Etica per una foglia
di Sveva Taverna - Umberto Galimberti - 14/10/2005
Fonte: dweb.it
García Lorca dice che nella vita tre sono le cose essenziali da fare:
"Mettere al mondo un figlio, scrivere un libro, piantare un albero"
Ho 24 anni, sono una studentessa universitaria e quell'"eccesso di forza e potenza dell'immaginazione" di cui lei parla nell'articolo "Non siate
realisti" è fondamentale in me, che fin da piccola ho imparato a guardare
negli occhi il mondo. È capitato che, a causa di alcuni lavori di viabilità,
hanno tagliato degli ALBERI meravigliosi (cresciuti con me) lungo la mia
strada, per ridurre il marciapiede tanto da formare dei parcheggi a spina.
Utilizzo tutta la mia energia e forza per capire, lotto perché li ripiantino, mi mobilito casa per casa, raccolgo firme perché per me è una questione che investe infiniti significati: l'idea di SPAZIO, di ARIA (che è sempre più asfissiante) e anche l'idea di FUTURO, perché i bambini che verranno abbiano la possibilità di vedere la bellezza che vedevo io e gli anziani non se ne vadano "all'altro mondo" con la definitiva idea che tutto sia marcio e immutabile nel profondo. Me ne faccio carico come di una missione perché credo che la mia forza giovane sia una possibilità per migliorare. Ma ecco, scendo in strada, sento discutere animosamente, trovo i commercianti che mi accusano di essere solo una ragazzina idealista, spiego le mie ragioni sugli alberi e loro ribattono che non servono! "Sono necessari i parcheggi", dicono, "ma cosa ne puoi capire tu? Anzi, avrai anche qualche problema psicologico, perché non vai da un analista? Non è normale che alla tua età ti occupi di questo!". E ancora: "Studi? Non lavori? Ah, allora non fai niente tutto il giorno!". Ne sono uscita scossa, con l'unica "consolazione" dell'analisi pasoliniana del mondo: quella "mutazione antropologica", di cui parlava il poeta, io la vedo sotto casa. Se per degli esseri umani la lotta per riavere gli ALBERI è una forma di Utopia inutile, io non so quasi più che senso abbia la mia lotta e per chi la sto facendo!
Sveva Taverna, Roma
Nella sua piccola "nota di quartiere" lei sta sollevando un problema enorme che solo i bottegai che aspettano i clienti possono non capire. Eppure loro, maneggiando quell'unico generatore simbolico della nostra cultura che è il denaro, finiranno per aver ragione, mortificando l'utopia e l'impegno di una giovane ragazza di quartiere che, essendo giovane, è l'unica che può avere una certa competenza sul futuro.
Purtroppo la città degli uomini, che un tempo era uno spazio recintato nel
mondo naturale, oggi ha preso il posto della natura ridotta a spazio
recintato nel mondo artificiale della città, dove la natura può vivere solo
grazie all'assistenza tecnica, la stessa che un giorno l'ha compromessa come paesaggio abituale, modificando l'esistenza dell'uomo e quello che Marx chiamava "il suo ricambio organico con la natura".
Se guardiamo la monotonia di distese di cereali solcate da mietitrici
solitarie e irrorate da antiparassitari erogati in volo, abbiamo un esempio
elementare ma indicativo di come la tecnica, anche quando soccorre la
natura, in realtà la "denaturalizza", perché crea un paesaggio così poco
ospitale e così poco comunicativo che persino una fabbrica offre un volto
più umano.
Se poi dal mondo vegetale passiamo a quello animale, l'estrema degradazione di esseri viventi trasformati in macchine da uova e da carne, sottratti al loro ambiente, sottoposti a illuminazione artificiale, alimentati automaticamente, deprivati sensorialmente, è la prova più evidente di come l'assistenza tecnica alla natura denaturi la natura e segni l'abissale distanza che ormai separa la tecnica dal suo antico radicamento naturale. Ma ormai anche la natura, per effetto dell'incremento demografico esponenziale, ha forse superato il limite biologico, e, senza l'intervento della tecnica, non è più in grado di provvedere alle sue stesse creature.
Leggo in questi giorni che la concentrazione della popolazione in città
senza natura è la causa prima dell'infertilità umana, che si prevede
toccherà, nell'arco di quindici anni, il 30% della popolazione metropolitana, quasi la natura ci proibisse di generare là dove la vita ha
perso ogni connotato naturale. Se poi pensiamo che nel 2020 i tre quarti
dell'umanità saranno concentrati in quaranta città, con concomitante
incremento dei processi di desertificazione, vien da chiedersi se, dopo
essere passati dall'uso della terra all'usura della terra, non abbiamo posto le premesse per la fine dell'esperimento umano. E questo anche perché ancora non disponiamo di un'etica che si faccia carico degli enti di natura, perché sia l'etica cristiana sia l'etica laica si sono limitate a regolare i rapporti tra gli uomini, senza assumere alcuna responsabilità nei confronti degli alberi, degli animali, dell'aria, dell'acqua, in una parola di ciò che è naturale, che è poi la condizione per cui gli uomini possono vivere e avere rapporti tra loro.
Quando nel Genesi leggiamo che Dio assegna all'uomo il compito di "dominare" la terra, o quando in Kant leggiamo che "l'uomo va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo", mi viene da chiedere se questo ostinato e pervicace antropocentrismo, che pensa l'uomo come il fine del creato a cui tutto è subordinato, non sia la causa prima di quell'usura della terra che, come una minaccia, ormai incombe sul nostro futuro. E già se ne vedono inquietanti e devastanti i segni, che naturalmente non preoccupano né gli,automobilisti né i bottegai, per i quali il futuro prossimo o lontano non rientra, non dico nella loro etica, ma neppure nella loro visuale.
Umberto Galimberti