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Il senso dell’amore è nella promessa di un bene che oltrepassa la frattura della morte

di Francesco Lamendola - 29/11/2013

 

 

 

 

 

 

Gli esseri umani cercano l‘amore: vogliono darlo e vogliono riceverlo; anche nella relazione d’amore più squilibrata, più aberrante, più carica di dolore, permane sempre, per quanto deturpata e sfigurata, per quanto quasi irriconoscibile, la nostalgia della pienezza della relazione che completa l’io con il tu, dell’incontro felice tra l’io e i tu.

«Amare ed essere amato, solo questo m’importava», confessa San’Agostino, parlando della sua giovinezza; per concludere, uomo maturo e filosofo che ha seriamente affrontato i massimi problemi del’esistenza umana: «Ama e fa’ ciò che vuoi»; come dire: «Se davvero sei diventato capace di amare, di amare veramente, allora tutto il resto è secondario: qualunque cosa vorrai fare, la farai bene, perché essa sarà ispirata e sorretta dallo slancio più alto di cui sia capace l’anima umana: l’amore».

Ma che cos’è l’amore, che cos’è il vero amore? È eros, philia, agape, o cosa? Eros è il livello immediato dell’amore: è legittimo, è bello, è appassionato; ma si alimenta della bellezza e della giovinezza dei corpi, desiderata con avidità: in esso, pertanto, vi sono già le premesse per il suo decadimento. Che cosa succederà quando la bellezza e la giovinezza verranno meno? Si sarà attratti da altri corpi, più giovani e più belli: è quasi inevitabile. Philia è l’amore fraterno, l’amore di amicizia: è nobile, prezioso: più evoluto di eros, ma ancora legato a un oggetto individuale, al quale si attacca con affetto e benevolenza; non riesce a universalizzarsi, a travalicare la dimensione del singolo. Agape (in latino: charitas, è l’amore spirituale, l’amore disinteressato, che desidera il bene dell’altro e nulla chiede per sé: è la forma più alta, ed è l’unica che possa estendersi ad abbracciare tutti gli uomini, anzi tutto il creato, senza perdere nulla della sua forza originaria; perché esso può amare infinitamente senza mai esaurirsi, senza mai consumarsi.

Una cosa è certa: per saper amare, bisogna imparare a uscire dall’ego, a dire “tu”; bisogna essere capaci di porre l’altro, di riconoscerlo, di conferirgli attenzione, importanza, dignità: di vedere in lui un soggetto e non un oggetto, meritevole dello stesso bene che si vorrebbe per se stessi. Chi non impara a dire “tu”, a porre l’altro, a riconoscergli uno statuto ontologico e morale uguale al proprio, non saprà mai amare: perché amare significa uscire dalla prigione del proprio piccolo io, eternamente bramoso e timoroso, eternamente in cerca di gratificazioni e riconoscimenti e spaventato all’idea di non riceverli o, se li riceve, di poterli perdere.

C’è un grande equivoco, a questo proposito, quando si dice “amore”: perché desiderare di riceverlo, ma non essere capaci di donarlo, è una contraddizione in termini; eppure è la condizione quasi normale per un grandissimo numero di persone le quali dicono, e sinceramente credono, di sapere che cosa sia l’amore. Gli analfabeti dell’amore credono che basti desiderare l’altro, conquistare l’altro, possedere l’altro; ma senza affermarlo, senza porlo, senza accoglierlo. Pensano che tutto questo sia “romanticismo” e ne parlano, se ne parlano, con un sorrisetto di scherno; si credono esperti in materia, ma solo perché hanno appreso e sviluppato l’arte di fare conquiste: conquiste di corpi, ma senza mai mettersi in gioco, senza mai uscire dalle mura del loro io.

Ci piace qui riportare alcune riflessioni del teologo Giancarlo Vendrame, nel suo libro postumo «La teologia della carità», composto negli anni ’70 per gli studenti di un corso di Teologia morale tenuto all’Accademia Alfonsiana di Roma e poi raccolto in volume da un gruppo di suoi amici ed estimatori, dopo la prematura scomparsa dell’Autore (H. Kellermann Editore, Vittorio Veneto, 1996, pp.  99-102):

 

«Il fattore essenziale sembra essere il seguente: “in tutti i caso possibili ed immaginabili, amare significa approvare, definire buono (gutheissen). Ciò va inteso, anzitutto, nel pieno senso letterale del termine. Amare qualcuno o qualcosa significa: chiamare e definire ‘buono”’ questo qualcuno o questo qualcosa e affermare nei suoi confronti: è bene che ciò esista, è bene che tu sia al mondo” (J. Pieper, “Sull’amore”). “L’amore è l’affermazione dell’altro”: che cosa significa? Bisogna riconoscere che simile enunciato è per lo meno ambiguo. Alcuni affermeranno che l’amore è frutto della conoscenza: essi lo riconducono nell’ambito dell’esperienza del conoscere o lo intendono come conseguenza della conoscenza,  pur importante più dello stesso conoscere. Qualcuno, consapevole dell’uso strumentale della ragione nell’epoca tecnologica, proporrà di intendere l’amore come una manifestazione della volontà; per costui l’affermazione dell’altro non è una proposizione enunciativa, è l’opposti di una neutralità distaccata  e teoretica; è l’approvazione, il consenso  della volontà all’altro. Ci sarà chi, cosciente che la riduzione attivista e strumentale vizia anche la volontà, avanzerà l’ipotesi che l’affermazione dell’altro  è il frutto di una spontaneità ingenua oppure di un impulso irrazionale; è qualcosa che “capita”  in un modo più o meno incomprensibile. Qualcuno infine negherà la possibilità di affermare l’altro. Ciò che caratterizza queste risposte e che alla fine le accomuna, è la tendenza far slittare il problema di facoltà in facoltà umana, da una sfera d’esperienza al’altra, mantenendolo sempre allo stesso livello. […] L’affermazione dell’altro non si ha ne fare qualcosa di ancora inattuato,  bensì nella condizione di accogliere, confermare a approvare qualcuno che si offre; questo consenso non si porta su qualcosa dell’altro (è bello che tu sia così), ma sull’altro in quanto tale (è bene che tu sia).  Al di qua delle molteplici situazioni in cui si stabilisce  una correlazione tra “cogito” e oggetto conosciuto, tra “volo” e oggetto voluto, tra sentire e contenuti del sentimento,  c’è un’esperienza radicale in cui l’io si trova davanti all’altro faccia-a-faccia: è un’esperienza anteriore ed irriducibile alle correlazioni conoscitive, volitive ed emotive e che sostiene tutte queste  correlazioni, che la assumono sempre parzialmente e  provvisoriamente. La radicalità dell’affermazione dell’altro  esige anche la risaluta alla radicalità dell’io stesso: l‘affermazione dell’altro non è l’atto di UNA facoltà piuttosto  che di un’altra, né è UN atto dell’io accanto ad altri atti qualitativamente o quantitativamente diversi, ma è l’atto originario dell’io, l’atto che pervade fino in fondo ogni altro atto  come suo “principio”. Nell’amore  è affermato qualcosa che  coglie e tocca nella radice  la struttura dell’esistenza nella sua totalità. […] Ma che cosa si vuole quando si afferma l’altro? Amare significa incontrare e riconoscere l’altro nella sua soggettività: “Amare significa volere l’altro come soggetto” ( G. Madinier, “Conscence et amour. Essai sur le ‘nous’”). Affermare l’altro come soggetto: noi rischiamo di affermare l’altro come soggetto individualisticamente  concepito, se per soggettività intendiamo quella emergente del puro rispetto come autocoscienza.  Se, invece, per soggettività intendiamo  quella dell’io che afferma l’altro, allora vengono superati i tanti pseudo-interrogativi. Naturalmente a questo livello di profondità l’io afferma l’altro come soggetto libero ed aperto, non come una pura affermazione teoretica,  né con un’azione sull’altro, bensì costruendosi come soggetto aperto all’altro. […] A questo punto emergono dei problemi finora lasciati in penombra. È vero che non si deve amare uno PERCHÉ È COSÌ, né lo si deve amare PERCHÉ È; lo si deve amare e basta. Però è anche vero che l’altro si presenta a me  in modo determinato: è certamente UN volto, ma è anche QUEL volto con QUELLA pelle.  Di quest’affermazione dell’altro concreto si può dire quanto E. Fromm afferma del “pensiero produttivo”. Nell’affermazione dell’altro il soggetto non è indifferente, ma è in causa direttamente; l’altro non è qualcosa di staccato dalla sua vita, , al contrario lo interessa totalmente e intensamente; l’io è chiamato a vedere se stesso quale è,  cioè ad essere consapevole della costellazione particolare  nella quale si trova come soggetto relazionato all’altro. D’altra parte l’affermazione dell’altro è caratterizzata  dall’obiettività, dal rispetto per l’altro, dalla capacità di vederlo quale è non quale lo si vorrebbe. Essere obiettivi significa capacità di cogliere i singoli tratti della realtà nella loro singolarità e nella loro interconnessione e significa anche capacità di cogliere i singoli elementi nel loro rapporto con la totalità di un fenomeno; nel nostro caso significa capacità di cogliere le qualità dell’altro nella loro unicità e interconnessione e specialmente di scoprire il rapporto esistente tra le qualità e la soggettività dell’altro. L’affermazione obiettiva dell’Altro non significa distacco neutrale; significa rispetto, capacità di non distorcere  le cose, gli altri e se stessi.  Ciò differenza l’obiettività da quella falsa soggettività  in cui il pensiero si afferma in modo imperialista,  generando il pregiudizio, il pensiero capriccioso,  la fantasia. Ma l’obiettività non è neppure, come spesso sembra implicito in una falsa idea dell’obiettività scientifica, sinonimo di distacco, di assenza di interesse e sollecitudine. La relazione dell’alterità offre la possibilità  di una affermazione originaria e concreta insieme.»

 

Tutto vero. Una cosa resta ancora da aggiungere al nostro discorso: l’impossibilità di concepire l’amore vero in un contesto puramente immanentistico, all’interno di una visione del reale del tutto materialista e meccanicista. Perché l’amore è una scommessa contro la morte: non è solamente dire all’altro: è bene che tu sia, che tu sia così come sei, unico, irripetibile, ed è bello per me volerti bene, accoglierti, accettarti, valorizzarti in questo tuo essere; è anche dire: tu non morirai. Cioè: il mio bene per te durerà per sempre, la nostra relazione non finirà: oltrepasserà anche i duri cancelli della morte, qualunque cosa ci sia al di là di essa.

Il vero amore, infatti, è radicale, totale affermazione della vita: ma non della vita fisica, così com’è; perché si sa che essa è destinata a sfiorire, ad appassire, a spegnersi; bensì della vita piena, della vita come slancio dell’essere che attraversa il non essere, lo popola, lo anima, lo vivifica, appunto; è luce che non si spegne, bellezza che non si offusca, verità che non tramonta, amore che non finisce. Il vero amore è emanazione dell’Essere, perché solo un atto di amore giustifica l’esistenza degli enti, l’emergere dell’essere dal non-essere; e solo un infinito amore li può sorreggere nonostante tutto, nonostante le ferite che essi si infliggono, nonostante lo scacco e l’oltraggio della morte, che, con la sua misteriosa e drammatica frattura, sembra orientare l’esistenza verso il non-senso, verso il buio, verso il disordine.

Perciò ripetiamo, con Gabriel Marcel: amare è dire: Tu non morirai! Non già perché noi siamo Dio: solo Dio, a rigore, potrebbe pronunciare, nel senso pieno delle parole, una frase del genere; ma perché in quella affermazione appassionata, che è uno slancio dell’anima verso il bene infinto dell’altro, è come se noi gli promettessimo la nostra perenne fedeltà, la nostra indefettibile presenza, benevola e accogliente, disinteressata e generosa. Chi è amato in questo modo, sa che non morirà: perché sa che una forza immensa lo accompagnerà sempre, qualunque cosa accada. Tutto questo non toglie il pungiglione della morte, non elimina il paradosso della morte, non rimuove lo scandalo della morte; ma dà un senso al morire, lo illumina, lo circonfonde di una dolcezza infinita. Muore davvero solo chi muore solo. Ma forse nessuno muore del tutto solo, perché l’Essere è presente anche nella cella del condannato, anche nella sala operatoria ove giace l’agonizzante, anche al fianco del suicida nell’ultimo istante della sua vita.

E tuttavia, manca ancora qualcosa. Noi non possiamo dire all’altro: «tu non morirai», basandoci solo sulle nostre forze; non possiamo fare una simile dichiarazione, che è anche una promessa, fondandoci sulla nostra sola umanità; per poterlo dire con pienezza e con verità, noi abbiamo bisogno di Qualcuno che se ne faccia garante, che ne avalli la solennità e l’autorevolezza; in altre parole: noi non possiamo dire all’altro: «tu non morirai», parlando solo a nome nostro; possiamo dirlo solo alla presenza di un Terzo, che sarà il silenzioso testimone della nostra serietà esistenziale e della sincerità e intensità della nostra promessa. Senza di Lui, tale promessa sarebbe fallace: sincera, forse, e generosa; ma tremendamente insufficiente.

E questo è il ruolo dell’Essere: perché, come si è detto, ogni cosa viene dall’Essere, e se le cose esistono, se vi è l’essere invece del non-essere, ciò non si spiega che con un atto di amore capace di imprimere il movimento, di introdurre una realtà ove nulla esisteva. Né il caso, né una intelligenza fredda e distaccata potrebbero averlo fatto: il primo perché, a sua volta, dovrebbe essere stato causato da qualche altro agente; la seconda, perché non avrebbe trovato in sé alcuna valida ragione per decretare l’inizio di ciò che esiste.

L’Essere, perciò, non è semplicemente lo sfondo della nostra parabola esistenziale, né solo l’origine lontana del nostro esserci: è il fondamento e il garante dell’amore; di ogni amore: finito e infinito…