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Bisogna essere genitori per capire l’immensa complessità della società odierna

di Francesco Lamendola - 24/12/2013




 

Bisogna essere genitori per capire e rendersi conto, sino in fondo, di quanto la società odierna sia diventata immensamente complessa, difficile e quasi indecifrabile, rispetto a due o anche a una sola generazione fa.

Ciò sia detto senza alcuna forma di supponenza o di presunzione verso chi non è genitore; del resto, le tipologie psicologiche e spirituali delle persone non sposate sono estremamente varie e, in alcuni casi, diametralmente opposte. Si va da chi ha una cronica insicurezza nei confronti della vita, a chi si sente talmente spavaldo e iperattivo da non poter dedicare un pensiero a una eventualità come quella di essere genitore; da chi sceglie il celibato per una autentica vocazione religiosa, a chi è troppo chiuso nel proprio egoismo e nella propria immaturità per arrivare a concepire non solo il fatto della genitorialità, ma anche soltanto della vita di coppia.

Non ci permettiamo di esprimere giudizi: non stiamo affermando che la persona che diventa padre o madre è anche, per ciò stesso, migliore di quella che non lo diventa; nessun giudizio di valore: semplicemente una constatazione. Il mondo attuale è divenuto eccezionalmente, pericolosamente complesso, e solo chi fa l’esperienza di avere un figlio, o più figli, di allevarli, di educarli, di aiutarli a inserirsi nella vita, può cogliere questa complessità sino in fondo. Magari la persona che non ha conosciuto la paternità o la maternità riesce a comprendere più a fondo altre cose: è perfettamente possibile; ma l’esperienza della genitorialità è decisiva dal punto di vista che abbiamo indicato. E ciò è più vero oggi di quanto non lo fosse ieri e, probabilmente, di quanto non lo sia mai stato in passato: perché essere genitore era forse più faticoso, ma meno difficile, se per difficile si intende qualcosa che è anche, appunto, terribilmente complesso.

C’è troppa gente che, senza aver avuto figli e senza aver dovuto confrontarsi con la difficoltà di essere genitore oggi, crede di poter dare giudizi su tutta una serie di cose che conosce solamente per sentito dire; che, abituata a non avere altra preoccupazione, nella vita, che per se stessa, o, al massimo, per i propri genitori e per il proprio compagno o la propria compagna (cosa certamente  importantissima e apprezzabilissima, ma, comunque, il più delle volte – anche se non sempre – meno impegnativa e meno frustrante), emette a cuor leggero sentenze su come ci si dovrebbe comportare con i figli o, magari, si abbandona a petulanti elucubrazioni di tipo sociale e politico, come se si potesse pensare il bene della società senza aver fatto l’esperienza di lavorare quotidianamente e duramente per il bene della propria famiglia, figli compresi.

Già è difficile essere coppia, oggi: essere coppia non effimera, s’intende: perché tutto l’andamento della società va in direzione diversa, in direzione della disgregazione sociale, dell’individualismo esasperato e, spesso, dell’edonismo aggressivo, non certo in quella della collaborazione, della complementarità e della collaborazione attiva e generosa; si vorrebbe quantificare ogni piccolo sacrificio e vederne riconosciuto il valore in termini di contrattualistica, si vorrebbe segnare sulla partita doppia del dare e dell’avere ogni gesto, ogni parola, ogni pensiero, in vista di un ritorno, di un compenso, di una restituzione.

A maggior ragione è divenuto estremamente impegnativo, e per molti aspetti frustrante, essere genitori: essere genitori e non, semplicemente, fare i genitori: perché non è un’attività a tempo determinato, non è un mestiere o una libera professione, non è – soprattutto – un abito che ci si possa sfilare di dosso, che si possa dismettere quando si è stufi, o quando i figli hanno compiuto la maggiore età. Essere genitori comporta un impegno e una responsabilità che durano per tutta la vita, anche se bisognerebbe abituare i figli a non appoggiarsi troppo sull’aiuto e sulla disponibilità dei propri genitori - innanzitutto per il loro bene, per fare sì che crescano e maturino, e poi anche per il bene e per la pace dei genitori stessi, che avrebbero il “diritto” – ma usiamo il verbo al  condizionale e mettiamo il vocabolo fra virgolette, perché spesso le cose vanno in maniera totalmente diversa – di godersi un po’ di serenità almeno quando i figli sono diventati grandi o, comunque, autosufficienti.

La prima difficoltà che i genitori devono fronteggiare oggi è quella di proteggere i loro figli dalle influenze maligne del sistema di vita moderno: la televisione, la pubblicità, il quotidiano cattivo esempio degli adulti, i giochi elettronici, la droga, la tentazione della guida spericolata, le amicizie sbagliate, i pericoli sessuali, il sotterraneo lavaggio del cervello da parte della cultura materialista e rozzamente edonista ovunque imperante.

Basterebbe una sola di queste “agenzie negative” per vanificare lo sforzo costante, paziente, quotidiano, di due genitori bene intenzionati: basterebbe la sola televisione - specie se il bambino o il ragazzo hanno la possibilità di passare molte ore davanti al piccolo schermo, senza controllo, senza limite, senza alcun filtro rappresentato dalla presenza del genitore che li aiuti a decodificare nella maniera giusta i programmi e, naturalmente, a selezionarli e a scremarli – per riuscire a distruggere quel che è stato costruito nel corso di mesi e anni.

E non c’è praticamente difesa: a parte la soluzione estrema di eliminare fisicamente la televisione dallo spazio domestico (ma ha senso agire come i luddisti e lanciare una crociata contro le macchine? e si può eliminare anche tutto il resto, computer compreso; si può chiudere fuori della porta di casa tutto il mondo moderno?), bisogna comunque rassegnarsi a giocare in difensiva, a limitare i danni, a offrire spunti e riflessioni per non lasciarsi totalmente abbindolare, soggiogare, incretinire: ma è come lottare contro l’idra di Lerna, le cui innumerevoli teste sorgono dai tronconi del mostro ogni volta che ne venga tagliata una.

L’azione combinata delle seduzione dei messaggi negativi, della morale a rovescio, del consumismo spersonalizzante che facilita il processo di deresponsabilizzazione dei soggetti umani, esercita quotidianamente una pressione fortissima, crea una disarmonia costante, uno stato patologico cronico che finisce per essere accettato e vissuto come “normale”, pur se viene riconosciuto (il che è molto dubbio) e pur se, in linea teorica, ne vengono colti i risvolti minacciosi. Sicché un genitore che voglia aiutare il proprio figlio a mettersi in guardia contro tali pericolo rischia di passare per un visionario, per un allucinato che farnetica di oscuri complotti che i giovani non percepiscono affatto o di realtà, pratiche e situazioni che, semmai, essi valutano in maniera sostanzialmente positiva.

La seconda difficoltà è data dalla estrema fragilità dei bambini e dei ragazzi d’oggi, unita a una loro maggiore tendenza alla critica e alla contestazione: sicché, mentre ai genitori di una o due generazioni or sono bastava dire una cosa e pretenderne il rispetto, oggi è necessario chiederla e motivarla, con molta probabilità di non essere ascoltati, di non essere nemmeno capiti, oppure, all’opposto, di dover fronteggiare reazioni estreme, imprevedibili, sproporzionate (come una fuga da casa o un tentativo di suicidio davanti a un semplice rimprovero o a un insuccesso scolastico). I genitori di oggi vivono tra la frustrazione e l’angoscia: la frustrazione di non essere presi sul serio e l’angoscia di provocare nei figli delle risposte incontrollabili e distruttive.

Di per sé, il fatto che oggi sia necessario spiegare le cose, motivarle, farne comprenderne la giustezza, invece di limitarsi a pretenderle (come facevano i nostri genitori e i nostri nonni) non è una cosa negativa, perché attesta una accresciuta esigenza, nei giovani, di senso critico: ma guai a confondere tale ESIGENZA con il POSSESSO del senso critico. I giovani sono, cioè, più sensibili di quelli di un tempo al bisogno di giustizia, ma questo non significa che ne abbiano un’idea esatta o, comunque, che ne abbiano un’idea realistica: la loro accresciuta sensibilità, per non dire la loro ipersensibilità, non si accompagna, sovente, a una corrispondente capacità di assumere impegni, responsabilità e doveri; semmai è vero il contrario.

Di conseguenza i genitori non solo non possiedono più validi strumenti per farsi ascoltare e per far sì che i figli acquisiscano una attitudine all’obbedienza, ma devono conquistarsi quest’ultima tutti i santi giorni, mettendosi, per così dire, su di un falso piano di parità con loro (falso, perché devono sembrare eguali nei diritti, mentre non lo sono affatto nei doveri); e, come se non bastasse, devono continuamente sorvegliare affinché le loro richieste, i loro messaggi, i loro esempi giungano nella maniera giusta, abbiano un impatto educativo e non puramente negativo. Il che rappresenta una fatica di Sisifo, tanto più che i genitori, a loro volta, devono già fronteggiare, nella loro vita quotidiana – nel loro rapporto di coppia, nel loro rapporto di lavoro, nel loro rapporto di figli (con i nonni dei loro figli), una frustrazione e un’angoscia di poco  inferiori; né dispongono delle riserve di energia, materiali e spirituali, cui potevamo attingere i genitori in passato.

La terza difficoltà è originata dal vuoto di valori complessivo in cui l’azione del genitore si esercita oggi; dal deserto affettivo in cui essa rischia di apparire come incongrua e irragionevole; dal venir meno di un autentico orizzonte di speranza, che la fondi e la giustifichi. Per esempio, come dire al proprio figlio: «Studia, compi il tuo dovere, e poi fa’ della tua vita quel che vuoi», sapendo che, molto probabilmente, il suo diploma non servirà a nulla, la sua buona volontà non lo aiuterà a farsi strada nella vita, perché lo attende un futuro da disoccupato? Come dirgli: «Sii buono e gentile, sii onesto e sobrio, sii mite e incline al perdono», in un mondo di cattivi e maleducati, di disonesti e di voluttuosi, di violenti e di vendicativi: non significa, forse, consegnarlo inerme a un destino di sofferenza e di sconfitta? E come insegnargli il valore della bellezza, della poesia, del lavoro ben fatto, in un mondo di bruttezza, di volgarità, di cose anonime fatte in serie, ma senza amore, senza attenzione, senza intima partecipazione?

Nella società di alcune generazione fa – in pratica, nella società pre-moderna – era tutto più semplice, più lineare, più sensato: era possibile indicare ai figli una direzione, una meta, uno scopo, ed anche un risultato; era possibile indicare dei valori condivisi dall’intera società (anche se, naturalmente, non tutti li rispettavano: nessuno, però, li negava o li sbeffeggiava apertamente); ed era possibile vedere il risultato positivo di determinate azioni e di certi comportamenti, nonché la maniera naturale in cui essi si inserivano nel contesto sociale, armonizzandosi con quelli degli altri: mentre oggi la società è dominata dalle note discordi di cento, mille musiche diverse, ciascuna delle quali, originata dall’egoismo individuale, tende a sovrastare e a soverchiare le altre.

In altre parole, ai genitori di oggi non resta che il compito ingrato di dare costantemente, silenziosamente, eroicamente, un esempio di vita, che la società smentisce in continuazione; un esempio di onestà, di rettitudine, di altruismo, che non trova riscontro, o lo trova assai raramente da parte degli altri, mentre il più delle volte esso viene ricambiato con la disonestà, la cialtroneria, lo spreco, l’ostentazione, tipici della società consumista e grossolanamente utilitarista, ove ognuno si ritiene sciolto da obblighi e ove ognuno persegue la propria felicità privata, senza bisogno degli altri e, non di rado, a danno degli altri.

A tutto questo si aggiungano la confusione, lo smarrimento, le tentazioni ai quali genitori, a loro volta, sono continuamente esposti; e la perdita, in moltissimi casi, di quelle sorgenti di pace interiore, di saggezza, di spiritualità, cui potevano attingere i nostri nonni: la perdita del legame con il soprannaturale, con il sacro, con il divino; la perdita di senso della misura, di senso del limite, di senso del mistero, che costituivano la consolazione, la forza, l’armatura morale – per così dire - dei genitori del tempo passato.

Perché il genitore, prima di tutto, è, a sua volta, un essere umano; e un essere umano, nel mondo d’oggi, è, prima di tutto, una creatura che ha smarrito il senso della propria creaturalità, ossia del proprio legame necessario con l’Essere, dal quale soltanto potrebbe attingere quella forza, quel coraggio, quella saldezza, di cui avrebbe bisogno nelle prove e nelle battaglie quotidiane, piccole e grandi, di cui è fatta la vita.

L’uomo moderno ha reciso il proprio legame con la trascendenza, credendo di valorizzare se stesso, di promuovere se stesso, di emanciparsi: e si ritrova più povero, più solo, più alienato da sé: perché l’uomo, privato della relazione con l’Essere, non è che una scheggia impazzita, un meteorite che vaga nel nulla, in attesa di precipitare e di schiantarsi da qualche parte.

La via d’uscita, dunque, non può essere che ripartire dal punto in cui abbiamo sbagliato la strada: rientrare in noi stessi; ritrovare il sentiero dell’Essere; riscoprire la luce soprannaturale che può accompagnarci, sostenerci, fortificarci nel viaggio della vita – e anche nel difficile ruolo di genitori.