno desidera ogni cosa, anche a danno del prossimo; ed è proprio per porre un limite all’aggressività e al disordine perenne da ciò derivante, che è sorto il potere politico, l’Imperium.

Altro che naturale socievolezza degli uomini; Hobbes contesta radicalmente l’antropologia aristotelica e sostiene con forza che gli uomini, se dovessero abbandonarsi ai loro istinti, sarebbero in guerra perpetua: l’origine contrattualistica dello stato non nasce, come per gli altri giusnaturalisti, dalla “ragione” e non è secondo “natura”; ma nasce, al contrario, dalla paura: dalla paura della povertà, della violenza, della morte.

Vale la pena di riportare i passi salienti della sua argomentazione (da: Hobbes, «De Cive», a cura di Carlo Monti, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 35-39):

 

«La massima parte degli scrittori politico suppone o pretende o postula che l’uomo sia un animale socievole per natura (i Greci dicono “zòon politikòn”) e su questa base costruiscono le teorie politiche come se per la conservazione della pace e il governo di tutto il genere umano non fosse necessario se non accettare da parte degli uomini quei patti e quelle condizioni che essi chiamano leggi.  Ma questo assioma, per quanto accettato dai più, è falso. […]  Se, infatti, l’uomo amasse il suo simile per natura, cioè, come uomo, non si potrebbe capire perché ciascuno non amasse tutti gli altri nella stessa misura, proprio perché si tratta, allo stesso modo, di uomini, e perché dovesse frequentare coloro la cui amicizia potrebbe dare a lui, piuttosto che ad altri, un qualche onore od utilità. Pertanto, non cerchiamo amici per natura, ma ci avvinghiamo a quelle persone da cui possiamo trarre onori  e vantaggi; questi, in primo luogo, desideriamo, quelli solo secondariamente. […] Pertanto, ogni associazione si contrae o per utilità o per ambizione e, quindi, per amor proprio e non degli altri membri che ne partecipano. […] Quindi, nessuno può dubitare che gli uomini, per loro natura sarebbero portati, se non ci fosse il timore, molto più avidamente a dominare, piuttosto che ad associarsi. Bisogna, dunque concludere che le gradi e durevoli associazioni non va rintracciata nella vicendevole simpatia fra gli uomini, ma nel reciproco timore. La causa del reciproco timore consiste in parte nell’uguaglianza fra gli uomini, in parte nella comune volontà di nuocere. Da ciò consegue che non siamo in grado di attenderci la sicurezza da altri, né di procurarcela da noi stessi. […] La volontà di nuocere è presente in tutti allo stato di natura, ma non proviene dalla stessa causa, né presenta a stessa colpevolezza. Alcuni, infatti, in conformità all’uguaglianza naturale, permettono agli altri di fare quelle cose che essi stessi fanno (ed é questo l’atteggiamento dei moderati e di coloro che valutano esattamente le loro forze): altri, invece, ritenendosi superiori agli altri, pretendono che tutto sia loro lecito e si arrogano per sé, di fronte a tutti gli altri, ogni specie di onore (ed è questo l‘atteggiamento proprio dei prepotenti).  A coloro, pertanto, la volontà di nuocere proviene dalla vanagloria e da una errata valutazione delle proprie forze, mentre agli altri dalla necessità di difendere le proprie cose e la libertà contro questi. […] Ciascuno è portato a cercare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò che per lui è male, specialmente quello che è il massimo dei mali naturali, cioè la morte. Il che accade, secondo una ferrea legge naturale,  non meno rigida di quella secondo cui una pietra cade dall’alto verso il basso. Quindi, non è assurdo né riprovevole, né contrario alla retta ragione, se ognuno si adopra a difendere il proprio corpo e le proprie membra dalla morte e dalle sofferenze e faccia il possibile per conservarli incolumi.  E ciò che non è contro la retta ragione, tutti lo considerano conforme alla giustizia e al diritto. Infatti, il concetto di diritto non significa altro che la libertà che ognuno ha di servirsi delle proprie facoltà  naturali secondo la retta ragione. […] La natura ha dato a ciascuno il diritto su tutto. Cioè, allo stato puramente naturale, cioè, prima che gli uomini attraverso qualche patto si vincolassero reciprocamente, a ciascuno era lecito compiere tutte le azioni che credesse opportuno e contro tutti coloro che gli piacesse e possedere, usare, godere di tutto ciò che voleva e poteva. […] Se alla naturale tendenza degli uomini a nuocersi reciprocamente, tendenza che, soprattutto, deriva dalle passioni e dalla presunzione, si aggiunge anche il diritto di tutti su tutto con il quale l’uno ha il diritto di invadere la sfera altrui e l’altro un ugual diritto di resistere, e dal quale nascono continui sospetti di animosità  degli uni verso gli altri e se si pensa quanto sia difficile difendersi dai nemici con uno scarso numero di compagni e con un scarso apprestamento difensivo, quando ci attaccano con intenzione di sopraffarci e di sopprimerci, non si può negare che lo stato di natura, prima che si costituisse la società, fosse uno stato di guerra e non di guerra semplicemente, ma di guerra di tutti contro tutti. Che cosa è, infatti, la guerra se non quel periodo di tempo in cui la volontà di combattersi  senza tregua si manifesta sufficientemente  attraverso le parole e i fatti? Il tempo restante si chiama pace…»

 

Ma gli uomini, osserva Hobbes, in un siffatto stato di guerra permanente, non possono aspettarsi di sopravvivere; dunque essi devono per forza o cercare aiuti per difendersi in guerra, o stabilire la pace. Ed è qui, secondo lui, l’origine della società e dello Stato: dalla paura della morte, delle offese, nonché di tutti i disagi e i pericoli che vengono dalla debolezza di trovarsi soli, o in piccoli gruppi, invece che all’interno di una associazione sufficientemente forte da garantire protezione e sicurezza ai suoi membri.

La società e lo Stato, dunque, nascono dalla paura: paura di essere molestati, sopraffatti, uccisi da altri esseri umani; paura di non essere in grado di difendersi, di proteggersi, di conservarsi; paura della morte. Ed è logico che uno Stato siffatto debba mantenersi per mezzo della paura: deve incutere paura, perché solo quello della paura è il linguaggio che gli uomini intendono; un tale Stato dovrà sostituire la paura delle leggi alla paura della violenza e dell’arbitrio individuali. In questa concezione, ognuno lo vede benissimo, non c’è posto per una legge, per una società, per uno Stato che abbiano carattere pacifico: in un certo senso, si tratta di sostituire alla guerra aperta di tutti contro tutti, la minaccia di guerra con cui la legge colpirebbe infallibilmente chi osasse ribellarsi al patto sociale. Se l’uomo è lupo per i propri simili, allora è necessario che lo Stato sia un super-lupo, sia un mostro, sia un Leviatano, perché solo uno Stato siffatto riuscirebbe a imporsi alle violenze sistematiche dello stato di natura.

Hobbes chiama “pace” l’obiettivo che lo Stato-Leviatano è capace di realizzare: ma è proprio vero? Vediamo la sua definizione di “pace”: il tempo che rimane quando non regna la guerra. È una definizione negativa: dice che cosa la pace non sia, ma non dice che cosa essa sia positivamente. A quanto pare, nella prospettiva di Hobbes la pace non è qualcosa, è la mancanza di qualcosa: la sospensione della guerra, condizione “naturale”, quest’ultima, degli esseri umani. Ma se la guerra è la loro condizione naturale, allora lo Stato è una associazione profondamente innaturale. È vero che Hobbes tenta di dimostrare la “ragionevolezza”, e dunque la “naturalezza”, del desiderio di pace, o di sospensione della guerra, con l’argomento che tutti cercano di sottrarsi alle offese, per quanto possibile, per preservare se stessi. Ma il suo pensiero profondo si tradisce quando afferma che due sono le strade con cui gli uomini reagiscono alla paura della guerra: cercare la pace o cercare alleati per sostenere la guerra con prospettive di successo.

Ebbene, una tale idea della pace non è affatto l’opposto della guerra, è solo l’immagine speculare di questa. Se gli uomini possono difendersi scoraggiando la guerra, allora cercano di farlo; ma essi cercano di proteggersi, in pari misura, adoperandosi per essere forti in guerra: il loro scopo non è la pace, la pace non è un bene in sé desiderabile; il loro scopo è essere abbastanza forti da non subire offese o pericolo di morte. La pace, nella concezione di Hobbes, è solo uno strumento per mettersi al sicuro dal pericolo di venire aggrediti, derubati o uccisi. Ma se questo risultato lo si può conseguire facendo la guerra, beninteso in condizioni di vantaggio, allora ben venga la guerra. Questo è quanto legittimamente si può dedurre dalle sue parole e dai suoi ragionamenti, non  una deformazione del suo pensiero. Il dramma della cultura politica moderna è che essa ha fatto proprio questo nucleo del pensiero di Hobbes e che raramente si è impegnata per stabilire una pace che fosse eliminazione delle cause di guerra, ma solo, tutt’al più, una pace che consentisse di proteggere meglio l’egoismo di quei super-individui che sono gli Stati: ora con mezzi “pacifici”, ora violenti…