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Appunti per una comparazione fra le tre ondate del processo di modernizzazione

di Aldo Giannuli - 01/11/2013

 

 

Premessa.

Affrontando lo studio del cd processo di “modernizzazione” possiamo distinguere alcune fasi intensive cui sono succeduti periodi di stabilizzazione, durante i quali i paesi limitrofi a quelli “moderni” si sono avviati per la stessa strada, mentre le fasi intensive investono, normalmente, i paesi di maggior rilievo. Possiamo, quindi, identificare tre fasi intensive principali:

a-quella della “Modernizzazione classica o liberal-capitalistica” (dal XVI agli inizi del XIX secolo) che ha riguardato essenzialmente Olanda, Inghilterra, America del Nord e Francia;

b-quella della “Modernizzazione autoritaria” che va dal 1860 circa, al 1939, che investe Italia, Giappone, Germania e Russia;

c-quella attuale, della “Modernizzazione neoliberista” che va dagli anni ottanta del secolo scorso ad oggi e che colpisce gran parte dei paesi asiatici (Cina, India, Indonesia) e dell’America Latina (Brasile, Messico, Argentina).

Parallelamente, possiamo distinguere due fasi di “assestamento”, la prima fra gli inizi dell’Ottocento e la metà dello stesso secolo (durante la quale il processo di passaggio alla modernità ha riguardato essenzialmente i paesi scandinavi e, parzialmente,  l’Impero austroungarico –segnatamente, in Slesia, Boemia, Moravia, Lombardo-Veneto), la seconda fra la II Guerra Mondiale e la metà degli anni Ottanta del scolo scorso.

1-  Il modello classico della prima ondata di modernizzazione.

Prima di entrare nel merito della comparazione storica di questi tre periodi storici, qualche premessa riassuntiva non è inutile. Come si sa, la modernità è stata analizzata dai classici del pensiero sociologico (Spencer, Tonnies, Marx, Durkheim, Weber ecc) come un processo organico in cui possiamo distinguere un insieme di fenomeni correlati di tipo:

a-economico (sviluppo tecnologico che permette la produzione di merci a mezzo macchine ad energia inanimata; economia di mercato di tipo capitalistico);

b-culturale (sostituzione del pensiero religioso con quello scientifico; privatizzazione della fede religiosa; affermazione dell’individualismo, dell’utilitarismo, del progressismo inteso come costante miglioramento della condizione umana prodotto dallo sviluppo della scienza; eguaglianza sociale);

c-sociale (massiccia urbanizzazione, divisione funzionale del lavoro, separazione della sfera privata da quella pubblica, mobilità sociale basata su criteri di merito, istruzione di massa);

d-giuridico (nascita dello Stato di diritto e fine dell’assolutismo, separazione dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario, affermazione dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, garantismo penale);

e-politico (stato nazionale con forte struttura burocratica, governo rappresentativo, libertà civili, secolarizzazione della sfera politica e laicità dello Stato);

L’esperienza storica reale dimostra che il complesso di questa serie di processi corrisponde ad un idealtipo che non si è attuato in nessun caso storico concreto: il valore di uguaglianza sostanziale si è affermato nella rivoluzione francese, ma è piuttosto estraneo all’esperienza degli altri tre paesi del gruppo considerato (se non come eguaglianza formale davanti alla legge), allo stesso modo in cui il processo di secolarizzazione si è sviluppato in modo assai diverso nei quattro contesti nazionali;il garantismo penale ha avuto vicende alterne e contraddittorie in tutti questi paesi (in Francia ed Usa in particolare) ecc.

Soprattutto, non si è mai osservata una sequenza, per cui un determinato fenomeno ne precede altri in un particolare ordine, per cui risulta assai poco agevole stabilire un rapporto di successione causale fra l’uno e l’altro elemento.

D’altro canto, anche nel processo di formazione dei capitalismi nazionali si osservano differenze non trascurabili: se in Inghilterra un ruolo decisivo nell’accumulazione originaria è svolto dalla pirateria (più correttamente, nella “guerra da corsa” autorizzata dall’autorità pubblica), questa componente è presente in misura minima nel caso francese e per nulla in quelli di Olanda ed Usa. Così come, nel caso francese –in particolare nell’epoca di Colbert- il ruolo dello Stato è del tutto fondamentale nello sviluppo del capitalismo nazionale, mentre tale intervento è assente (per lo meno in tale misura) nel caso inglese e, soprattutto, nei casi di Usa e Olanda.

La modernizzazione classica (o liberale) ebbe un punto di forza decisivo nella delegittimazione del precedente principio di autorità che si espresse nella Riforma protestante (che possiamo considerare come una rivoluzione religiosa, avendo messo in discussione il principio dell’autorità papale) e nelle successive rivoluzioni di Olanda, Inghilterra, Nord America e Francia. Tutti i paesi considerati in questo blocco hanno avuto una rivoluzione decisiva per il loro passaggio alla modernità.

Aspetto rilevante della “modernizzazione liberale” è la gradualità del processo partito con le grandi scoperte geografiche, poi la Riforma Protestante e la pace di Westfalia che sancisce l’ordine europeo fra Stati, la rivoluzione olandese, quindi quella inglese e successivamente americana, culminato nella prima rivoluzione industriale e nella rivoluzione francese cui corrispondono le tappe lungo le quali si sono affermati i processi di sviluppo economico, di laicizzazione della società, nella formazione del moderno stato nazionale ecc ecc. Abbiamo, quindi un arco temporale di circa tre secoli.

2- La seconda ondata di modernizzazione: la prima fase.

La seconda ondata presenta caratteri assai diversi. Conviene distinguere fra due fasi: una prima, che va dagli anni sessanta alla prima guerra mondiale (1914-18) ed una seconda che va dalla rivoluzione russa (1917) alla seconda guerra mondiale.

La prima fase prende avvio con i paralleli processi di unificazione nazionale di Italia e Germania (1859-1871), con l’avvio della “modernizzazione dall’alto” imposta in Giappone dall’Imperatore Meiji (1868) e con l’abolizione della servitù della gleba in Russia (1859-63) cui seguì l’incipiente industrializzazione delle principali città dell’Impero.

Se, come abbiamo visto, la modernità classica ha avuto origini rivoluzionarie, questo non è assolutamente vero per la seconda ondata che ha fatto leva proprio sul principio di autorità per l’avvio del processo. Semmai l’origine del processo si rinviene nella guerra: nel caso di Germania ed Italia alla base troviamo le guerre per l’unità nazionale contro l’Impero austro-ungarico che consentono alle rispettive comunità nazionali di conquistare un diverso rapporto di forza nel sistema di Stati vigente.

Nel caso russo, senza la sconfitta della guerra di Crimea non si comprende la decisione dello zar di affrancare i servi (KOCHAN; GINTERMANN) ed in quello giapponese la fine del regime feudale dello shogunato è decisa dalla sconfitta subita nel 1854 da parte della marina statunitense che forzò l’apertura del Giappone ai commerci occidentali, cui fece seguito la guerra di Boshin ((REICHAUER).

A questa evoluzione dettata dai rapporti di forza militari, consegue la conferma del sistema imperiale in Russia, e l’edificazione di un nuovo sistema imperiale in Giappone, entrambi sistemi non democratici e fortemente centralizzati.

Quanto ad Italia e Germania, i nuovi stati adotteranno costituzioni liberali ispirate al modello orleanista (che si allontanava dal regime assolutistico pre rivoluzionario, ma conservando la forma monarchica dello stato, nella sintesi della monarchia parlamentare). Tuttavia, nel caso tedesco, questo si accompagnerà alla forma di governo del cancellierato, che segna una divisione di poteri molto più favorevole all’esecutivo rispetto al parlamento. In Italia, lo Statuto sanciva una monarchia parlamentare, nella quale la prassi affermò il vincolo della fiducia parlamentare per i governi, ma si registrarono spesso decise pulsioni autoritarie che guardavano al modello tedesco, in particolare dal 1881 in poi.

Dunque, in tutti i casi, rileviamo una tendenza verso governi “forti” o autoritari che si accompagnavano “naturalmente” ad una decisa spinta militarista sostenuta anche dalla volontà di rivaleggiare con le potenze precedenti sia per il controllo del potere marittimo (Inghilterra vs Germania; Inghilterra ed Usa vs Giappone), sia per l’espansione coloniale (Italia e Germania  vs Inghilterra e Francia) sia per la conquista dei nuovi mercati di sbocco ed il controllo delle grandi aree continentali (Germania ed Italia vs Inghilterra e Francia; Giappone vs Usa).

In particolare, la seconda rivoluzione industriale, che introduceva l’elettricità ed il motore a scoppio, sostituiva il petrolio al carbone quale fonte energetica e la necessità di assicurarsi le migliori fonti di approvvigionamento, creava una nuova ragione di conflitto.

E la corsa agli armamenti (in particolare marittimi) costituì il volano dello sviluppo economico, soprattutto in Germania e Giappone.

3- Modernizzazione accelerata e sviluppo ineguale e combinato.

Una importante differenza rispetto alla prima ondata è data dalla intensità dei processi che ci fanno parlare di una “modernizzazione accelerata”: il complesso mutamento economico, politico, sociale, scientifico che la modernizzazione classica aveva prodotto in circa tre secoli, venne realizzato (o, almeno, tentato) nei circa 80 anni che vanno dall’inizio alla fine di questa ondata successiva. Il desiderio di competere con le potenze già affermate, spingeva i nuovi arrivati ad accelerare la marcia per raggiungere e superare gli altri: d’altro canto, non c’è alcuna ragione per la quale chi giunga in ritardo alla modernità debba ripercorrere tutte le tappe dello sviluppo tecnologico e non cerchi di appropriarsi subito dei livelli più avanzati.

Come scrive Trozkij il pellerossa non ripercorre tutta la strada che separa l’arco e le frecce dalla balestra, poi all’archibugio, quindi al fucile, ma salta direttamente al fucile nella versione più aggiornata che riesce a reperire. E’ la legge dello sviluppo ineguale e combinato (già ipotizzata da Izrail’ Lazarevič Gel’fand detto “Parvus”) che si contrappose alla teoria evoluzionista fatta propria dalla socialdemocrazia del tempo (riflesso dell’evoluzionismo sociologico), per la quale ogni paese avrebbe dovuto ripercorrere la successione delle diverse tappe e passare dal regime feudale a quello borghese capitalistico per poi passare alla rivoluzione socialista. La teoria di Parvus e Trotzkij nacque nell’ambito di un dibattito politico e risente di questa sua origine, ma, debitamente sgrondata, suggerisce utili considerazioni in sede scientifica.

La “modernizzazione accelerata”, tuttavia, ottiene sicuramente successi nell’immediato, con tassi di crescita superiori a quelli dei paesi più maturi, ma, sul lungo periodo, presenta un conto assai salato. In primo luogo, è ovvio che un determinato tasso di crescita diventa sempre più difficile da mantenere man mano che si va avanti: se c’è una crescita del 10% su una base 100, vuol, dire che il primo anno registra una crescita di 10, che per mantenere il medesimo tasso, diventa 11 nel secondo anno, 12,1 il terzo, 13,3 il quarto, 14,6 il quinto, 16 il sesto. Ovviamente, da  un certo punto in poi, mantenere una progressione simile diventa sempre più difficile e poi impossibile. Ma nel frattempo, tassi di crescita così alti hanno fatto crescere le aspettative in proporzione, per cui l’inevitabile rallentamento produrrà conflitti sociali difficili da mediare. E’ quello che in gergo viene chiamato hardlanding (“atterraggio duro) che sarà tanto più aspro quanto più lunga sarà stata la serie di successi e, pertanto, quante più aspettative essa avrà suscitato.

In secondo luogo, di solito il processi di modernizzazione accelerata sono inizialmente sorretti da una spinta ideologica o di natura rivoluzionaria o di tipo nazionalistico o entrambe le cose: questo spinge le elite dominanti a ritenere la tensione ideale una risorsa sempre disponibile, mentre è inevitabile che essa, con il tempo, vada scemando per ridursi a limiti molto modesti quando esce di scena la prima generazione che ha partecipato al processo di modernizzazione. E questo renderà ancora meno “dolce” l’atterraggio dopo l’epoca dei grandi successi.

In terzo luogo, l’esigenza di crescere a tutti i costi e con i ritmi più rapidi possibili, porta ad una serie di conseguenze:

a-porta a concentrare gli sforzi su alcuni poli di sviluppo (le grandi città, la costa, i centri lungo le vie di trasporto esistenti ecc.) abbandonando le altre aree del paese, quello che, alla lunga, determina fortissimi squilibri territoriali (come, per esempio è accaduto in Italia fra regioni meridionali e regioni settentrionali o in Russia fra i poli delle grandi città e le campagne);

b-porta a privilegiare la dimensione quantitativa su quella qualitativa, per cui la produzione cresce ma spesso a scapito della sua qualità;

c-induce a privilegiare la produzione di merci per migliorare i dati della bilancia commerciale, ma questo indurrà a trascurare gli investimenti per le infrastrutture interne, per cui, ad un certo punto, il sistema dei trasporti risulterà non in grado di supportare il volume di merci e di forza lavoro da movimentare, le strutture educative non in grado di produrre la forza lavoro che sarebbe necessaria all’ulteriore sviluppo, la rete  delle comunicazioni non sarà sufficiente a supportare con la velocità richiesta l’ulteriore sviluppo;

d-porta a privilegiare gli obiettivi di breve e medio periodo rispetto a quelli di lungo periodo, ad esempio spesso si trascureranno, rinviandoli, i necessari accantonamenti per un efficiente sistema pensionistico necessario per quando la prima generazione uscirà dal mercato del lavoro. E questo appesantirà molto il conto nel momento dell’”atterraggio”

e-in particolare, gli investimenti in “Ricerca & Sviluppo” spesso non saranno mirati al lungo periodo, ma massimo al medio, con il risultato che spesso ci si accorgerà dell’invecchiamento del parco macchine e della drammatica incapacità di rinnovarlo tempestivamente per il ritardo tecnologico accumulato.

Tutto questo produrrà diseconomie, ritardi, squilibri che, dopo un certo numero di anni, agiranno da zavorra rallentando fortemente la crescita sino ad arrestarla.

E questo, peraltro deve misurarsi anche con le resistenze ambientali esterne che andranno fatalmente crescendo man mano che il paese in via di modernizzazione scalerà posizioni nel sistema internazionale di Stati.

4- Modernizzazione accelerata e dialettica del sistema di Stati.

Molti autori sostengono che i paesi avanzati rappresentano un elemento propulsore per la modernizzazione di quelli ancora arretrati, fornendo un modello cui ispirarsi ed, occasionali aiuti economici. Questo è vero in una certa misura, ma trascura il dato più importante: le potenze egemoni costituiscono anche la maggiore resistenza ambientale allo sviluppo degli emergenti, oltre un certo livello.

Sino ad un certo punto, gli interessi dei paesi più avanzati coincidono con quelli che si avviano verso la modernità: tanto per fare un esempio, i francesi aiutarono in modo determinante la nascita del nuovo stato unitario italiano, per avere un alleato contro l’Austria. Anche l’Inghilterra aiutò l’Italia sia per ragioni politiche (la balance of power in Europa), sia perché questo avrebbe liberalizzato i commerci con le regioni meridionali dove trovava un ostacolo nel retrogrado regno borbonico. Ma entrambi non gradirono più di tanto le aspirazioni di potenza del nuovo Stato (Tunisia 1881, Etiopia 1896, Libia 1911; rivalità marittima nel Mediterraneo ecc.) e neppure le rivalità commerciali che sorsero dal 1880 circa. E furono proprio questi elementi a spingere l’Italia verso l’altro paese “emergente”, la Germania, nell’infelice triplice alleanza.

In una certa misura, le potenze egemoni auspicano lo sviluppo di altri paesi perché vedono in essi possibili mercati di sbocco e potenze subalterne da attirare nella propria orbita nel gioco per affermare/riaffermare la propria egemonia mondiale. E’ esattamente l’atteggiamento degli Usa nei confronti dei paesi latino americani, sostenuti nella spinta all’indipendenza dal colonialismo iberico (dottrina Monroe) ma poi mantenuti in un regime di economia dipendente, e verso i quali non sono stati risparmiati interventi repressivi in presenza di sgraditi processi rivoluzionari (Messico 1916; Guatemala 1954, Cile 1973 ecc.). E, dunque, il processo di sviluppo della modernità non può essere separato dalla lotta per l’egemonia, aspetto normalmente trascurato dagli studi sociologici.

5- La seconda ondata di modernizzazione, seconda fase.

La prima guerra mondiale spezzò l’Impero austro-ungarico (facendo nascere un nuovo stato altamente industrializzato come la Cecoslovacchia), segnò la sconfitta della scalata tedesca al potere mondiale ed, insieme, il collasso dell’Impero russo che, dopo quella da Giappone, subiva una nuova sconfitta dalla Germania e, subito dopo, una rivoluzione. Ma ridimensionò anche le aspirazioni di ingrandimento italiane con la Pace di Versailles: con la sola eccezione del Giappone, che fu fra i vincitori, tutti i “paesi emergenti” della seconda ondata uscirono sconfitti dalla prova bellica. Parallelamente, si rafforzò l’asse egemonico anglo-franco-statunitense.

Ma l’urto della modernità sui paesi della seconda ondata non si esaurì e produsse due distinti progetti di modernizzazione autoritaria: quello nazionalista, militare e fascista (Italia, Germania, Giappone) e quello socialista  (Russia, poi Urss).

Alcuni autori parlano di “modernizzazione parziale” (MARTINELLI), altri di “falsa modernità” (STOMPKA), o “imperfetta”, a proposito della Germania nazista o dell’Urss staliniana, rilevando come, ad un progetto di sviluppo economico e tecnologico (essenzialmente finalizzato allo sforzo militare) corrispondesse la negazione dello Stato di diritto, della democrazia, delle libertà civili ecc. E potremmo aggiungere, nel caso nazista, anche il revival irrazionalista del pensiero magico e le grottesche parate ispirare alla mitologia nibelungica. Ma non ci sembra che si possa parlare di modernizzazione parziale o incompiuta (definizione che troviamo più adatta ai paesi latino-americani, ai paesi iberici, a quelli dell’area danubiano-carpatica o, per certi versi, al mondo islamico) quanto, piuttosto, di “modelli alternativi di modernità”.

Usiamo l’espressione in modo totalmente avalutativo, non volendo assolutamente sostenere l’auspicabilità di tali alternative rispetto al modello classico (ce ne guardiamo bene!). Pertanto, ci sembrano più calzanti definizioni come, ad esempio, quella di “modernismo reazionario” (HERF).

Il progetto di modernità nazionalista mantiene una continuità con quello liberale-classico sia per l’industrialismo che per la struttura capitalistica dell’economia, ma se ne discosta per diversi punti quali:

a-il forte dirigismo statale in economia;

b-la sostituzione del pensiero magico o religioso con forme diverse di irrazionalismo ispirato a una tradizione mitologica;

c-la negazione dei valori di individualismo ed utilitarismo, sostituiti da una visione organica della società e dello Stato (espressione politica della nazione intesa soprattutto come vincolo di sangue e non certo come “patto repubblicano”) che azzera l’autonomia individuale;

d-la conseguente negazione delle libertà civili;

e-la negazione dello Stato di diritto e della separazione dei poteri;

f-l’abolizione della forma del governo rappresentativo, attraverso il sistema politico a partito unico e monolitico basato sul principio gerarchico ed antidemocratico; l’affermazione del potere totalizzante dello Stato che prevale anche sulla razionalità economica;

g-la negazione del valore di eguaglianza anche dal punto di vista formale.

Altri aspetti (come l’urbanizzazione, l’istruzione di massa, la promozione sociale per merito, la distinzione funzionale dei ruoli sociali ecc.) richiederebbero un’analisi molto più articolata e distinta per ciascuno dei tre casi considerati, che occuperebbe troppo spazio e non è necessaria in questa breve sintesi, per cui rimandiamo ad altra occasione.

Nel complesso, quindi, un progetto di modernizzazione autoritaria che mantiene, però i due tratti fondamentali di industrialismo e capitalismo propri del modello classico. Vice versa, il modello sovietico (o comunista), pur mantenendo -ed anzi esaltando- l’orientamento industrialista, si fonda sulla negazione dell’organizzazione capitalistica dell’economia. Per il resto, esso ha molti punti di somiglianza con il precedente modello (negazione dell’individualismo, delle conseguenti libertà civili, dello Stato di diritto e della separazione dei poteri, partito unico monolitico).

Tuttavia, il punto richiede una precisazione: mentre nel caso del modello nazionalista-fascista c’è una sostanziale identità fra i presupposti teorici della “rivoluzione conservatrice”, di cui fu naturale proiezione politica (NOLTE, VENEZIANI, AZZARA’, HERF), nel caso sovietico si osserva una evidente rottura sia nei confronti dell’originario disegno marxiano che di quello leniniano.

Marx non ha mai auspicato un regime autoritario a partito unico o l’abolizione delle libertà civili, ispirandosi piuttosto alla Comune di Parigi. Anche l’espressione “dittatura del proletariato” -che spesso gli viene rimproverata  e che, comunque, Marx usa solo 13 volte in tutta la sua opera- non ha il significato attuale che gli attribuiamo dopo le esperienze dei regimi totalitari, ma va intesa come “potere di una classe sociale” attraverso il controllo dei mezzi di produzione. Ed è anche significativo che Marx non abbia mai ipotizzato una economia basata sul possesso statale dei mezzi di produzione, preferendo sempre parlare di “autogoverno dei produttori”.

In Lenin il progetto subiva una torsione più autoritaria attraverso la sostanziale esautorazione dei soviet operai, la statizzazione delle industrie, la messa fuori legge degli altri partiti e la proibizione delle correnti interne al partito. Ma va detto che il leader della rivoluzione russa pensava a tali misure come transitorie, sul modello classico della “dittatura commissaria” (SCHMITT) che, superata l’emergenza, avrebbe dovuto lasciare il passo ad un regime di “democrazia proletaria” che, per quanto discutibile, non aveva nulla in comune con il regime poliziesco poi realizzato. Si può sostenere che si trattò di scelte infelici e che esse, di fatto, abbiano spianato la strada al modello stabilmente totalitario che trovò in Stalin il suo realizzatore, ma si trattò comunque di un progetto assi distante dalle sue realizzazioni.

6- La sconfitta dei Modelli di modernizzazione autoritaria.

Qualche riflessione merita il diverso esito dei due modelli alternativi. Quello fascista nazionalista finì travolto dalla guerra che, sintomaticamente, alleava i tre paesi portatori di quel modello contro le potenze liberali alleate all’Urss. La sconfitta debellò sia il modello, in quanto tale, che le velleità di potenza politico-militare dei tre paesi che si adattarono ad una posizione subalterna alle potenze liberali nel quadro del nuovo scontro che opponeva esse al modello alternativo sovietico.

Italia, Germania e Giappone passarono al modello liberale classico accettandone l’organizzazione costituzionale. Particolarmente rilevante fu il caso del Giappone, la cui nuova costituzione venne letteralmente imposta dagli Usa, anche se a prezzo di notevoli forzature  ed adattamenti dalle due parti, che comportò un inedito processo di “democratizzazione guidata” (BERKOFSKY in RUGGE). A causa della sconfitta militare, il progetto fascista non superò la fase della prima generazione e, pertanto dell’esaurirsi della fase della modernizzazione accelerata problema che, invece, si presenta per l’altro modello, quello comunista staliniano.

L’Urss, determinante per la vittoria sulle armate hitleriane, uscì rafforzata dalla guerra e, pertanto, il suo modello di “modernizzazione autoritaria socialista” sopravvisse alla guerra, anzi conobbe una stagione di grande fortuna soprattutto presso i paesi di Africa, Asia ed America Latina che iniziavano a porsi il problema del loro sviluppo economico. In Cina, Vietnam, Corea e Cuba vinsero rivoluzioni guidate dai rispettivi partiti comunisti all’insegna del progetto di un sistema socialista identico a quello sovietico, che si era già affermato nei paesi dell’Europa Orientale occupati dall’Armata Rossa a seguito della sconfitta tedesca. Ma anche altri paesi guardarono al modello russo di economia pianificata e di sistema politico ipercentralizzato e dittatoriale: l’Egitto di Nasser, la Siria e l’Iraq delle rivoluzioni Baas, l’Algeria di Ben Bella e poi di Boumedienne, la Libia di Gheddafi, l’Angola di Agostinho Neto, il Mozambico di Moldlane, il Sudan di Nimeiri, l’Etiopia di Menghistu, la Somalia di Siad Barre, il Congo Brazzaville guardarono al modello sovietico pur se con varianti significative. In qualche modo furono influenzati da esso anche l’India di Nehru, l’Indonesia di Soekarno, il Ghana di N’Kruma.

In diversi casi si trattò si “innamoramenti” momentanei, talvolta finiti assai tragicamente (Indonesia 1966, Sudan 1971) tuttavia, elementi di quel modello, variamente miscelati con le tradizioni locali, sono sopravvissuti alla stessa caduta dell’Urss e costituiscono un aspetto dell’attuale globalizzazione spesso poco studiato, ma che meriterebbe ben altra attenzione.

E questo riguarda la stessa Russia, che è passata al modello “capitalistico”, ma con forti eredità del modello precedente (ne riparleremo più avanti a proposito del capitalismo di Stato). In questo diverso esito dei due modelli autoritari pesano le diverse ragioni e modalità della loro sconfitta. A differenza dei paesi fascisti, l’Urss non ha subito una confitta militare frontale e, tantomeno, un’occupazione, quanto, piuttosto un collasso economico, che ha costretto a prendere atto della definitiva sconfitta anche nella gara militare con gli Usa. E non c’è stata neppure una rivoluzione interna. E’ stata la stessa classe dirigente russa (gran parte della burocrazia politica, militare e poliziesca, i manager di Stato ecc.) a determinare la svolta sciogliendo l’Urss (dopo il golpe-farsa dell’agosto 1991) e sostituendo la costituzione del 1977. Dunque, una sorta di “auto-rivoluzione” (o, se si preferisce, una operazione trasformistica) che ha mantenuto in gran parte il vecchio assetto di potere.

Concludendo sul punto, osserviamo come i modelli di modernizzazione alternativa non hanno avuto successo, né nella versione fascista-nazionalista né in quella socialista-staliniana, anche se hanno avuto esiti differenziati. In secondo luogo, osserviamo come, in nessuno dei quattro casi considerati si sia verificato un processo simile a quello della prima ondata: né per le cause, né per le caratteristiche intrinseche, né per la successione dei diversi aspetti, né, ovviamente per gli esiti.

7- La lunga transizione dalla seconda alla terza ondata.

Con la fine della II guerra mondiale si apriva uno scenario dominato dalla competizione fra gli Usa (che aveva rimpiazzato la Gran Bretagna alla testa delle nazioni occidentali portatrici del modello classico di modernizzazione) e l’Urss (come si è detto, portatrice del modello alternativo “autoritario socialista”). Tale scenario fu caratterizzato dall’ingresso, nel sistema internazionale degli stati delle ex colonie europee che raggiunsero via via l’indipendenza dal 1945 in poi: fra il 1947 Filippine 1946, Vietnam e Corea 1946, India e Pakistan 1947, Indonesia 1949, Libia 1949, Ghana 1957, Nigeria, Somalia, Senegal, Congo Brazaville, Congo belga, Camerun 1960, Algeria 1962, Tanganica 1961, Kenya 1963,  ed Angola, Mozambico e Guinea 1975.

Questi paesi afro asiatici (cui occorre aggiungere la Cina, mai stata colonia, ma occupata in buona parte dai giapponesi fra il 1937 ed il 1945 ed altri paesi indipendenti sin da prima della guerra come Thailandia, Egitto, Sudan, Iran, Iraq,  Arabia Saudita, Etiopia ecc.) rappresentavano la netta maggioranza della popolazione mondiale e versavano in condizioni di gravissima arretratezza economica. Diverso era il caso dell’America Latina i cui stati avevano conquistato l’indipendenza sin dall’ottocento, dopo la rivoluzione bolivariana: essi non versavano nelle condizioni di estrema povertà dei paesi afro-asiatici (anche se in alcune zone interne del Brasile o nel Paraguay la situazione non era molto migliore), ma avevano già raggiunto alcuni livelli di modernità attraverso una incipiente industrializzazione, un accentuata urbanizzazione delle coste, sostanziale abolizione dell’analfabetismo, presenza di una rete infrastrutturale e di un sistema di trasporti sostanzialmente funzionale, forme di democrazia e di stato di diritto in diversi paesi ecc.

In questo contesto di particolare rilievo appare l’esperimento peronista in Argentina che si proponeva come modello alternativo di modernizzazione in cui erano miscelati elementi del modello autoritario fascista con forme (peraltro assai fragili) di democrazia liberale ed aspetti di politica sociale di tipo welfarista.

Volendo schematizzare, la situazione presentava tre diversi tipi di scenario:

America Latina: modernizzazione avviata ma rallentata dai forti ostacoli alla crescita economica;

Asia: modernizzazione incipiente in taluni paesi con apparati statali minimamente centralizzati e con una burocrazia diffusa sul territorio e concentrazioni urbane di ampie dimensioni (India, Iran, Pakistan, Indonesia, Vietnam, Cina), ma con economie in netta prevalenza rurali, spesso con reti di comunicazioni fragili e limitate a porzioni minoritarie del territorio e vastissime zone di povertà e non raggiunte da alcun processo di modernizzazione;

Africa: gli eserciti unica eredità “modernizzante” lasciata dalle potenze coloniali e, per il resto, frammentari elementi di modernizzazione in pochissime zone dei singoli paesi; persistenza di aggregati etnico-tribali che producevano sorta di “Stati-nazione senza nazione” retti (con pochissime eccezioni) da giunte militari; fortissima arretratezza economica con ampie zone di economia primitiva, condizioni di vita al di sotto della soglia minima di povertà, quasi totale assenza di reti infrastrutturali.

Un caso a sé stante è rappresentato dal mondo arabo che ha potuto giovarsi della rendita petrolifera ed al quale occorre dedicare una riflessione ad hoc e del quale, ci occuperemo in altra occasione.

Nel quadro della guerra fredda, che prevedeva il reciproco containment  nell’emisfero settentrionale del mondo, la conquista di questi paesi era la posta principale della sfida russo-americana per sbilanciare i rapporti di forza a proprio vantaggio. Non è privo di significato che le uniche guerre guerreggiate fra i due blocchi si siano condotte, in quel periodo in paesi quali Vietnam, Afghanistan o Corea. Ma la conquista di questi paesi alla propria zona di influenza passava per il ruolo che ciascuna delle due superpotenze avrebbe avuto nell’avvio del loro processo di sviluppo socio-economico.

Al modello di sviluppo sovietico abbiamo accennato e non vi torniamo. Più significativa ai nostri fini è qualche osservazione sul progetto occidentale che si è largamente nutrito delle teorie sociologiche sulla modernizzazione particolarmente di fonte americana. La teoria dominante fu quella struttural-funzionalista che Talcott Parsons aveva iniziato ad elaborare sin dalla fine degli anni trenta. Non mancarono altri paradigmi interpretativi come quello di Inkeles e Smith, di Hoseliz, Almond, Levy, Eisentstadt o le opere di sociologia storica di Barrington Moore, Rokkan, Bendix, Sckocpol, Gurr, Landes ecc (rinviamo a MARTINELLI) ma fu la scuola parsonsiana quella che ebbe la maggiore influenza e che, in buona parte, orientò l’azione dei grandi organismi internazionali come la Banca Mondiale o il Fmi. E, in buona parte, è la teoria che ancora oggi è alla base della visione più diffusa (anche a livelli meramente divulgativi) del processo di modernizzazione,  che coincide, sostanzialmente con il disegno di espansione mondiale del modello occidentale. E, in effetti, la maggior parte delle critiche verso questo paradigma, si appuntano sul suo etnocentrismo.

Lo schema parsonsiano, sostanzialemente, sfocia in una prospettiva neo evoluzionistica tutta interna alla tradizione storicistica unilineare più ortodossa. Un orizzonte teorico che era già in affanno negli anni trenta e che risulta di arduo impiego per decifrare le tendenze del mondo contemporaneo.

D’altro canto, non sono queste le sole e più importanti critiche che possono essergli rivolte. In realtà l’opera di Parsons –che certamente ha il respiro di un classico delle scienze sociali- è fortemente condizionata dal trasparente fine politico di fornire un insieme di precetti funzionali a processi di modernizzazione sotto la guida occidentale in genere ed americana in particolare. Nessuna teoria sociale è mai del tutto indenne dalle finalità politiche del proprio autore e le due cose spesso non sono del tutto distinguibili l’una dall’altra, ma ci sono soglie oltre le quali le intenzioni politiche prevalgono troppo sulle ragioni dell’analisi, finendo per esporre il paradigma alla dura smentita dei processi storici reali. Ed è quello che, con la globalizzazione, sta accadendo all’edificio teorico parsonsiano come di altri di diversi autori meno celebri.

8- Le origini del progetto di modernizzazione neo liberista e la globalizzazione.

Non c’è accordo fra gli studiosi sull’inizio del processo di globalizzazione e, di conseguenza, sullo stesso concetto indicato dal termine: alcuni risalgono al Cinquecento con la scoperta dell’America (OSTERHAMMEL – PETERSON 2005) facendo così coincidere tutta l’epoca moderna con la globalizzazione; altri al periodo precedente alla prima guerra mondiale (ROGARI 2007) o alla conquista inglese dell’India (come sostiene ELLWOOD 2003 forse influenzato dall’affermazione di Marx che, troppo ottimisticamente, ritenne che essa segnasse l’”unificazione mondiale del mercato”); più limitatamente, SOROS  (1999) data il sorgere della globalizzazione agli anni settanta. In realtà, l’attuale processo di globalizzazione –pur avendo elementi di continuità con il processo di formazione del mercato mondiale e del sistema di relazioni internazionali (MARTELL 2010) ha caratteristiche proprie, incomparabili con il passato, che ne fanno un’epoca storica a sé stante che riteniamo coincida con la terza ondata del processo di modernizzazione.

L’estensione del termine (peraltro recentissimo), tendente ad assorbire nella globalizzazione tutta la modernità o gran parte di essa,  è una operazione ideologica finalizzata ad espungere o ridurre a mero incidente di percorso qualsiasi alternativa allo sviluppo capitalistico. In ogni caso, si tratta di un’operazione che non ha alcun fondamento scientifico.

E’ opportuno invece segnalare le premesse del fenomeno che vanno dagli anni settanta sino agli inizi dei novanta e che possiamo indicare in questa succintissima cronologia:

-15 agosto 1971: denuncia degli accordi di Bretton Woods da parte degli Usa e dichiarazione di “non convertibilità” del dollaro in oro

-ottobre 1973: quarta guerra israelo-araba (detta del Kippur) a seguito della quale i paesi arabi dichiareranno l’embargo petrolifero contro i paesi occidentali che appoggiano Israele. Conseguente crisi petrolifera e fortissimo balzo in avanti del prezzo del barile di petrolio.

-primavera 1974: con l’afflusso degli ingentissimi capitali arabi provenienti dalla rendita petrolifera, sorgono i primi vasti mercati finanziari off shore
Estate 1974: breve guerra greco turca per Cipro, al termine della quale cade il regime dei colonnelli e la Grecia torna gradualmente alla democrazia

-novembre 1974: morte di Francisco Bahamonde Franco e graduale ritorno della democrazia in Spagna

-aprile 1975: caduta del regime fascista portoghese a seguito di un colpo di Stato incruento del Movimento delle Forze Armate. Fine dei regimi fascisti europei.

-1976: Morte di Mao Zedong cui seguirà il breve interregno di Hua Guofeng

-gennaio 1979: rivoluzione in Iran, si afferma il regime fondamentalista sciita; seconda crisi petrolifera

-dicembre 1979: guerra Iran-Iraq; i sovietici invadono l’Afghanistan

-novembre 1980: elezione del repubblicano Ronald Reagan alla Presidenza degli Usa

-ottobre 1980: Hua Guofeng viene sostituito da Zhao Ziyang, esponente dell’ala riformatrice del Pcc, sostenuto da Deng Xiaoping che diverrà ben presto il vero leader del paese e che lancerà il progetto delle “quattro modernizzazioni”,

-aprile 1982: guerra anglo-argentina per le Fakland, a seguito della quale cade il regime militare di destra di Bueno Aires; in ottobre cade l’analogo regime boliviano. Via via cadono anche le giunte militari brasiliana, paraguayana, cilena

-primi anni ottanta: seconda guerra fredda causata dallo scontro sulla questione degli euromissili e successivo varo del progetto Usa dello “scudo stellare” che segnerà il definitivo prevalere americano nella gara degli armamenti con l’Urss

-febbraio 1984: con la morte di Costantin Cernenko, sale al vertice sovietico Mihail Gorbaciov che tenterà vanamente di riformare il sistema

-1987: atto unico europeo che costituisce la premessa per il successivo trattato di Maastricht

-primavera 1989, l’economista americano John Williamson pubblica un articolo nel quale elenca del 10 condizioni irrinunciabili cui i paesi in via di sviluppo devono adeguarsi per ricevere gli aiuti del Fmi, della Banca Mondiale ecc. Nasce così la dottrina del Washington Consensus che costituisce il “manifesto economico” del progetto neo liberista

-9 novembre 1989: cade il governo della Rdt e si pongono le premesse per la riunificazione tedesca, “crollo del muro di Berlino”; rapidamente cadono anche i regimi comunisti di Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, Bulgaria, Romania; in Jugoslavia la fine del regime si accompagna ad una feroce serie di guerre  fra le diverse repubbliche che diventano indipendenti e la Serbia

-agosto 1990: l’Iraq invade il Kwait e successiva prima guerra del golfo

-21 agosto 1991: a Mosca tentativo di colpo di stato dell’ala “dura” del Pcus che si oppone al corso riformista perseguito da Gorbaciov. Il golpe fallisce, ma il regime si dissolve con lo scioglimento del Pcus e della stessa Urss, mentre le diverse repubbliche diventano indipendenti

-primavera 1992: Trattato di Maastricht cui seguirà, dieci anni dopo, la sostituzione delle monete nazionali europee con l’Euro

-aprile 1992: lo studioso nippo-americano Francis Fukuyama pubblica “The End of History and the last man” che costituisce uno dei due manifesti teorici del progetto neo liberista.

-Fine 1993: il politologo Samuel Huntington pubblica su Foreign Affairs “The Clash of Civilizations?” un saggio polemico nei confronti del libro di Francis Fukuyama che ipotizza un diverso progetto di globalizzazione. Qualche tempo dopo il saggio diventerà un libro di successo pari a quello del suo antagonista.

-15 aprile 1994: Trattato di Marrakech.

Pertanto, ci sembra più corretto distinguere fra la premessa e l’epoca della globalizzazione pienamente dispiegata, la prima compresa grosso modo fra il 1970 ed il 1993 e la seconda che possiamo convenzionalmente far partire del trattato di Marrakech.

9- Il progetto di modernizzazione neo liberista.

La caduta degli ultimi regimi fascisti europei e delle dittature militari latino americane prima e la fine dell’Urss e dei regimi satelliti subito dopo, venne letta come la fine di ogni possibile alternativa al modello liberale di modernità.

Come abbiamo già accennato, il progetto neo liberista ebbe il suo manifesto economico nel saggio sul Washington Consensus, ma ebbe anche altri due manifesti, uno a carattere ideologico (e diremmo utopico) nell’opera di Francis Fukuyama, un politologo americano di origini nipponiche, legato (come Luttwak) alla destra neo cons, e l’altro, più politico nel saggio di Samuel Huntington, parimenti appartenente alla destra neo cons.

Fukuyama, nel 1992, pubblicò “The end of History and the Last Man” che, sulla base della reinterpretazione della filosofia storicista hegeliana, sosteneva una nuova concezione della “storia universale”, il cui punto d’arrivo sarebbe stato il sistema libera-capitalistico. Battuto ogni altro progetto di modernità, quello liberale capitalistico restava l’unico credibile e non  superabile, per cui occorreva espanderlo in tutto il mondo, per cui modernizzazione sarebbe significato semplicemente “occidentalizzazione”. Fukuyama sosteneva che il progresso scientifico-tecnologico dimostra l’esistenza di una storia progressiva e direzionale verso una meta che egli riteneva essere il modello sociale liberal capitalistico, sostanzialmente, nella versione esistente negli Stati Uniti.

Per questa ragione, all’Occidente spettava il compito di esportare non solo il proprio modello economico ma anche quello politico e “Esportare la democrazia” sarà il suo libro successivo datato 1994.

Samuel Huntington, fu esplicitamente critico verso la teoria della “fine della storia”. Erano passai appena cinque anni dalla fine dell’Urss, quando Huntington pubblicò “The clash of Civilizations and the Remaking of World Order” nel quale parte dalla considerazione che “l’identità culturale è il valore primario” e che nel mondo post comunista le principali distinzioni fra i vari popoli non sono di carattere ideologico, politico o economico, bensì culturali e, pertanto, le questioni di identità assumono priorità rispetto a quelle di interesse.

Pertanto descrive queste tendenze di scenario:

a- modernizzazione non significa  affatto occidentalizzazione

b- gli equilibri di potenza fra le varie civiltà stanno mutando

c- sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà

d- la pretesa occidentale di rappresentare valori universali si scontra da un lato con l’ Islam, dall’altro con la Cina

e- la supremazia occidentale dipende dalla volontà degli Usa di confermare la propria identità occidentale e dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unire le proprie forze per rinnovarla e proteggerla dalle sfide provenienti dalle società non occidentali.

Huntington identifica queste civiltà principali: Occidentale, Slavo-ortodossa, Latino americana, Islamica, Nera, Indù, Buddista, Sinica e Giapponese. In questo quadro esistono sei grandi potenze (Usa, Ue, Russia, Cina, India, Giappone) che segnano i rapporti di forza fra le diverse civiltà: quella occidentale prevale contenendo due grandi potenze e fra esse la maggiore, mentre le altre hanno una sola grande potenza. Altre tre civiltà (islamica, latino americana e africana) non esprimono alcuna grande potenza. Il primato occidentale resterà ancora a lungo ma calerà il suo peso relativo alle altre civiltà.

Questa analisi suggerisce ad Huntigton l’idea di un nuovo ordine mondiale, basato sui sistemi di civiltà rappresentati dalla rispettiva grande potenza di riferimento, ma con gli Stati Uniti come unica super potenza mondiale al vertice non solo del modello di civiltà occidentale ma del sistema mondiale così concepito. E qui si pone una domanda: il modello del conflitto di civiltà è una analisi scientifica o un programma politico?

Lo scienziato sociale studia processi oggettivi indipendenti dalla sua volontà, forse ancora in atto ed aperti a più esiti, ma gli sviluppi  restano pur sempre indipendenti dalla sua volontà. Può anche darsi che, alla fine della propria trattazione, egli suggerisca un determinato comportamento politico, ma si tratta di operazioni concettuali da tenere nettamente separate, soprattutto quando lo scienziato sociale sia anche un “consigliere del Principe” in grado di determinare comportamenti positivi che turbano l’oggetto osservato.

Senza questa distinzione fra tendenze oggettive ed interventi soggettivi non si dà analisi scientifica. Pertanto, quello di Huntington non è un testo scientifico ma un manifesto politico: non prende atto di una tendenza ma ne auspica l’affermazione al fine di preservare l’egemonia mondiale americana;

Dunque, un progetto imperiale parzialmente diverso da quello di Fukuyama, meno incline a considerare definitivo l’equilibrio monopolare scaturito dalla fine dell’Urss, ma pur sempre un progetto imperiale impegnato ad assicurare la prevalenza americana anche nel futuro ordine mondiale.

Se Fukuyama ha rappresentato l’aspetto utopico ed eretico della corrente neo cons, Huntington ne rappresenta l’indirizzo realistico e “ortodosso”. Ma entrami si sono ritrovati nel medesimo “club neocon” autore del progetto “per un nuovo secolo americano” (Irving Kristol, Daniel Bell, Seymour Martin Lipset, Nathan Glazer) dichiaratamente orientato a consolidare il ruolo di potenza unica globale degli Usa. E ciò nella previsione di non avere alcuno sfidante credibile, tanto sul piano finanziario, quanto, ancor più, su quello militare, almeno sino al 2025. E questo è il cotè politico del progetto di modernizzazione neo liberista.

10- La terza ondata di modernizzazione e la globalizzazione.

La terza ondata di modernizzazione, in base a quel che abbiamo detto,  è in corso da circa venti anni, un tempo troppo limitato per esprimere un giudizio storico, trattandosi di qualcosa ancora in svolgimento, ma un tempo sufficiente per formulare alcune ipotesi iniziali sulle tendenze che si profilano.

In primo luogo, è opportuno individuare le principali caratteristiche proprie di questo processo che individuiamo in questi quattro elementi:

a- forte sviluppo dei mezzi di comunicazione (tv, telefonia, internet ecc.), grazie alla crescita dei sistemi satellitari e dell’interconnessione delle reti via cavo, che determina una velocità senza precedenti delle comunicazioni

b- forte crescita del sistema di trasporti, in particolare aerei e marittimi, che alimenta tanto gli spostamenti migrativi che turistici, quanto quello di merci per grandi distanze

c- creazione di mercati mondiali (delle merci, della forza lavoro e soprattutto finanziari) fortemente integrati ed interdipendenti, con conseguente rapida diffusione delle ondate di panico o di euforia nei diversi mercati nazionali

d- sviluppo dell’informatica che consente l’intercettazione, lo stoccaggio e l’analisi di grandi masse di dati (Big Data) anche grazie allo sviluppo dei programmi di Trattamento Automatico della Lingua (Tal).

Per altri versi, la globalizzazione segna, invece, tendenze opposte del  del sistema mondiale: ad esempio, dal punto di vista diplomatico, ideologico o politico,  la fine dell’ordine bipolare è sfociato un una frammentazione dell’ordine mondiale assai meno integrato del passato (COLOMBO 2010).

Un secondo ordine di problemi è quello relativo alle “molle” che hanno spinto i paesi asiatici e latino-americani lungo la strada della modernità. In primo luogo, alla vittoria culturale e politica della destra neo liberista in Europa ed Usa, si è accompagnata la formazione di accumuli finanziari senza precedenti. Questo è stato dovuto a cause diverse alcune delle quali note, come l’adozione di nuove tecniche finanziarie (basate su applicazioni matematiche risalenti alla metà degli anni novanta) come le cartolarizzazioni, oppure a pratiche di gestione di impresa come la shareholder value, o anche al crescente divario retributivo che ha assegnato al management  compensi senza alcun precedente ancor più accresciuti dalla pratica delle stock options o, infine, alle particolari scelte fiscali che, a partire dagli anni ottanta, hanno prodotto una pressione decrescente sui redditi più alti.

Meno osservata è un’altra componente di notevole rilievo: la formazione di ingenti masse di capitale di provenienza criminale (NAPOLEONI). Traffico di droga, di armi, di scorie radioattive, controllo di forti correnti di prostituzione, pirateria marittima, falsificazione di denaro e di obbligazioni finanziarie ecc. muovono, ormai, miliardi di dollari, Ad essi occorre sommare i proventi della corruzione politica, amministrativa sia pubblica che privata che investe in misura senza precedenti tanto i paesi occidentali, quanto, ed ancor più, paesi emergenti come India, Cina o riemergenti come la Russia. In totale di stima che i movimenti di questo genere di capitali ammontino a circa il 12% del Gwp  (prodotto lordo mondiale). Una percentuale di tutto rispetto, che non ha precedenti storici (neppure per i corsari della prima ondata della modernizzazione) e che implica la presenza di soggetti di origine criminale (mafie, finanza “grigia” di riciclaggio, narcorepubbliche, ecc.) che hanno le dimensioni di attori primari del mercato finanziario mondiale. Ad esempio, non sono del tutto estranee al successo economico cinese tanto le attività delle Triadi, quanto quelle della pirateria nel mar Giallo, per non dire della contraffazione dei più diversi prodotti di marca.

A queste condizioni di natura economico finanziaria si sono accompagnati i ben noti fenomeni di crisi dei paesi del blocco socialista e degli ultimi regimi fascisti o castrensi su cui non torniamo, mentre segnaliamo le cause politiche del commercio internazionale (BARONCELLI) con le loro ricadute sia sociali che culturali ed in particolare giuridiche. Infatti le evoluzioni della cultura giuridica hanno favorito ed accompagnato i processi di globalizzazione, costruendo un sistema organizzato di relazioni giudiziarie sovranazionali che ha prodotto le teorie della nuova lex mercatoria (TAUBNER, GALGANO).

Dopo questa sommaria esposizione di alcune delle cause di questa terza ondata della modernizzazione, è opportuno un brevissimo esame (solo alcuni esempi) sui suoi risultati e sulla rispondenza fra essi e l’originario progetto liberista.
Uno dei punti chiave del progetto neo liberista era l’idea che la totale liberalizzazione dei mercati avrebbe prodotto una sostanziale convergenza delle economie nazionali, in un mercato unico pensato come uno “spazio liscio” privo di ogni asimmetria.

Il concreto sviluppo dei processi reali segnala, invece, il sorgere di sempre nuove asimmetrie in sostituzione delle precedenti. Ad esempio, sotto la patina del trionfo del capitalismo privato, massima realizzazione dell’”individualismo proprietario”, emerge una realtà ben diversa, per la quale crescono in modo sorprendente diverse forme di Capitalismo di Stato, (come già notava nell’ottobre 2010 “The Economist”): in Cina le imprese di Stato sono ancora la parte prevalente del sistema economico e, se, proprio in questi giorni, si parla di una loro rapida privatizzazione, va detto che si profilano accentuate resistenze da parte del relativo management sostenuto dalle forze armate; d’altro canto, la particolare politica monetaria del paese (che applica tassi di signoraggio oltre il 15% nella conversione dei dollari in renminbi) è tale da assicurare al governo un elemento di direzione della vita economica che non ha riscontro in altre situazioni
in Russia l’imprenditore di gran lunga maggiore del paese è Gazprom che è una “public company” di fatto dipendente dal governo che, peraltro, non esita a servirsi di altri strumenti di pressione per ridurre all’obbedienza imprenditori (in particolare petrolieri) che non si adeguino prontamente alle direttive sia politiche che economiche dell’autocrazia del Cremlino.

Lo sfruttamento delle materie prime alimenta il fenomeno dei Fondi sovrani in molti paesi come Arabia Saudita, Quatar, Kwait, Eau, Norvegia, Brasile, Sud Africa, oltre che Russia e Cina.

Per quanto riguarda poi la convergenza economica occorre osservare che, se effettivamente alcuni paesi come i Bric (Brasile, Russia, India Cina) cui si è sommato il Sud Africa ed ora Turchia, Corea del Sud, Indonesia, Messico e –sino alle recenti rivolte- Egitto, stanno scalando la classifica mondiale del Pil (la Cina è già da qualche anno la seconda)  è, però vero che altri paesi, in particolare quelli dell’Africa Sub Sahariana sono restati estranei a questo processo ed hanno, anzi, peggiorato la loro posizione anche grazie al fenomeno tutt’altro positivo del landgrabbing. Così come si deve constatare che molti paesi europei (fra cui l’Italia) hanno subito processi di intensa deindustrializzazione che ne hanno seccamente indebolito la struttura economica. Il sopraggiungere della crisi finanziaria nel 2008, peraltro, ha sprofondato nel baratro, al limite del default, paesi come la Grecia o il Pakistan e determinato situazioni molto pesanti in Portogallo, Spagna, Italia, Irlanda.

Dunque, se una certa convergenza c’è stata, siamo ben lontani da quel mercato in equilibrio di cui il progetto favoleggiava. Ma La principale asimmetria che si è prodotta in questi anni è quella relativa ai mercati monetari in cui si intrecciano valute lasciate volutamente libere di fluttuare sui mercati a monete legate al cambio fisso, monete nazionali e monete di gruppi di stati come l’Euro (mentre si parla del Gulfo per i paesi del Golfo persico e di altra moneta comune ad alcuni paesi sudamericani) ecc.

Di rilevante, è emerso il rovesciamento dei rapporti di credito-debito fra paesi emergenti e paesi europei e nord americani. Agli inizi degli anni novanta, paesi come il Brasile, l’Argentina, la Nigeria, l’India, l’Indonesia, la Russia ecc. erano oppressi da un gigantesco debito pubblico che assorbiva interessi colossali e, pertanto, apparivano destinati ad un perenne sottosviluppo, mentre gli stati occidentali (pur indebitati, ma essenzialmente verso i propri cittadini) erano creditori netti nei loro confronti. Ancora nel 1998 la Russia fu costretta al default.

Oggi la situazione si è capovolta: Cina, Russia, India ed anche Brasile custodiscono presso le loro banche centrali cospicue tranche del debito pubblico americano ed europeo, la Cina è oggi il massimo creditore mondiale, mentre gli Usa sono il massimo debitore mondiale in cifre assolute ed il secondo (dopo il Giappone) in rapporto al Pil.

In questo rovesciamento che vede molti paesi dell’ex “Terzo Mondo” diventare da debitori al limite del default a creditori netti e di primaria importanza, hanno influito diversi fattori che indichiamo in questo ordine:

a- il processo di delocalizzazione industriale dai paesi europei e nord americani verso quelli asiatici e latino americani (in parte anche verso l’est Europa), alla ricerca di forza lavoro a basso costo che ha determinato un costante flusso di investimenti esteri verso i paesi emergenti

b- i flussi migrativi dai continenti del sud del Mondo verso quelli settentrionali, con conseguente flusso economico di rimesse verso i paesi di provenienza

c- i particolari equilibri monetari che hanno permesso ai paesi manifatturieri (come la Cina, in parte l’India, il Vietnam, il Messico, la Turchia) massicce esportazioni per le quali la loro bilancia dei pagamenti è risultata costantemente in attivo per 15, 20 ed anche 30 anni consecutivi

d- il deciso miglioramento delle condizioni di scambio fra le materie prime dei paesi del sud del Mondo (è il caso, in particolare, del Brasile) ed i prodotti tecnologici progettati dai paesi del Nord, ma poi prodotti ed assemblati in altri paesi del Sud.

e- in misura via via  inferiore, hanno inciso anche gli aiuti internazionali e l’haircut concesso a diversi di essi negli anni novanta, per il debito pregresso.

D’altra parte, i processi di finanziarizzazione dell’economia dei paesi precedentemente industrializzati, di cui dicevamo, hanno creato ulteriori masse di capitale in cerca di impieghi remunerativi che, pur se in parte minoritaria, hanno ulteriormente alimentato le correnti di investimento verso paesi quali la Cina, il Vietnam, l’India.

Assai meno brillante è il bilancio sul piano dell’”esportazione della democrazia” in nome della quale si sono combattute guerre come quella afghana e quella irakena. Molti paesi precedentemente a regime totalitario o autoritario (Russia, Ucraina, Bielorussia, Kazhakistan, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, paesi della ex Jugoslavia, Sud Africa, Venezuela) hanno adottato nuove carte costituzionali che segnano il loro pass