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Bisogna tenere alto lo stendardo nella palude vischiosa del nichilismo

di Francesco Lamendola - 18/10/2013




 

Forse lo scrittore viennese Alexander Lernet-Holenia, quando si faceva conoscer con il romanzo «Die Standarte» («Lo stendardo»), nel 1934, è stato frainteso da molti dei suoi lettori: perché, dietro la romantica storia d’amore tra l’alfiere Herbert Menis e la bella crocerossina Teresa Lang, entrambi giovanissimi,  a Belgrado, sullo sfondo corrusco del crollo austro-ungarico nel novembre 1918, si celano ulteriori livelli di lettura e ulteriori significati, più profondi e meno immediatamente riconoscibili.

Della cornice storica abbiamo già avuto occasione di parlare in un precedente saggio (cfr. «La dissoluzione dell’esercito austro-ungarico (fronte balcanico 1918)», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 27/11/2007), ma non di questo aspetto “nascosto” e, forse, esoterico. Tutta la seconda parte del romanzo, con la descrizione della fuga dei due protagonisti da Belgrado - occupata di slancio dalla cavalleria nemica -, attraverso i sotterranei del Konak e nelle viscere della collina, lungo una serie di passaggi segreti, misteriosi cunicoli e grotte dal sapore dantesco, fino a sbucare sulle rive del Danubio, ha il sapore di un messaggio in codice, destinato forse a un ristretto pubblico di esoteristi, come se l’Autore avesse voluto alludere all’esistenza di una rete segreta di Calvari, simili alle vene di un reticolo occulto che attraversa sotterraneamente l’intero continente e che potrebbe custodire segreti antichissimi e gelosamente tramandati.

Sia come sia; ma vi è un altro livello di lettura “nascosto”, che va assai oltre la vicenda esteriore dei personaggi, della guerra, dell’ammutinamento, della dissoluzione militare e, più ancora, morale, dell’Impero austro-ungarico alla fine della prima guerra mondiale: e cioè il significato profondo dello stendardo, che non è solo l’insegna o bandiera di quel tale reggimento dei dragoni chiamato  «Maria Isabella», e di come esso venne salvato e portato a Vienna, mentre, sui ponti del Danubio, si consumava il dramma di un esercito ammutinato alla vigilia della disfatta; ma che simboleggia l’eterno stendardo della lealtà, dell’onore, del sacrificio, cui ogni essere umano, in pace o in guerra, dovrebbe ispirare la propria vita, e per difendere il quale dovrebbe essere pronto a rischiare anche se stesso.

Che cos’è uno stendardo? Il Devoto ci informa che la parola deriva dal francese antico  “estendart”, divenuto oggi “ étendard”, a sua volta derivante, forse,  dal latino “extendere”: dunque un oggetto, un drappo che si ostende, che si mostra, che è fatto per essere visto e per simboleggiare qualche cosa d’altro, che va assai oltre la cosa in sé.  Ma “ex-tendere”, cioè tendere verso qualcosa (o, per essere più precisi, “fuori di qualcosa”), rimanda anche al significato “interiore” dello stendardo: non solo qualche cosa che è fatta per essere vista dagli altri, ma che è fatta perché chi la porta, chi la custodisce, chi la protegge, guardi sempre verso di essa, tenda sempre verso di essa, sia pronto a sacrificarsi per essa. Lo Zingarelli precisa che, fino alla seconda guerra mondiale, lo stendardo era la bandiera dei reggimenti di cavalleria e artiglieria, di dimensioni più ridotte rispetto a quella degli altri corpi. Tuttavia uno stendardo è molto di più: è un’insegna; e un’insegna è il simbolo di qualche cosa che non appartiene al mondo visibile, di qualche cosa che non è misurabile e quantificabile, ma che è sacro: un concetto, un ideale, un valore per il quale si deve vivere e, se ne necessario, bisogna anche saper morire.

L’alfiere Menis, in effetti, rischia la vita per portare in salvo lo stendardo: non importa se il reggimento si è dissolto, e nel più inglorioso dei modi, con le truppe “fedeli” che sparano su quelle ribellatesi all’ordine di marciare sui ponti del Danubio per andare incontro al nemico, in una guerra chiaramente già persa; non importa se l’esercito non c’è più, se la patria non c’è più – ci penseranno i politici massoni, a Versailles, nemici giurati dell’idea che quell’impero, cattolico e plurinazionale,  rappresentava per la Mitteleuropa -; non importa nemmeno se perfino l’imperatore non c’è più, ha dovuto andarsene, incalzato dalla rivoluzione e dalla implacabile volontà delle potenze vincitrici: quel che conta è l’idea, salvare l’idea, tramandare l’idea.

Le battaglie si possono anche perdere, ma c’è una battaglia che non si può perdere mai e che non si deve perdere mai: quella per la difesa del proprio onore, del proprio dovere, della propria dignità, del rispetto dovuto a se stessi; quella per la rimanere fedeli a dei valori che sono stati condivisi e sottoscritti nella buona fortuna, e che vanno tenacemente, ostinatamente difesi anche nella cattiva, per quanto la sconfitta possa apparire certa. Certe battaglie non si combattono per vincere, o meglio non si combattono per vincere contro il nemico esterno; si combattono per uno scopo più grande e più alto: per affermare la forza dell’ideale, per preservare la propria coerenza e onestà, per non arrendersi alla viltà e alla mediocrità dilaganti.

Si può dire che l’umanità, nel suo complesso, è divisibile in due categorie: quella di coloro che possiedono lo stendardo e quella di coloro che non ce l’hanno, che ne ignorano persino l’esistenza. Chi possiede uno stendardo ha, per ciò stesso, un’altissima concezione della vita: sa che non è una passeggiata, che non è una scampagnata alla ricerca di effimeri piaceri, che non è il frutto del caso e che non può essere sprecata nel disimpegno, nell’indifferenza, nell’edonismo volgare. Sa che ogni singola scelta, grande o piccola, rappresenta una svolta e un banco di prova della propria coerenza, della propria purezza, del proprio valore; sa che nulla è per caso e che nulla può essere preso con leggerezza incosciente, con furberia, con opportunismo.

Coloro i quali, viceversa, non possiedono uno stendardo, né sospettano quanto ciò sia importante, vivono alla giornata: senza ideali, senza senso dell’onore, senza rispetto per se stessi e per gli altri: sono come delle mine vaganti, preoccupati solo ed esclusivamente del proprio utile e del proprio piacere, smaniose di guadagnare un vantaggio, una buona posizione, una rendita, un punto di forza; duttili, pieghevoli, fin troppo malleabili, sensibili a qualunque offerta, a qualunque opportunità di avanzamento, a qualsiasi prezzo, anche al prezzo di vendersi, di smentirsi, di rinnegare ciò che pensavano, dicevano e facevano sino al giorno prima: in breve, dei mercenari.

Una cultura falsamente democratica e pseudo-libertaria, d’altra parte, ha imbottito la testa dei giovani con il ritornello che non è bene coltivare un ideale troppo alto, perché ciò allontana dalla “terra”; e, inoltre, che non è bene credere troppo ai propri valori, perché questo porta al fanatismo, e il fanatismo ha prodotto i crociati, le guerre, gli sterminî; che il buon cittadino dei nostri tempi, insomma, è un individuo disincantato, che non prende nulla troppo sul serio, perché, se lo facesse, diventerebbe un potenziale pericolo per la pace e per la tolleranza. E cita, questa cultura falsamente democratica, il caso dei brigatisti, dei talebani, dei terroristi suicidi, per sostenere l’idea che il “buon” cittadino del Duemila, reso saggio e tollerante dalle atrocità della storia, si tiene lontano da ogni estremismo e da ogni integralismo.

Ma è una cultura in mala fede, perché confonde cose tra loro diversissime: che vuol dire “estremismo”, che vuol dire “integralismo”? Se vuol dire odio verso l’altro, se vuol dire insofferenza per chi non è come noi, allora siamo d’accordo: ma basta andare una domenica allo stadio per vedere come questa cattiva pianta trova comunque il modo di prosperare e di sfogarsi ad ogni minima occasione, con buona pace della democrazia e della libertà di ciascuno. Ma avere un ideale, essere gelosi custodi di uno stendardo, non ha questo significato; tutt’altro. Vuol dire avere piena consapevolezza di quanto sia importante avere dei punti di riferimento morali: e chi acquisisce una tale consapevolezza, non sarà mai un fanatico, né un talebano.

La smettano, dunque, i signori intellettuali del “pensiero debole” e del politicamente corretto, di agitarci davanti lo spauracchio del fanatismo e dell’intolleranza: non sono queste le origini di simili malanni sociali; al contrario: è sul deserto etico, è sulla mancanza di valori che prosperano le male piante dell’intolleranza e del fanatismo. Perché lo stendardo è simbolo di valori, e i valori non sono mai una clava da brandire contro qualcuno, ma, al contrario, ciò che spinge ad affermare qualcosa di positivo, qualcosa di onesto, qualcosa di pulito.

Pensare che una persona, per essere immunizzata dai germi del fanatismo e dell’intolleranza, debba diventare scettica o cinica, che non debba credere più a niente, che debba rotolarsi nella palude del nichilismo e del suo inseparabile compagno, l’edonismo volgare, è press’a poco come dire che una persona, per proteggersi dai germi dell’influenza, dovrebbe sottoporsi a un’operazione per diventare un cyborg, fatto di metallo e di circuiti elettronici; che dovrebbe sradicare da sé la propria umanità; che dovrebbe suicidarsi in quanto essere umano, per diventare una cosa, un oggetto, un pezzo di materia, come un sasso o un tronco carbonizzato Certo, allora quella ex-persona sarebbe anche al sicuro dall’influenza: ma a che prezzo!

Eppure, basta guardarsi intorno per vedere che l’umanità sta, effettivamente, scomparendo e che le persone, silenziosamente, tranquillamente, perfino allegramente, si stanno trasformando in altrettanti cyborg: duplicati artificiali di ciò che erano, cose e non più persone, senza ideali, senza valori, senza sentimenti se non quello, esclusivo e ossessivo, del proprio io desiderante, bramoso di eterna gratificazione, insaziabilmente proteso alla conquista di successo, visibilità, riconoscimenti, applausi, carezze, lodi, premi, attestati.

A questo ci ha portati l’aver escluso i valori dal nostro orizzonte, l’aver calpestato ogni tradizione, l’aver reciso il legame con quanti, prima di noi, hanno vissuto e lottato per tenere viva la fiammella dell’onore, della fedeltà, della purezza: con quanti hanno tenuto alto lo stendardo, lo hanno onorato nella buona sorte e lo hanno strenuamente difeso nelle avversità, anche al prezzo di pagare, in prima persona, fino al sacrificio estremo.

E si trattava, nella grande maggioranza dei casi, di eroi umili, di eroi della vita quotidiana, che non cercavano la luce dei riflettori, non volevano farsi belli davanti ad alcuno, ma che agivano seguendo, semplicemente, la voce del proprio dovere: tanti nostri nonni e bisnonni simili a Padron ‘Ntoni, a compare Alfio, a comare Mena. Panettieri che restavano nel forno a fare il pane, anche durante i bombardamenti aerei dell’ultima guerra, affinché la gente, uscita dai rifugi, potesse trovare qualche cosa da mangiare; contadini che rimanevano fedeli alla zolla, strenuamente, anche in tempi di carestia; emigranti che partivano per Paesi lontani per dare una speranza di futuro ai propri figli e che, quanto a se stessi, tornavano a casa solo per morire ed essere sepolti nella terra degli avi, accanto ai loro genitori: erano tutti eroi dell’ideale.

Lo stendardo degli eserciti è solo un esempio della stendardo ideale, che sempre dovrebbe svettare nel nostro cielo e accompagnare ogni nostra azione, ogni nostra parola, ogni nostro pensiero. Lo spirito di sacrificio dei giovani delle passate generazioni, che si manifestava anche, se necessario, sui campi di battaglia, è solo una delle manifestazioni visibili dello spirito dello stendardo; per quanto la cultura edonista e consumista, oggi imperante, abbia diffuso l’idea che quei sacrifici furono inutili e peggio, che i ragazzi del Piave e di El Alamein erano solo dei poveri illusi, che la patria è un inganno e che il dovere è una fisima, per cui è meglio non  credere a niente, se non si vuole essere strumentalizzati e usati come carne da cannone.

Sì, è vero: questo pericolo esiste; esiste il pericolo che un potere arbitrario si serva di noi, dei nostri ideali, per trasformarci in burattini privi di volontà e per mandarci al macello: è successo e può succedere ancora. Ma da ciò non deriva – ecco il sofisma, ecco l’inganno – che ogni ideale sia una menzogna e che l’individuo non abbia alcun dovere, se non verso se stesso: quello di divertirsi e di badare ai fatti propri. Solo in apparenza il cyborg edonista è migliore del fanatico ridotto a cieco strumento del potere: bisognerebbe sempre tener presente che la stupidità uccide più della spada e che il “pacifico” modello consumista provoca ovunque, nel mondo, tragedie non minori di quelle delle guerre del passato, anche se meno spettacolari. Senza contare che le guerre del presente non sono meno distruttive per il fatto che nessuno ha più la franchezza di chiamarle con il loro nome, o per il fatto che non si combattono più per la patria, per l’onore o per la difesa della tradizione, ma per i profitti della Coca-Cola, per le speculazioni della Goldman Sachs o per gli introiti petroliferi delle Sette Sorelle.

Sì: per vivere degnamente, da uomini e non da bruti, è necessario avere un degno stendardo, tenerlo alto, lottare per esso. Chi non lo possiede appartiene è simile a un pesce d’acque basse, capace di vivere solo nel fango degli acquitrini: sempre pronto a vendersi a chi lo pagherà meglio.