Teilhard ha creato una gnosi cristiana in cui la scienza prende il posto della fede
di Francesco Lamendola - 02/01/2014
Teilhard de Chardin è piaciuto e piace tuttora a molti intellettuali “cattolici” i quali, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, si sono serviti del Concilio stesso come di un grimaldello per scardinare e distruggere la tradizione e per rifondare un cristianesimo “nuovo” ed “evoluto”, al passo con i tempi: un cristianesimo “moderno”, insomma, ad uso degli uomini contemporanei e “liberato”, secondo loro, da quelle anacronistiche incrostazioni superstiziose e autoritarie che lo hanno appesantito nel corso dei secoli.
Diciamo che Teilhard piace a codesti cristiani “progressisti” e, più ancora, alla cultura laicista, che non si lascia scappare la minima occasione per fare leva sul senso di colpa di molti intellettuali cristiani per le passate e recenti nefandezze della Chiesa (dai roghi dell’Inquisizione ai casi di pedofilia) e strappare loro l’impegno ad una maggiore “apertura”, ad un maggiore “coraggio” nel venire incontro al mondo moderno, mediante il quale essi perseguono il fine, beninteso non dichiarato, di distruggere completamente quel che resta dell’idea di cristiana: ma di distruggerla subdolamente e servendosi delle stesse mani dei suoi benintenzionati seguaci.
Piace Teilhard, non tanto il suo pensiero: dal momento che quello che circola attualmente ad opera della cultura laicista e “progressista” è la versione, ancor più semplificata e forzata, di un pensiero che già, di per sé, si presenta come confuso e contraddittorio. Per cui codesti divulgatori del teilhardismo si guardano bene dal sottolineare la candida fede del gesuita, la sua obbedienza al magistero, e fanno di tutto per presentare il teilhardismo come l’ultima versione, aggiornata e finalmente evoluta, di un cristianesimo degno di non sfigurare troppo nel salotto buono della modernità: di essere accettato come “scientifico” e non già confuso con quella imbarazzante congerie di miti, di leggende, di simboli ormai sorpassati, che facevano somigliare il cristianesimo del passato a quelle costruzioni fantastiche e a quelle stregonerie che vanno sotto il nome di credenze religiose. Roba buona per gli uomini rozzi e incolti del Medioevo, non certo per gli uomini postivi e razionali del terzo millennio, che guardano al futuro con piena e assoluta fiducia in se stessi e nelle loro facoltà razionai.
Lo aveva già notato Etienne Gilson: o Teilhard è stato un incoerente, oppure è stato il più subdolo degli eresiarchi; perché, nella sua costruzione speculativa – ammesso che la si possa definire tale – la teoria biologica dell’evoluzionismo, eretta a dogma incontrovertibile e dilatata a valore assoluto e onnicomprensivo, finisce per inghiottire la teologia e per superarla, rendendola inutile: il cosmo evolve verso il Cristo Risorto con forza irresistibile, per cui all’uomo non resta altro da fare che partecipare a questa marcia trionfale (della ragione); anzi, l’uomo è già stato superato, l’uomo come lo conoscevamo appartiene già al passato, ormai l’uomo si è proiettato oltre se stesso e tende al proprio compimento, nell’abbraccio cosmico con la divinità.
Un po’ di Darwin, un po’ di Nietzsche, un po’ di San Paolo (ma letto e interpretato a senso unico), e il gioco è fatto: non c’è più il Gesù storico, il Dio incarnato, il mistero della Trinità; non c’è più la vecchia e “fastidiosa” antitesi tra la dimensione verticale del rapporto fra uomo e Dio (quella della trascendenza) e la dimensione orizzontale (quella della storia); come nell’idealismo hegeliano e come nel marxismo, le “magnifiche sorti e progressive” sono in marcia per forza propria, per una superiore necessità, e tutto quel che si chiede all’uomo è di parteciparvi e di affrettare il loro avvento: non già di assumere una decisione individuale, di mettersi in gioco davanti al mistero del Dio che si fa uomo, di accogliere il mistero della croce e quello della grazia, che è, poi, il mistero dell’amore: no, basta capire (ecco la gnosi!) che l’universo è in marcia verso il Cristo finale, verso il “punto Omega” della creazione, e che è cosa intelligente salire a bordo del treno “giusto” prima che l’occasione sia passata e che la storia vada avanti senza di noi.
C’è ancora qualcosa di cristiano, in questo guazzabuglio di scienza evoluzionista e di misticismo escatologico, che lo stesso Teilhard definiva, talvolta, come un “meta-cristianesino” e in cui egli pretendeva di rifondare l’antropologia, facendo dell’uomo un superuomo in cammino: una creatura, cioè, che non si capisce perché debba andare verso il Cristo cosmico, dal momento che è già una creatura cosmica e autosufficiente, pienamente liberata e redenta, appunto perché “evoluta”, ed evoluta nel senso più classicamente, più darwinianamente biologico della parola? Secondo noi, ben poco: sarebbe più esatto definirlo un compromesso fra Lucrezio e Marcione. Da Lucrezio riprende il senso di assolutezza della natura e la visione drammatica della vita; dalla gnosi riprende l’idea centrale che esiste, accanto al cristianesimo ad uso popolare, un altro cristianesimo, molto più colto e raffinato, ad uso dei filosofi: e che questo secondo cristianesimo, quello “vero”, è basato non sul credere, ma sul conoscere; e, dunque, che è una faccenda prevalentemente, se non esclusivamente, intellettuale, insomma qualcosa di molto più vicino al neoplatonismo che al Vangelo, qualcosa in cui si parla molto del Logos e assai meno dell’Amore divino.
Jacques Maritain - che pure non è stato del tutto estraneo a quel tentativo di rovesciamento dall’interno del cristianesimo, culminato nella “rivincita” che il pensiero modernista ha cercato di prendersi attraverso il Vaticano II – ha bene fotografato il grande equivoco su cui si regge il teilhardismo, anche se la sua analisi è sostanzialmente ripresa da quella di Etienne Gilson: «Le cas Teilhard de Chardin» (apparso sulla rivista «Seminarium, n. 4, 1965, pp. 720 sgg.). Maritain ne dà una buona sintesi in quella specie di testamento spirituale che è «Le paysan de la Garonne», in cui il filosofo francese, ritiratosi a Tolosa, si trasforma in pompiere di quello stesso fuoco riformatore che aveva contribuito ad accendere ai tempi del Concilio. La critica a Teilhard è molto lucida (da: «Il contadino della Garonna», Brescia, Morcelliana; Banca Antoniana Veneta, 1996, vol. 1, p. 173):
«Teilhard pensava che “nel primo secolo della Chiesa il Cristianesimo fece il suo ingresso definitivo nel pensiero umano, assimilando arditamente il Gesù del Vangelo al Logos alessandrino” (s’ingannava in questo: è avvenuto “tutto il contrario”. I Padri apologeti non assimilarono arditamente il Gesù del Vangelo” al Logos alessandrino”; più arditamente ancora “assimilarono invece al Cristo Salvatore del Vangelo proprio il Logos alessandrino). Comunque siano andate le cose, ciò che Teilhard credette necessario per i nostri giorni era di compiere l’operazione inversa a quella che egli credeva essere stata fatta dai Padri. Si tratta dunque d’una “trasposizione completa della cristologia, di una “generalizzazione del Cristo Redentore in un vero Cristo evolutore”. Bisogna “integrare il cristianesimo alla cosmogenesi; bisogna che “la teologia assimili oggi il Cristo alla forza cosmica, origine e fine dell’Evoluzione. Che rivoluzione! C’invitano semplicemente a ricondurre nel posto giusto la fede nel Redentore”.»
E questa, per Teilhard, non è una rivoluzione (partita, oltretutto, da un equivoco storico-filosofico: che i Padri abbiano assimilato il Logos alessandrino, mentre furono i filosofi greci ad assimilare il Vangelo); no, macché rivoluzione: basta rimettere “nel posto giusto” la fede nel Redentore. Una cosuccia da nulla, insomma; un semplice dettaglio. E qual è codesto “posto giusto”? Ma è ovvio: l’Evoluzione (sì, scritta con la lettera maiuscola), il nuovo Verbo della scienza darwinista; sicché Cristo Redentore diventa, né più né meno, il garante di «una funzione fisica universale», cioè, guarda caso, dell’evoluzionismo stesso! In altre parole: l’evoluzionismo è l’ultima e definitiva parola della scienza in fatto di realtà universale (e già qui ci sono due eresie: una scientifica, perché nella scienza non esistono verità “definitive”, e una filosofica e religiosa, perché la realtà visibile è solo una parte della Realtà); ma Cristo è il “punto Omega” della creazione: dunque, Cristo è colui che garantisce la verità dell’Evoluzione e, con essa, l’approdo finale dell’umanità al suo perfetto compimento, che non è Cristo stesso, ma è… l’Evoluzione! Sembra un gioco di scatole cinesi: l’evoluzionismo è la verità; ma anche Cristo è la verità; allora Cristo garantisce la verità dell’evoluzione e l’evoluzione garantisce la verità di Cristo. Che cosa resta da fare all’uomo, a questo punto? Farsi seguace dell’evoluzionismo cristiano o del cristianesimo evoluzionista, sapendo che, in ogni caso, la corrente va in quella direzione. Che ne resta della sua libertà di scelta, del suo dovere di scegliere, del rischio, del paradosso della fede di kierkegaardiana memoria; che ne resta della croce, dello scandalo, del Dio che si è fatto uomo per condividere la condizione umana e non per additare all’uomo la sua auto-deificazione? Che ne resta del Discorso della montagna, del monito ai sapienti e dell’esaltazione degli umili di spirito, del mistero del peccato e della redenzione, della presenza amorevole dello Spirito Santo? Non basterà aspettare che l’Evoluzione si compia, che faccia tutto lei, e affidarsi al suo corso potente, al suo infallibile disegno?
Ci sembra che, per questa strada, si torni al deismo illuminista, al grande Architetto dell’universo, all’Essere Supremo dei robespierristi; si torna al Dio di Voltaire, un Dio che non dà ombra, che non fa sentire piccolo l’uomo, di cui non c’è veramente bisogno: un piccolo Dio poco ingombrante, che serve giusto per tirarlo fuori nelle grandi occasioni, per consentire all’uomo di recitare, ogni tanto, la commedia della falsa modestia; un Dio, soprattutto, che non domanda mai all’uomo, a ciascun essere umano: «Che ne è di tuo fratello Abele?», perché il Cristo cosmico di Teilhard è troppo circonfuso di gloria ultraterrena per scendere fra le lacrime e i drammi di questo basso mondo non ancora “evoluto”, ancora così immerso nel dolore e nell’impotenza, così imprigionato nelle debolezze e nelle contraddizioni umane.
No: il Dio di Teilhard è un Dio tirato a lucido, tutto scintillante come un satino New Age; i suoi chiodi, la sua corona di spine non sono che uno sbiadito ricordo, un qualcosa di lontano e di irreale: Egli è possente e luminoso (e questo va bene), ma forse non ha mai conosciuto l’angoscia e il tormento della solitudine e dell’abbandono nell’Orto degli ulivi (e questo è eretico): è un Dio puramente divino, come per l’arianesimo; ma, al tempo stesso, puramente umano, come per il materialismo. In fondo, non è altro che il principio stesso dell’evoluzione, santificato e assolutizzato, addirittura deificato. Non è il Dio del Golgota e del Tabor: è il Dio di Darwin, un Darwin redento e convertito, finalmente liberato dall’equivoco del XIX secolo: perché ha compreso che Dio non è altra cosa dall’evoluzione, è l’evoluzione stessa.
Tutto questo può essere sembrato seducente a quei cristiani i quali pensavano, e forse pensano tuttora, che il cristianesimo sia un fenomeno storico che deve essere continuamente aggiornato ai tempi della storia: la sua verità non è una verità eterna, ma contingente; mano a mano che i tempi della storia cambiano, e cambiano le sensibilità e gli orizzonti culturali, bisogna continuamente rivederlo, ammodernarlo, rimetterlo in “sintonia”. Eh, via: perché annoiarci ancora con queste vecchie storie della Passione e della Croce, perché rattristarci ancora con il Peccato Originale, quando la scienza ci garantisce che va tutto bene, che tutto procede nel migliore dei modi possibili per la forza stessa della materia, e che noi dobbiamo soltanto dire “sì” all’evoluzione per trovarci dalla parte giusta della barricata?
In fondo, il teilhardismo è una forma di vitalismo esasperato: presenta più analogie con la stramba dottrina nietzschiana (dottrina, non pensiero) dell’Eterno Ritorno, che con il cristianesimo quale lo abbiamo sempre conosciuto. O, almeno, quale lo abbiamo conosciuto prima che i teilhardisti venissero a rischiarare la tenebre della nostra grossolana ignoranza e a dirci che la fede in Cristo Risorto e quella nell’Evoluzione della materia sono una stessa ed unica cosa. Non c’è più male, anzi non c’è più il Male; meglio: il Male non c’è mai stato (semmai, era il frutto della nostra ignoranza); perché, nella prospettiva di un evoluzionismo assoluto, tutto è bene, tutto è bene così com’è, così come lo è la materia in costante evoluzione. E il Bene? Ammesso che ci sia ancora bisogno di un tale concetto (dal momento che non c’è più il Male…), diremo che il Bene è l’Evoluzione, il Bene è la nostra scoperta che l’Evoluzione ci conduce al Cristo cosmico, così come l’autostrada del Sole ci conduce alle località balneari per la nostra meritata villeggiatura.
Non solo questo non è più cristianesimo, ma ne è la negazione e il totale rovesciamento. Dopo di che si può essere teilhardisti fin che si vuole; ma, per carità, chiamiamo le cose con il loro nome: pane al pane e vino al vino. O si è teilhardisti o si è cristiani. Se ciascuno si potesse fabbricare un cristianesimo su misura, allora perché no un cristianesimo hegeliano, marxista, freudiano e così via?